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Libere di prostituirsi? Commento alla sentenza n. 141/2019 della Corte costituzionale

di Giulia Marzia Locati
giudice del Tribunale di Torino
Nell'affrontare il tema della prostituzione, e delle condotte di sfruttamento e favoreggiamento che da sempre la circondano e la accompagnano, la sentenza esamina i diversi modelli che nel corso del tempo e nei diversi Paesi sono stati utilizzati per regolamentare il fenomeno. Può esistere, e a che condizioni, una prostituzione veramente libera? O la scelta è sempre frutto di coartazione?

1. L'ordinanza della Corte d'appello di Bari: i dubbi di legittimità costituzionale

La prostituzione, e le condotte di sfruttamento e favoreggiamento che da sempre la circondano e la accompagnano, sono oggetto della sentenza n. 141/2019 della Corte costituzionale, che per affrontare la questione sottopostale dalla Corte d’appello di Bari esamina i diversi possibili modi di regolamentazione del fenomeno, in chiave diacronica e comparata.

Oggetto del giudizio di legittimità costituzionale è l’art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75, «nella parte in cui configura come illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata».

La Corte rimettente muove dal rilievo che, nell’attuale contesto storico, la prostituzione non è un fenomeno unitario: accanto alla prostituzione imposta dalla soggezione ad altri individui o indotta dallo stato di bisogno economico, vi sarebbe infatti una prostituzione per scelta totalmente libera e volontaria, la quale troverebbe espressione paradigmatica nella figura della escort.

In questo secondo caso, la scelta di offrire prestazioni sessuali verso corrispettivo costituirebbe una forma di estrinsecazione della libertà di autodeterminazione sessuale, garantita dall’art. 2 della Costituzione quale diritto inviolabile della persona umana. Tale libertà, di natura intrinsecamente “relazionale”, risulterebbe compromessa da disposizioni che sanzionano penalmente attività di terzi che – senza incidere sull’autodeterminazione della persona che si prostituisce – si limitano a mettere in contatto quest’ultima con i clienti (reclutamento) o ad agevolare l’esercizio della sua attività (favoreggiamento).

La disposizione sarebbe poi in contrato con l’art. 41 Cost.: le norme denunciate priverebbero infatti l’attività economica in questione della possibilità di svilupparsi al pari di ogni altra iniziativa imprenditoriale.

Ancora, le norme censurate si porrebbero in contrasto con il principio di necessaria offensività del reato (artt. 13, 25, secondo comma, e 27 Cost.): se il bene giuridico tutelato dalla norma è infatti quello della libera autodeterminazione della persona che si prostituisce (e non quello della morale pubblica e del buon costume) le condotte di reclutamento e di favoreggiamento della prostituzione liberamente esercitata risulterebbero del tutto inoffensive, in quanto si limiterebbero ad agevolare la realizzazione della scelta dell’interessata, producendo, così, un vantaggio e non un danno per lo stesso interesse tutelato.

Da ultimo, la Corte d’appello di Bari ha sollevato una questione unicamente in relazione alla fattispecie del favoreggiamento, denunciandola come lesiva dei principi di tassatività e determinatezza dell’illecito penale (art. 25, secondo comma, Cost.): la formula descrittiva della condotta incriminata risulterebbe, infatti, totalmente generica, rimettendo al giudice il compito di individuare, nella infinita gamma dei comportamenti riconducibili alla fattispecie astratta, quelli lesivi dell’interesse protetto.

2. La decisione della Corte costituzionale

2.1 Il quadro concettuale di riferimento

Al fine di affrontare le singole questioni, la Corte costituzionale compie un’accurata ricognizione del quadro concettuale di riferimento.

Definito il fenomeno della prostituzione come «l’effettuazione di prestazioni sessuali verso corrispettivo», la Corte sgombera subito il campo da possibili equivoci: quello che qui è in contestazione non è, ovviamente, la prostituzione forzata o la tratta a fini di sfruttamento sessuale − ipotesi nelle quali è l’esigenza di tutela della persona a reclamare in modo evidente e indiscutibile l’intervento punitivo − ma la prostituzione volontaria, che ha trovato un’amplia gamma di risposte differenziate circa l’an e il quomodo dell’impiego della sanzione penale.

Secondo una prima impostazione di pensiero, definita regolamentarista, «la prostituzione andrebbe riguardata come una scelta attinente all’autodeterminazione in materia sessuale dell’individuo, che dà luogo a un’attività economica legale. L’ordinamento dovrebbe, quindi, lasciare gli individui tendenzialmente liberi di praticare la prostituzione, di fruire del servizio sessuale e di agevolarlo. Si tratterebbe, semmai, solo di regolare opportunamente l’esercizio dell’attività, onde far fronte ai “pericoli” in essa insiti, analogamente a quanto avviene per tutte le attività economiche che comportino “rischi consentiti” dall’ordinamento».

Tale impostazione conosce due varianti:

1) una “classica”, che storicamente ha trattato la prostituzione come un male necessario meritevole di essere regolato, sottoponendo tale attività a controlli di polizia e subordinandola al rilascio di licenze, da utilizzare in luoghi appositi;

2) una “contemporanea”, che vede la prostituzione volontaria come un’attività economica lecita assimilabile alle altre fonti di guadagno e generatrice di ordinari diritti economici e sociali (nonché di doveri fiscali) in capo a coloro che la esercitano.

Secondo una diversa impostazione, definita abolizionista, «la prostituzione costituirebbe un fenomeno da contrastare, anche penalmente, in ragione delle sue ricadute negative sul piano individuale e sociale. Tali ricadute si apprezzerebbero su una pluralità di versanti: quello dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili; quello della dignità umana (intesa in una accezione oggettiva, ossia come principio che si impone a prescindere dalla volontà e dalle convinzioni del singolo individuo); quello della salute, individuale e collettiva (non soltanto in rapporto al pericolo di diffusione di malattie trasmissibili sessualmente, ma anche in relazione ai maggiori rischi di dipendenza da droga e alcol, nonché di traumi fisici e psicologici, depressione e disturbi mentali, cui è esposta la persona che si prostituisce); quello, infine, dell’ordine pubblico (tenuto conto delle attività illecite che frequentemente si associano alla prostituzione, quali, ad esempio, oltre alla tratta di persone, il traffico di stupefacenti e il crimine organizzato)».

Questa seconda impostazione conosce poi alcune varianti a seconda che si decida di punire:

1) entrambe le parti del mercimonio sessuale (modello proibizionista);

2) una sola di esse, normalmente il cliente (modello neo-proibizionista);

3) soltanto le cosiddette condotte parallele alla prostituzione, ossia i comportamenti dei terzi che entrano in relazione con questa, inducendo la persona a esercitare tale attività, ovvero favorendola o traendone utili (modello abolizionista).

La legge Merlin è stata adottata nel nostro Paese, la cui legislazione in questa materia era stata fino a quel momento improntata ai principi del regolamentarismo classico, sulla base del presupposto che la prostituzione, in quanto sempre e comunque lesiva della dignità delle persone che la esercitano, andrebbe nel lungo periodo eliminata. «A questo risultato non si dovrebbe giungere, però, punendo la persona dedita alla prostituzione, perché in tal modo si finirebbe per colpire due volte quelle che sono in realtà vittime del sistema sociale; e neppure punendo il cliente, perché così si scaricherebbe sul semplice fruitore della prestazione una responsabilità della quale dovrebbe farsi carico lo Stato. L’obiettivo dovrebbe essere conseguito invece, da un lato, rimovendo le cause sociali della prostituzione; dall’altro, reprimendo severamente le attività ad essa collegate – quali l’induzione, il lenocinio, lo sfruttamento o anche il semplice favoreggiamento (le “condotte parallele”) – così da non consentire alla prostituzione di svilupparsi e di proliferare».

La persona che cede prestazioni sessuali in cambio di denaro è una vittima e lo Stato deve dunque astenersi dal rendersi compartecipe dell’industria del sesso. Per raggiungere l’obiettivo che si prefissa (abolizione della prostituzione), la legge criminalizza tutte le condotte parallele vietando qualsiasi interazione di terzi con essa, sia sul piano materiale (in termini di promozione, agevolazione o sfruttamento) che su quello morale (in termini di induzione).

Nella lista dei comportamenti incriminati figurano anche le due fattispecie che formano oggetto dei quesiti di costituzionalità: il reclutamento di «una persona al fine di farle esercitare la prostituzione» (art. 3, primo comma, numero 4, prima parte) e il «favoreggiamento in qualsiasi modo della prostituzione altrui» (art. 3, primo comma, numero 8, prima parte).

2.2 L'esame dei vizi denunciati

La Corte costituzionale, dopo questo excursus, passa dunque ad esaminare i singoli vizi denunciati, dichiarando in primo luogo infondata la questione relativamente all’art. 2 Cost. Tale articolo deve infatti essere letto in combinato disposto con il successivo art. 3, comma secondo: in quest’ottica i diritti inviolabili sono necessariamente legati al valore della persona e al principio di solidarietà. Precipitato pratico di questa impostazione teorica è che «non è possibile ritenere che la prostituzione volontaria partecipi della natura di diritto inviolabile – il cui esercizio dovrebbe essere, a questa stregua, non solo non ostacolato, ma addirittura, all’occorrenza, agevolato dalla Repubblica – sulla base del mero rilievo che essa coinvolge la sfera sessuale di chi la esercita.(…)L’offerta di prestazioni sessuali verso corrispettivo non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma costituisce – molto più semplicemente – una particolare forma di attività economica. La sessualità dell’individuo non è altro, in questo caso, che un mezzo per conseguire un profitto: una “prestazione di servizio” inserita nel quadro di uno scambio sinallagmatico».

Parimenti, la Corte ritiene non fondata la questione in riferimento all’art. 41 Cost. La libertà di iniziativa economica non è tutelata dal nostro ordinamento in modo assoluto, in quanto non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. I limiti posti dalla legislazione vigente non sono altro che l’attuazione di questi principi: non è pertanto incostituzionale vietare un’attività imprenditoriale che abbia ad oggetto la prostituzione perché tale divieto è posto a presidio della dignità umana, intesa non in senso soggettivo (di ogni singola prostituta) ma oggettivo. Da questo punto di vista la prostituzione, anche volontaria, è infatti un’attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente.

Anche la censura relativa alla violazione del principio di offensività non è fondata.

Il bene giuridico tutelato dalla norma non è la libera autodeterminazione sessuale della persona che si prostituisce, ma la sua dignità, che viene lesa trattandola come un bene suscettibile di compravendita economica.

Da ultimo, la Corte ritiene infondata anche l’ultima questione, atteso che per costante giurisprudenza «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (sentenza n. 25 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004).

Nel caso di specie, la descrizione del fatto incriminato, pur nella sua asciuttezza, fa perno su un concetto, quale quello di favoreggiamento, di ampio e sperimentato uso nell’ambito del diritto penale.

3. La prostituzione può essere una scelta volontaria in una società non liberata dai bisogni?

La Corte, in chiusura, fa un’affermazione importante: tutte le riflessioni che precedono portano a ritenere che l’incriminazione delle condotte parallele alla prostituzione rappresenta una soluzione compatibile con la Costituzione, ma non è costituzionalmente imposta. La differenza non è di poco conto: la Costituzione non impone l’adozione di un modello proibizionista o di un modello regolamentarista − nelle reciproche varianti − ma rimette alla discrezionalità del legislatore la scelta sulle modalità di affrontare e fronteggiare i pericoli insiti nel fenomeno della prostituzione. La legislazione attuale altro non è che una strategia, nel ventaglio delle possibili opzioni di politica criminale, non contrastante con la Costituzione.

Se così è, ci si deve forse interrogare se la disciplina legislativa sia davvero funzionale al perseguimento dello scopo che si propone di conseguire. Il presupposto del ragionamento della Corte è infatti quello per cui la prostituzione non è mai del tutto volontaria in quanto «anche nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali». Partendo da questa riflessione, non si può non sottolineare come la disciplina legislativa sia allora carente sotto il profilo della previsione di strumenti (prettamente economici) che intervengano nella fase antecedente all’esercizio della prostituzione, come per esempio sussidi speciali. Ed infatti se l’art. 8 della predetta legge ha previsto il compito per il Ministero dell’interno di promuovere la fondazione di speciali istituti di patronato per l’assistenza e la rieducazione delle donne uscenti, per effetto della legge, dalle case di prostituzione, è altrettanto innegabile che le politiche redistributive e di assistenza al reddito nel nostro Paese non sono state storicamente tali da garantire a ciascun individuo una vita libera e dignitosa. Il primo strumento per combattere efficacemente e seriamente la prostituzione dettata da ragioni socio-economiche dovrebbe infatti essere non quello della punizione penale delle condotte che ruotano interno alla prostituzione che a priva vista può sembrare libera, ma quello di una più equa redistribuzione delle risorse, in modo tale che a ciascun individuo sia garantito un livello minimo di reddito, tale da poter vivere una vita dignitosa. In sostanza, realizzare pienamente il principio di uguaglianza sostanziale e liberare l’individuo dai bisogni è l’unico modo per incidere sulle cause strutturali del fenomeno e per distinguere realmente quella che è prostituzione volontaria da quella che non lo è in modo genuino.

Compiuto questo passo, forse si potrebbe affrontare in modo diverso la questione relativa al favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione volontaria, legando libertà individuali, diritti sociali e protezione della vulnerabilità. Represse penalmente le condotte di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione coartata, garantita l’esistenza dignitosa di tutti i soggetti presenti sul territorio dello Stato in modo tale che nessuno debba prostituirsi per necessità economica, ci potrebbe essere una garanzia non solo per coloro che legittimamente e per libera scelta decidono di fare del proprio corpo un oggetto di compravendita, ma anche per coloro che organizzano e gestiscono tale attività, come se si trattasse di una qualsiasi impresa commerciale.

Sul punto si osserva che ogni attività economica implica uno “sfruttamento” della forza lavoro di più persone da parte del titolare della predetta attività. La nostra Costituzione tutela l’attività economica, precisando che il lavoro prestato deve essere retribuito e che non deve mai essere superato il limite rappresentato dall’utilità sociale, dalla sicurezza, dalla libertà e dalla dignità umana. L’oggetto dell’attività deve poi essere lecito. Una volta che si arrivasse ad individuare le reali forme di prostituzione volontaria (nel senso innanzi indicato) potremmo allora forse legittimare anche coloro che la organizzano e la favoriscono. E dunque così come non puniamo chi organizza la forza lavoro di addetti alle pulizie e guadagna sull’attività dagli stessi prestata, non si punirebbe neanche chi svolge analoga funzione nel settore della prostituzione. O, quanto meno, non si comprenderebbe la ragione del trattare tale attività come diversa da tutte le altre. A meno di non sostenere che l’effettuazione di prestazioni sessuali in cambio di corrispettivo economico è sempre e comunque incompatibile con la dignità umana, anche quando realmente e consapevolmente scelto.

Alla posizione della Corte costituzionale si potrebbe fare un’obiezione: dire che la prostituzione è una scelta libera soltanto a date condizioni di giustizia sociale che non sono di questo mondo, significa dire che in questo mondo l'individuo è limitato nella propria capacità di giudizio sulle strategie della propria autodeterminazione. Questa posizione, che si vuole abolizionista, sembrerebbe a prima vista non allontanarsi così tanto dal proibizionismo, limitandosi a sostituire il moralismo secondo il quale la prostituzione è sempre sbagliata (per la morale pubblica, per il buon costume, per questioni religiose, etc.) con il paternalismo e il giudizio altrettanto moralistico secondo il quale l'individuo non è in grado di decidere per sé.

Si ritiene però che, a ben vedere, tra le due posizioni si possa comunque cogliere una rilevante differenza: ed infatti un conto è dire che una condotta è sbagliata in assoluto, un conto è dire che non può essere frutto di una scelta libera. Nel secondo caso non ci si pronuncia sulla condotta in sé, ma si prende atto della realtà di ingiustizia, lasciando − per coloro che vogliono vederlo − lo spazio per costruire condizioni di possibilità in cui, se non si è liberi dal bisogno, almeno lo si è un po' più di prima. La prima posizione non può essere che punitiva, mentre la seconda può essere costruttiva.

25/06/2019
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