1. Sono passati cinque mesi da quando sono emersi alla luce del sole – o, più esattamente, delle intercettazioni ambientali – gli incontri indecenti di Luca Palamara e di alcuni componenti del Consiglio superiore con i parlamentari Luca Lotti (autorevole ex ministro del Pd) e Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa, già segretario di Magistratura indipendente approdato dapprima al Governo in quota Berlusconi e poi in Parlamento nelle fila del Partito democratico, prima di transitare nelle truppe di “Italia viva”) per condizionare, tra l’altro, le nomine dei Procuratori della Repubblica di Roma e Perugia. Dopo le prime, inevitabili, conseguenze (la sospensione dalle funzioni dell’ex presidente dell’Anm, le dimissioni dal Csm dei consiglieri coinvolti, il pensionamento anticipato del Procuratore generale della Cassazione, colto in imprudenti conversazioni con Palamara) ci sono stati i subentri e le elezioni suppletive per sostituire i componenti pubblici ministeri del Csm dimissionari non surrogabili ed è prossimo il voto per la copertura dell’ultimo posto di consigliere rimasto vacante, così da ripristinare l’interezza del Consiglio. Oggi, a bocce (quasi) ferme e mentre editorialisti e politici di ogni colore continuano a tuonare contro le “correnti” della magistratura[1], si apre – crisi e fibrillazioni di governi e di maggioranze permettendo – la fase degli interventi, più volte preannunciati, per “riformare” e “moralizzare” la giustizia con la discussione parlamentare sulle molteplici proposte formulate dal ministro guardasigilli e da diverse forze politiche, comprensive di modifiche profonde in tema di composizione del Csm e della sua sezione disciplinare, sistema elettorale (costruito intorno al meccanismo, pur diversamente coniugato del sorteggio)[2], incompatibilità tra incarichi politici e (successivo) esercizio di funzioni giudiziarie, separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, criteri di priorità nella trattazione degli affari giudiziari e finanche superamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
L’impressione è che la, pur necessaria, “ricostruzione annunciata” si stia trasformando in un mix di polverone mediatico, cambiamento gattopardesco e occasione per un regolamento di conti (da tempo atteso) con l’indipendente esercizio della giurisdizione. Per questo – per contribuire a individuare gli interventi necessari e appropriati e per contrastare quelli impropri e strumentali – conviene contestualizzare l’affaire Palamara/Ferri e ragionare un po’ più a fondo sullo stato di salute della magistratura[3] e dei rimedi possibili.
2. Non è ‒ questo ‒ il primo passaggio delicato della storia dell’autogoverno giudiziario per fatti connessi con la “questione morale”[4] da quando, nel 1981, la polizia giudiziaria varcò i cancelli di palazzo dei Marescialli per perquisire lo studio del vicepresidente Zilletti (poi costretto a dimettersi perché lambito dalle indagini relative al banchiere Roberto Calvi) e sino a che, nel 2011, il consigliere laico (allora) di fede leghista Matteo Brigandì venne sorpreso con le mani nel sacco in un’operazione di delegittimazione del pubblico ministero milanese Ilda Boccassini attraverso documenti consiliari secretati indebitamente sottratti[5].
E non è la prima volta in cui sono emersi collegamenti di personaggi autorevoli dell’associazionismo giudiziario o della magistratura tout court con lobby o ambienti affaristici e finanche criminali. Ricordo, tra i casi più eclatanti, quello di Carmelo Spagnuolo, già potente procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma e poi presidente di sezione della Corte di cassazione, radiato dalla magistratura nel 1979 con sentenza della Sezione disciplinare per l’affidavit rilasciato il 21 novembre 1976 a garanzia della correttezza del confratello piduista Michele Sindona, “perseguitato da giudici di sinistra per ragioni politiche”[6]; quello di Domenico Pone, segretario di Magistratura indipendente e già componente del Csm, anch’egli radiato dalla magistratura (con sentenza 9 febbraio 1983 della Sezione disciplinare) per la sua appartenenza alla P2 e i suoi rapporti con Licio Gelli diretti al finanziamento della stampa del suo gruppo associativo[7]; o ancora, in tempi più recenti quello del’ex primo presidente della Corte di cassazione Vincenzo Carbone, rimasto invischiato in vicende connesse con l’attività della cosiddetta P3[8].
Aggiungo che non sono mancati neppure interventi diretti della politica (e anche di politici inquisiti) sulle nomine dei dirigenti dei più importanti uffici giudiziari. Cito, tra i molti, le imbarazzanti leggi (anzi i decreti legge) ad personam che, nel corso dei decenni, dall’inizio degli anni Novanta, alzando o abbassando l’età pensionabile dei magistrati alla vigilia della scadenza e/o di importanti processi, hanno mantenuto in carica procuratori della Repubblica della capitale (e non solo) e presidenti o procuratori generali della Cassazione o alterato i meccanismi concorsuali per accedere alla direzione della Procura nazionale antimafia. Probabilmente – almeno mi auguro – ciò è avvenuto senza sollecitazioni o richieste dei dirigenti interessati ma certo c’è stata la loro accettazione degli effetti di modifiche normative anomale (tanto che quelle leggi sono tuttora ricordate con i nomi dei magistrati favoriti).
Tutto ciò va ricordato per consentire un necessario sguardo largo e per individuare interventi coerenti. Ma – superfluo dirlo – la situazione odierna è connotata da una particolare gravità tanto da apparire assimilabile, per drammaticità, solo a quella del 1983, quando fu necessario un duro e irrituale intervento del presidente della Repubblica Pertini per salvare il Consiglio dallo scioglimento sollecitato dal procuratore di Roma Gallucci nel corso delle indagini per il cosiddetto scandalo dei cappuccini[9]. C’è infatti, questa volta, qualcosa di più che nelle occasioni precedenti. Ci sono, insieme, il numero e l’eterogeneità dei magistrati coinvolti (parte consistente delle componenti consiliari di Unità per la Costituzione e di Magistratura indipendente); l’emergere di un sistema lobbistico a cui partecipano senza remore magistrati autorevoli – per storia o per ruolo – e settori della politica; il condizionamento delle procedure per la nomina dei dirigenti di uffici giudiziari nevralgici e insieme – fatto ancor più grave – la pretesa di scegliere i magistrati preposti ai proprî processi (essendo Palamara e Lotti imputati rispettivamente davanti alla Procura di Perugia e a quella di Roma); una spregiudicatezza di progetti e di obiettivi lontana le mille miglia dal costume e dall’habitus della giurisdizione; un linguaggio e una volgarità da Suburra; la disinvolta strumentalizzazione delle funzioni proprie e di colleghi (evidenziata dal progettato utilizzo in favore di Palamara e contro i suoi avversari interni alla Procura romana di un esposto di un sostituto nato in tutt’altro contesto); l’accettazione, nel Consiglio, di metodi siffatti o, comunque, una mancanza di attenzione ai loro sintomi e molto altro ancora.
E non vale dire che pratiche analoghe sono tristemente praticate anche nelle nomine dei prefetti o dei questori, dei presidenti delle aziende sanitarie o dei direttori dei telegiornali, dei rettori delle Università o dei vertici di polizia e carabinieri. È vero, come la cronaca quotidiana dimostra. Ma non è buona cosa usare come giustificazione del proprio operato le malefatte altrui e, soprattutto, il malcostume è doppiamente grave quando riguarda organi o istituzioni (come la magistratura) preposti al controllo sull’altrui correttezza.
3. Lo scandalo era, per molti versi, uno scandalo annunciato. Il ruolo di Cosimo Ferri sul delicato crinale tra magistratura e politica (bipartisan…) è noto da lustri e Magistratura indipendente, che a lui continua a fare capo, ha incrementato proprio per questo i suoi consensi (finanche nelle recenti elezioni suppletive per il Csm, intervenute dopo l’affaire Palamara e a seguito dello stesso). E l’adesione a Unità per la costituzione è stata tradizionalmente una sorta di polizza assicurativa per giudici e pubblici ministeri alla ricerca di un incarico direttivo. Ciò evidenzia un dato fondamentale ai fini dell’individuazione degli interventi normativi e amministrativi necessari in materia, e cioè che il Consiglio superiore – questo come quelli che lo hanno preceduto – non è un corpo a sé ma la realizzazione di ciò che vuole una parte consistente della magistratura (anche se – spero – non la sua maggioranza). A ciò le correnti della magistratura (alcune di esse in particolare) hanno aggiunto del loro, ma il problema non nasce qui.
Il clientelismo e la ricerca di protezioni politiche, anche tra i magistrati, ha radici antiche se è vero che già più di un secolo fa la legge n. 438 del 1908 vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera e che il divieto, pur ribadito, durante il fascismo, da una circolare del guardasigilli Rocco del febbraio del 1930, era sistematicamente violato, al punto che uno dei successori di Rocco, Dino Grandi, si sentì in dovere di richiamarlo con il telegramma-circolare n. 2473 del 7 maggio 1940 in cui si sottolineava la necessità (quantomeno) di evitare il flusso e la permanenza a Roma dei magistrati che assediavano i componenti del Consiglio superiore per tutto il tempo in cui gli stessi erano impegnati negli scrutini o nelle promozioni. Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto con cui Dante Troisi descrive (in Diario di un giudice del 1955) il collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non può ambire alla "meritata promozione". Se poi posso citare l’esperienza personale, aggiungo che tutto ciò ho toccato con mano durante la mia esperienza consiliare, dal 2006 al 2010, in cui molte sono state le richieste di “appoggi” e altrettante le amicizie cancellate per non averli accordati[10].
Allo stesso modo la disinvoltura e (a volte) la spregiudicatezza nei rapporti di alcuni magistrati con il sottobosco politico e affaristico non sono – come si è detto poco sopra – una novità, ancorché sottovalutata dalla corporazione (e nei rapporti dei capi degli uffici).
È dunque alla situazione della magistratura che occorre fare riferimento se si vuole davvero incidere sulla sua escrescenza nell’autogoverno giudiziario e sulle relative avvilenti manifestazioni. Concentrando l’attenzione e le critiche esclusivamente sul Csm, infatti, non si considera che il cuore del problema sta, prima che nell’organo di governo autonomo, nel corpo stesso della magistratura. E questo vizio di analisi si riverbera, inevitabilmente, sulle soluzioni proposte.
4. Per questo non convincono le proposte sul tappeto, centrate sulla modifica del rapporto tra laici e togati in Consiglio e sul sorteggio dei componenti dell’organo di autogoverno.
Primo. Non serve – ed è anzi controproducente – la proposta, contenuta nel progetto di revisione costituzionale sulla giustizia in discussione alla Camera (“Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”), di istituire due Consigli superiori – uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri – e di modificare, in essi, il rapporto tra membri togati e membri di estrazione politica rendendolo paritario (anziché di due terzi e un terzo) allo scopo di eliminarne la denunciata “politicizzazione”. Strana idea quella di contrastare i vizi e le degenerazioni di una istituzione attribuiti alla negativa influenza della politica aumentandone il collegamento con questa! È un’operazione assai simile a quella di affidare al lupo la tutela dell’incolumità di Cappuccetto rosso. Soluzione, dunque, peggiore del male denunciato e impraticabile per la “contraddizion che nol consente” (a meno che tutt’altro sia l’obiettivo perseguito…).
Secondo. Neppure serve la bizzarra proposta di scegliere mediante sorteggio i componenti del Consiglio. Idea curiosa, quella di affidare al caso la composizione di un organo di rilevanza costituzionale, ma non archiviabile con un’alzata di spalle, come accaduto sino a qualche tempo fa. Essa infatti, oltre ad essere contenuta (in una versione apparentemente soft ma egualmente irrazionale[11]) nel disegno di legge predisposto dal guardasigilli Bonafede, è oggi molto gettonata dentro e fuori la magistratura (con sostenitori bipartisan tra i quali si sono arruolati, da ultimo, Luciano Violante e Carlo Nordio), trova sponde in settori tradizionalmente schierati a sostegno di pubblici ministeri e giudici (come Il Fatto Quotidiano), è nelle corde di almeno una della forze di governo (dopo che, giusto un anno fa, Beppe Grillo la avanzò finanche per la scelta dei senatori…) ed è entrata, come asserito strumento di democrazia, persino negli scritti di autorevoli studiosi[12]. Non interessa qui esaminare le controindicazioni politiche generali di tale strumento né segnalarne gli ostacoli di ordine costituzionale (almeno sino a che resterà in vigore l’art. 104, comma 4, della Carta fondamentale secondo cui i componenti magistrati del Consiglio sono eletti «da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie» e quelli laici «dal Parlamento in seduta comune»)[13] quanto, piuttosto, indicare le ragioni che lo rendono incongruo e inidoneo al fine dichiarato. Tre su tutte:
- il sorteggio non è un antidoto a clientelismo e malcostume (che – come si è detto in precedenza – affondano le loro radici in un’epoca in cui le correnti e lo stesso Consiglio superiore neppure esistevano). Potrebbe, forse, porre un freno alle cosiddette lottizzazioni nel conferimento di uffici direttivi, ma non è questo il sistema messo a nudo dallo scandalo Palamara-Lotti-Ferri, nel quale i manovratori appartenevano a due soli gruppi associativi e i due principali candidati alla Procura di Roma aderivano alla stessa corrente, sì che la scelta dell’uno o dell’altro non era legata all’appartenenza correntizia ma, in modo ancor meno nobile, alla ritenuta maggiore o minor duttilità nella gestione di indagini eccellenti… Il correntismo esiste ed è spesso fonte di fenomeni degenerativi che vanno contrastati con durezza ma confondere i piani non risolve i problemi. La realtà – più grave di quella che si descrive con il termine correntismo – è che i fattori inquinanti dell’attività consiliare sono molteplici. Quattro anni di Consiglio mi hanno dimostrato che le decisioni e le nomine deviate hanno madri e padri diversi ed eterogenei (egualmente dislocati tra togati e laici): l'appartenenza correntizia degli aspiranti, certo, ma anche – e talora ancor più – la loro provenienza geografica, il loro transito in uffici strategici, i rapporti amicali, le pressioni[14] o anche semplicemente le affinità politiche[15] e molto altro ancora. Tutti fenomeni sui quali il sorteggio non inciderebbe in alcun modo, anche a tacere del fatto che delle monadi isolate e non comunicanti (come dovrebbero essere i sorteggiati) non sarebbero certo al riparo da pressioni e condizionamenti;
- il Consiglio superiore è un organo di rilevanza costituzionale con attribuzioni molteplici. Nomina i dirigenti degli uffici e predispone i trasferimenti dei magistrati ma non si limita a questo: dà pareri sui disegni di legge che riguardano la giustizia, indirizza al Parlamento relazioni su specifici aspetti della attività giudiziaria, valuta le situazioni di incompatibilità dei magistrati disponendone, se necessario, il trasferimento, interviene a tutela dell’indipendente esercizio della giurisdizione quando è messo in discussione, esercita (tramite l’apposita sezione costituita al suo interno) la funzione disciplinare, verifica la correttezza e la congruità dell’assegnazione degli affari giudiziari tra i magistrati e molto altro ancora. Sono, tutte, attribuzioni che comportano decisioni e scelte connesse con le diverse impostazioni culturali e lato sensu politiche presenti tra i magistrati e che non troverebbero rappresentanza (se non casuale) attraverso il sorteggio. Ma, a ben guardare, ciò vale anche per l’attribuzione degli uffici direttivi. Tutti si affannano a dire che i dirigenti vanno nominati facendo riferimento esclusivo alle capacità. Ci mancherebbe che così non fosse! Ma nessuno, sinora, ha individuato dei criteri oggettivi per misurare le capacità salvo quello, palesemente incongruo, dell’anzianità. Non per caso ma perché, nella definizione delle capacità, entrano inevitabilmente valutazioni discrezionali che dipendono (anche) dalle diverse concezioni della giustizia e della sua organizzazione (basti pensare al maggiore o minor interventismo, alle idee sulla distribuzione degli affari, alla cultura dell’organizzazione e via elencando). Eliminare in radice questo pluralismo nelle scelte sarebbe del tutto irrazionale: tanto quanto sorteggiare direttamente i dirigenti…;
- non tutti sono egualmente adatti a funzioni di governo come quelle del Consiglio superiore e dei suoi componenti. Non è, dunque, saggio che a decidere delle maggiori o minori attitudini sia la sorte anziché l’insieme dei pari. Né è vero – come pur si sente ripetere – che è per definizione in grado di partecipare attivamente all’autogoverno chi ogni giorno svolge funzioni ben più delicate come quella di giudicare sulla vita, sull’onore o sui beni dei suoi simili. L’affermazione è tanto suggestiva quanto sbagliata per la decisiva ragione che si tratta di funzioni del tutto diverse: il miglior magistrato può essere un pessimo organizzatore esattamente come il miglior medico può essere del tutto incapace a dirigere un ospedale.
Terzo. Non sono risolutive, infine, modifiche del sistema elettorale. Potrebbero aiutare, se non altro perché l’attuale sistema, predisposto nel 2002 dal Governo Berlusconi (guardasigilli il leghista Castelli), pur annunciato come il requiem per le correnti, ne ha, in concreto, esaltato il ruolo limitando significativamente la possibilità di scelta dei magistrati elettori, come dimostra il fatto che nelle elezioni del luglio 2018, nella categoria pubblici ministeri, ci sono stati quattro candidati, uno per ciascuna componente associativa, per quattro posti (sic!). Dunque ben venga un confronto sui cambiamenti possibili al riguardo, che sono a ben guardare molti: dal ripristino di un sistema proporzionale in collegio unico nazionale (aperto a candidature di liste o di singoli e con possibilità di voto disgiunto o panachage per diminuire il peso degli apparati correntizi) alla previsione di collegi uninominali (almeno per la categoria dei giudici di merito). Ma con la consapevolezza che si tratterà, nel caso, di modifiche importanti ma non decisive.
5. Che fare, dunque? Rassegnarsi allo status quo o a “riforme” inadeguate o, addirittura, peggiorative?
Certamente no. Anzi, occorre un salto di qualità e un impegno pratico e progettuale moltiplicato. Ma nella direzione giusta: quella della ridefinizione dell’assetto, della cultura e delle prassi della magistratura, la cui involuzione burocratica e funzionariale degli ultimi anni (effetto anche dell’arroccamento corporativo conseguente alla lunga stagione del berlusconismo) ha favorito l’estendersi di malcostume e clientelismo, che – come noto – trovano terreno fertile nel corporativismo, nel pensiero unico e nel consociativismo.
L’antidoto ai fenomeni degenerativi in atto non sta in operazioni di ingegneria istituzionale (che spesso, come è accaduto in passato, aggravano ulteriormente la situazione) ma nel recupero del senso profondo della giurisdizione, della parità delle funzioni giudiziarie e dell’indipendenza (esterna e interna) di pubblici ministeri e giudici. Un recupero non facile ché il modello di magistratura ad esso sotteso è stato sconfitto all’inizio del millennio, prima sul piano culturale e poi con le riforme ordinamentali dei ministri Castelli e Mastella (leggi 25 luglio 2005, n. 150 e 30 luglio 2007, n. 111). Si fondava – quel modello ‒ su suggestioni e istituti volti a disegnare una magistratura diversa, organizzata su basi egualitarie e democratiche e aperta a forme impegnative di partecipazione popolare, estranea ai circuiti del potere e capace di inverare il modello costituzionale (che vuole, appunto, i giudici soggetti soltanto alla legge e diversificati tra loro non per gerarchie ma esclusivamente per funzioni). La cultura che lo supportava è rimasta forte, pur tra alti e bassi, sino alla metà degli anni Novanta. Poi, appunto, è stata sconfitta o, se si preferisce, si è esaurita: per molte ragioni tra le quali spicca la seduzione, anche a sinistra, del nuovo verbo della “governabilità”. Ma non ci sono alternative: da lì occorre ripartire. E nella ripartenza è indispensabile il protagonismo dei magistrati o, almeno, dei loro gruppi più consapevoli e avanzati.
Primo. C’è, anzitutto, da ridisegnare un modello di magistratura su cui chiamare al confronto la cultura politica e giuridica. È un’operazione di medio e lungo periodo ma non elusiva. Solo così, infatti, è possibile uscire, subito, dalle secche del pensiero dominante dando agli stessi magistrati idee, prospettive e orizzonti diversi dalla pura gestione dell’esistente e dalle polemiche contingenti nelle quali sembrano contare solo i decibel dei “dibattiti” televisivi e le logiche di schieramento. In questo percorso alcuni passaggi sono chiari da subito:
- l’imprinting del magistrato è dato dal reclutamento. È lì che si forgiano i pubblici ministeri e i giudici dei decenni a venire. Le più recenti “riforme” ordinamentali hanno puntato su una sorta di concorso di secondo grado con accesso riservato, oltre che ai laureati in giurisprudenza diplomati presso la scuola di specializzazione per le professioni legali, ai magistrati amministrativi e contabili e ai procuratori dello Stato, ai dirigenti della pubblica amministrazione (centrale o degli enti locali) con almeno cinque anni anzianità con laurea in giurisprudenza e ad altri status Ne è seguita una rinnovata selezione per censo, l’innalzamento del livello medio dell'età dei vincitori del concorso, l’esclusione di alcuni dei candidati più brillanti e motivati, l’incremento della connotazione burocratica dei nuovi magistrati: in una parola, una profonda trasformazione sociologica (se non addirittura antropologica) del corpo giudiziario. Occorre, per questo, cambiare strada, e farlo presto;
- i fenomeni di malcostume, di clientelismo, di lottizzazione e quant’altro si concentrano – come mostra la cronaca – nelle nomine. È un caso o ciò ha a che fare con il ruolo che i dirigenti degli uffici rivestono nel sistema istituzionale? E se è vera la seconda alternativa, non sarebbe opportuno intervenire su quel ruolo? I dirigenti degli uffici giudiziari (della Procure in particolare, ma non solo) sono tuttora, per i compiti loro attribuiti e in una tradizione che affonda addirittura in epoca liberale e nel fascismo, dei centri di potere di primo piano (al punto che, nel manuale Cencelli della politica, il procuratore della Repubblica di Roma vale quanto due o tre ministri…). Ciò ne drammatizza la nomina e stimola appetiti e pressioni di diversa natura. E, prima ancora, stravolge il senso dell’attività giudiziaria coinvolgendola in giochi di potere che dovrebbero esserle estranei. Occorre, dunque, cambiare strada e prevedere la dirigenza degli uffici giudiziari come incarico temporaneo affidato a un primus inter pares, preposto essenzialmente a garantire l’indipendenza e la correttezza dell’attività dei colleghi (spostando nel contempo le responsabilità dell’organizzazione a personale amministrativo dotato di specifica competenza: soluzione tradizionalmente contestata dall’Anm ma con argomentazione prevalentemente ispirate a un corporativismo fuori tempo). Un tempo questa si chiamava temporaneità degli uffici direttivi ed escludeva, per la funzione dirigenziale, il carattere di carriera con relativo cursus honorum. Poi – era la primavera del 2001 – venne il sen. Pera (guardasigilli designato della destra prima di assurgere, inaspettatamente, alla presidenza del Senato) e spiegò che il termine “temporaneità” significava in realtà tutt'altro e cioè che il presidente del Tribunale di Lucca – la citazione è pressoché testuale – non poteva passare l'intera vita professionale nella ridente città toscana ma doveva di lì prendere le mosse per diventare poi, sempre a termine, presidente del Tribunale di Firenze e poi ancora di quello di Roma... La correzione di tiro non destò, in realtà, scandalo ché anche nella cultura progressista si era ormai fatta strada la convinzione che trovato e preparato un buon dirigente, sarebbe irrazionale privarsi della sua professionalità. Da allora “temporaneità della funzione direttiva” è diventata semplice “temporaneità di sede”, situazione che alimenta, anziché disincentivare, calcoli e carrierismi. Anche qui occorre cambiare radicalmente registro tornando alla impostazione originaria[16];
- ciò che maggiormente nuoce alla giurisdizione sono i collegamenti impropri tra magistrati e politica, collegamenti che, invece, sono sempre più stretti anche in termini palesi e istituzionali e riguardano non già la “politica delle idee” ma la “politica del potere”[17]. Qui non c’entrano – o c’entrano in misura ridotta – le correnti: c’entra l’occupazione degli uffici del Ministero della giustizia (e non solo) da parte di singoli magistrati chiamati ad personam da ministri e sottosegretari e c’entrano gli incarichi di diretta estrazione politica. È – questo – un sistema privo, salvo casi eccezionali, di valide giustificazioni (non essendo dato vedere, se non in una prospettiva di protezione o di potere corporativo, perché il capo di gabinetto del ministro o il direttore dell’Amministrazione penitenziaria debbano essere giudici o pubblici ministeri…) che è fonte di un continuum tra politica e magistratura e di una cultura che non vede in esso controindicazioni o inopportunità. Merita segnalare, come esempio relativo proprio allo scandalo qui in esame, che uno dei magistrati chiamati a sostituire un collega dimissionario si è trasferito a palazzo dei Marescialli direttamente dal Ministero della giustizia (dopo che, del resto, un analogo trasferimento era avvenuto, con un brevissimo intermezzo, verso la direzione della più grande Procura della Repubblica del Paese). Non è in discussione la correttezza professionale dei magistrati interessati ma c’è un problema di cultura del ruolo e di immagine pubblica che non può essere ignorato.
Secondo. Occorre, dunque, disegnare un nuovo modello di giudici e pubblici ministeri che, in attesa della sua (eventuale) realizzazione, non resterà senza conseguenze sulle prassi e sulla cultura del ruolo. Ma, prima ancora, occorre, almeno da parte delle componenti progressiste della magistratura – e di Magistratura democratica in particolare ‒ un’analisi attenta e una denuncia ferma delle cadute, delle compromissioni, delle deviazioni che investono la giurisdizione, la sua organizzazione, l’associativismo giudiziario. Da sempre – in ogni ambito – il malcostume si contrasta evitando le coperture corporative e contrapponendovi una cultura e un metodo di confronto alto sulle idee e sui progetti. Questa cultura – forte negli ultimi decenni del secolo scorso (grazie soprattutto all’elaborazione e agli interventi di Magistratura democratica e delle sue pubblicazioni) – si è progressivamente attenuata sino a scomparire, lasciando il posto a un marcato consociativismo (dimostrato, per esempio, dalla prassi costante, o quasi, dei governi unitari, con rotazione nelle cariche, dell’Anm) e alla difesa dell’autogoverno comunque e a prescindere (mettendo la sordina alle polemiche sugli atteggiamenti clientelari e deviati di alcuni, forse nella convinzione di evitare così l'indebolimento dell’istituzione in un momento difficile ma dimenticando che il Consiglio e le sue contingenti maggioranze non sono la stessa cosa ed è proprio la critica forte a queste ultime che salva la sostanza e l'immagine del primo...). Lo dico in maniera un po’ brutale: il problema non sono le correnti, ma il loro venir meno, la loro trasformazione in un unico indistinto correntone. Senza un recupero della cultura critica e di prassi conseguenti ‒ le vicende di questi giorni sono lì a confermarlo ‒ non si uscirà dal pantano e non si faranno passi avanti significativi, qualunque siano i cambiamenti sul piano dell’ingegneria istituzionale[18].
Certo, non ci sono bacchette magiche e ci vorrà tempo. Ma occorre almeno incominciare, nella consapevolezza che – come in tutti i disastri del Belpaese, ma questa volta inevitabilmente – una ricostruzione salutare non avverrà mediante interventi esterni ma solo grazie all’impegno e all’azione dei diretti interessati, cioè dei magistrati.
[*] Questo scritto riprende in parte rilievi già svolti, all’emergere dello scandalo Palamara/Ferri, in La magistratura, il Consiglio superiore, la questione morale, Il Ponte, luglio-agosto 2019.
[1] Al coro si è unita, incredibilmente, la dirigenza dell’Associazione nazionale magistrati, che si è spinta a sollecitare, per le elezioni suppletive dei componenti del Csm, candidature naïves e, soprattutto “non correntizie”: con l’ovvio risultato che il voto ha premiato la visibilità mediatica e chi non si è attenuto a tali indicazioni.
[2] Cfr. sul punto, in queste pagine, gli scritti di Nello Rossi (www.questionegiustizia.it/articolo/la-riforma-del-csm-proposta-dal-ministro-bonafede_12-07-2019.php) e Valerio Savio (www.questionegiustizia.it/articolo/come-eleggere-il-csm-analisi-e-proposte-il-sorteggio-e-un-rimedio-peggiore-del-male_26-06-2019.php).
[3] Per una prima analisi si veda, in queste pagine, Nello Rossi www.questionegiustizia.it/articolo/lo-scandalo-romano-un-bubbone-maligno-scoppiato-in-un-organismo-gia-infiacchito-da-mali-risalenti_18-07-2019.php
[4] La denuncia di lottizzazioni e malcostume è vecchia come il Consiglio: personalmente ho cominciato a sentirne parlare quando sono entrato in magistratura, nel lontano 1970. Il fatto è che spesso gli autori delle denunce sono proprio coloro che maggiormente praticano i metodi denunciati o fanno parte dei gruppi più clientelari. Semplice esemplificare: nel Consiglio superiore 2006-2010, del quale entrambi facevamo parte, Cosimo Ferri era solito presentarsi come moralizzatore e difensore dei magistrati “senza protezioni”… Ma è stato così anche in epoca risalente come risulta, per esempio, da uno scritto del 1983 di Salvatore Senese, allora componente del Csm: «Il fenomeno così viene descritto nella prosa del consigliere Carmelo Conti del gruppo di Magistratura indipendente: “Non si guarda più tanto al vero merito, all’anzianità, al diritto, ma si fanno comparazioni e giochi delle candidature coi gruppi contrastanti, si sceglie a prescindere da quelli che dovrebbero essere elementi di valutazione coerenti e legali. La lottizzazione costringe il singolo magistrato interessato che conosce questo meccanismo perverso a girare per le segreterie dei partiti, a prostituire la propria personalità, a pericolosi compromessi”. Anche sulla rivista dell’Associazione magistrati le denunce non mancano: il n. 3/1982 pubblica, a firma rispettivamente di A. Bonajuto e U. Marconi, entrambi dirigenti nazionali della corrente di Unità per la Costituzione, articoli in cui si parla di “prassi degenerative”, di “distorsioni ed abusi” e di “logica di lottizzazione”» (S. Senese, Il Consiglio superiore della magistratura: difficoltà dell’autogoverno o difficoltà della democrazia?, Questione giustizia, 1983, p. 477 ss.). Si noti che nel Consiglio a cui si riferiscono quei comportamenti i gruppi di Magistratura indipendente e di Unità per la Costituzione, lungi dall’essere marginali (e dunque destinati a subire le prassi altrui), erano maggioranza schiacciante (e dunque in grado di dettare prassi e regole senza neppure doversi confrontare con gli altri).
[5] In relazione a questa vicenda Matteo Brigandì è stato ritenuto responsabile di abuso di ufficio e condannato dal Tribunale di Roma, con sentenza 26 marzo 2013, alla pena di due anni di reclusione (confermata in appello e in Cassazione).
[6] Contemporaneamente ai suoi molteplici interventi come Procuratore generale di Roma tesi a condizionare alcuni dei più rilevanti processi dell’epoca, Spagnuolo – stando a quanto risulta dagli atti del processo penale relativo alla Loggia P2 ‒ non disdegnava né gli incontri a villa Wanda con Licio Gelli né i contatti tesi a orientare la scena politica italiana nella direzione desiderata dal capo della Loggia.
[7] Si legge nella sentenza della Sezione disciplinare: «Che il dr. Pone, esponente di rilevo del gruppo di Magistratura indipendente e suo segretario generale, abbia preso a far parte della P2 appare del tutto comprensibile, se appena si attribuisce il credito che merita al “Piano di rinascita democratica” che indicava come mezzo per raggiungere gli obiettivi il finanziamento della stampa della corrente di Magistratura indipendente: così come si è visto essersi verificato. […] Nella P2, cui ha aderito, egli ha svolto una attività che lo indica come tramite, nella magistratura, dei piani di intervento della società segreta. La compromissione del prestigio della magistratura e la lesione della fiducia e credibilità di cui il magistrato deve godere, che egli ha cagionato, appare gravissima».
[8] Per fatti emersi in quel contesto (connessi con il giudizio Mondadori/Agenzia delle Entrate) Carbone è stato condannato, con sentenza 16 marzo 2018 del Tribunale di Roma, alla pena di due anni di reclusione per il reato di abuso di ufficio, così riqualificata l’originaria imputazione di corruzione. Il giudizio di appello, a quanto consta, non è ancora stato celebrato.
[9] Quella vicenda, in cui la Procura di Roma intervenne sulla prassi di porre a carico del bilancio del Consiglio i caffè o le bevande consumati dai componenti durante il plenum, ebbe come sfondo e matrice un durissimo scontro di potere in merito alla nomina a consigliere di cassazione di Claudio Vitalone che vide schierata in favore di quest’ultimo, e senza esclusione di colpi, la Procura romana (giornalisticamente definita “porto delle nebbie”), retta allora da Achille Gallucci.
[10] Non lo dico oggi ma l’ho scritto nell’ultimo anno di quella consiliatura: «Penso che il Consiglio sia come i magistrati lo vogliono o, se si preferisce, sia fatto a immagine e somiglianza dei magistrati. Ci sono, in esso, consiglieri – non pochi, per fortuna – che rifuggono da metodi clientelari e protettivi, ce ne sono altri smodatamente clientelari, e altri ancora che usano gli stessi metodi con un minimo di discrezione. Ma, stando in Consiglio, ho scoperto che questa diversità di atteggiamenti contrassegna non solo i governanti ma anche i governati. Ho visto amici carissimi non informarmi neppure – ad evitare fraintendimenti – di domande a cui pure molto tenevano; ne ho visti altri segnalarmi con discrezione le proprie aspirazioni e non tornare più sull'argomento; e ho visto colleghi che – avanzando il titolo di avermi votato (come credo abbiano fatto con tutti i consiglieri di tutti i gruppi) – mi hanno cercato, ricercato e fatto cercare per decantare i propri meriti non sentendo ragioni né spiegazioni, certi sempre di essere i migliori... A questi ultimi – alcuni dei quali mi hanno tolto il saluto non vedendo da me riconosciuti i meriti vantati – un Consiglio clientelare è certamente gradito» (L. Pepino, «Non sognavo il Consiglio». Note sparse su magistrati, autogoverno, rappresentanza, Questione giustizia, 2009, p. 49 ss.).
[11] Per una descrizione sintetica cfr. il già citato scritto di N. Rossi www.questionegiustizia.it/articolo/la-riforma-del-csm-proposta-dal-ministro-bonafede_12-07-2019.php.
[12] È il caso, tra gli altri, del politologo francese Yves Sintomer, autore di Il potere al popolo. Giurie cittadine, sorteggio e democrazia partecipativa, Dedalo, 2008 (ed. originale francese 2007).
[13] Sul punto rinvio al già ricordato scritto di V. Savio www.questionegiustizia.it/articolo/come-eleggere-il-csm-analisi-e-proposte-il-sorteggio-e-un-rimedio-peggiore-del-male_26-06-2019.php.
[14] Nella mia esperienza consiliare ho ripetutamente denunciato, senza incorrere in smentite, gli improvvisi cambi di orientamento di alcuni consiglieri per importanti nomine in dirittura d'arrivo e in concomitanza di autorevoli visite o telefonate...
[15] Ho ancora stampato in mente – un caso per tutti – il sorriso imbarazzato e le braccia allargate di un consigliere laico di destra, fiero censore di incarichi e commistioni tra giustizia e politica, di fronte al mio sguardo interrogativo dopo il suo voto favorevole ad autorizzare un noto magistrato a fare, in mattinata, il consigliere della Suprema Corte di cassazione e, nel pomeriggio, il consulente di un ministro.
[16] Nella direzione opposta – va sottolineato ‒ sembra muoversi il disegno di legge predisposto dal guardasigilli Bonafede, nel quale, secondo le notizie filtrate dal ministero, il ruolo dei procuratori della Repubblica e dei presidenti di tribunali e corti d’appello è addirittura potenziato, sino a configurare gli attuali procuratori aggiunti e presidenti di sezione come semplici collaboratori scelti discrezionalmente dai capi degli uffici (pur dopo una consultazione dei magistrati interessati).
[17] È questa una posizione risalente nelle componenti progressiste della magistratura che, pure, hanno sempre rivendicato, la possibilità anche per i magistrati di partecipare al dibattito politico generale ed anche alle elezioni politiche. Si veda Marco Ramat, uno dei padri di Magistratura democratica, che, ricordando un dibattito nella prima campagna elettorale del gruppo nel 1964, ha scritto: «Ci furono molti interventi appassionati da parte nostra, tutti tesi a sostenere la fondamentale distinzione tra la grande politica della Costituzione, dove la magistratura deve impegnarsi, e la politica di partito, contingente, da cui la magistratura deve estraniarsi. Una distinzione essenziale, permanente, però mai acquisita; anche quando ti sembra che sia stata ormai digerita dai magistrati, rispunta» (La nascita di Md, in Gli “spiccioli” di Magistratura democratica, appendice a Aa.vv., Crisi della giurisdizione e crisi della politica, Angeli, Milano, 1988, p. 318). Per alcune importanti considerazioni sulle modifiche imposte al rapporto tra magistrati e appartenenze politiche dalla trasformazione del sistema in senso maggioritario cfr. N. Rossi, Democrazia maggioritaria e giurisdizione, in Questione giustizia, 1992, p. 524 ss.
[18] Una delle poche ragioni di speranza sta, per me, nel risveglio di Magistratura democratica che, dopo un decennio di appannamento culturale e di appiattimento corporativo mostra incoraggianti segnali di ripresa occupandosi, finalmente, dell’analisi critica della magistratura e della giurisdizione più che di nomine e di incarichi.
[*] Questo scritto riprende in parte rilievi già svolti, all’emergere dello scandalo Palamara/Ferri, in La magistratura, il Consiglio superiore, la questione morale, Il Ponte, luglio-agosto 2019.