La predominante retorica della rivalità di classe, tra lavoratori garantiti (dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, assistito dalla tutela dell’art. 18 dello Statuto del 1970) e quelli esclusi da ogni garanzia, ha pressoché assorbito la discussione che ha preceduto pochi mesi fa il varo del Jobs act: la Grande Riforma del mercato del lavoro, capace di associare (nelle parole dei proponenti) l’ampliamento delle tutele nel mercato alla decisa attenuazione di quelle all’interno del rapporto.
Nei fatti, questo ambizioso programma ha trovato attuazione in una serie di decreti legislativi che hanno mirato dritto all’obbiettivo della massima estensione dell’applicazione del contratto a tempo indeterminato, ormai privo della sua caratteristica tipica, ovvero la garanzia della stabilità nel posto in caso di licenziamento illegittimo.
Il bersaglio, stando alle ultime rilevazioni, non sembra essere stato raggiunto, anzi: ed il lavoro subordinato non solo non dà più la sicurezza del posto, ma è ancora in gran parte precario.
L’attenzione del Legislatore del 2015 a ben vedere dà ragione alla tesi di fondo del saggio di Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini, Libertà e lavoro dopo il Jobs act (ed. Derive Approdi), che è quella della sostanziale rimozione dagli orizzonti della politica, e del diritto, della categoria del lavoro autonomo: che infatti dal d.lgs. n.81/2015 riceve una parzialissima, e mirata, attenzione, dalla norma che prevede che anche nei confronti dei collaboratori autonomi si applichi la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, nel caso in cui svolgano prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative ed organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro”.
Il modello, il paradigma, resta uno, e quello soltanto: ma di tutta la categoria dei lavoratori “genuinamente” autonomi, di cui oggi fa parte la cospicua, e qualificata, platea dei lavoratori della conoscenza, sembra nessuno avvertire il peso, e nemmeno la presenza. Eppure questa lunga crisi ha colpito duramente sia le loro possibilità occupazionali, sia la loro capacità di reddito, privi come sono stati di qualsiasi ammortizzatore sociale.
Eppure questo rifiuto della subordinazione per molti è frutto non tanto e non solo della necessità di andar incontro alle richieste del mercato, ma piuttosto di un progetto di libertà e di creatività, capace di svincolare l’individuo dalle pastoie e dai vincoli dell’assoggettamento al potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro, per restituirgli l’orgoglio, e il ritorno economico, del valore della sua prestazione.
La storia del lavoro e delle sue regole, fino alla costituzionalizzazione del relativo diritto, e poi oltre, è la storia di questa rimozione, anzi della soccombenza di un modello di fronte a quello della subordinazione, secondo una ricostruzione che – operata attraverso una serie di riferimenti significativi e di citazioni raffinate – vede il prevalere della opzione per “il lavoro sacrificato tra maledizione biblica e sfruttamento capitalistico”, quando ben altro ordine sociale si potrebbe affermare ove al suo centro si venisse a collocare, per dirla con Costantino Mortati, “sempre il “lavoro umano”, ridotto però ed innalzato, a pura forza creatrice e reso libero da condizionamenti economici e religiosi”.
La Costituzione del ’48 aveva ben fatto proprio il concetto che al lavoro su cui si fonda la nostra Repubblica non poteva non darsi il valore più esteso ed il significato più ampio che si rinviene nella previsione dell’art. 4, quello che contemporaneamente afferma per tutti i cittadini il diritto, ed il dovere, di lavorare. E l’art. 35 – perché non residuino dubbi – stabilisce che “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”.
Ma questa apertura non ha impedito che nello sviluppo legislativo si affermasse una contraddizione cruciale, quella per cui nel nostro ordinamento sia differenziata “l’inclusione nella cittadinanza lavorativa attraverso l’acceso ad una condizione lavorativa: è il cittadino in quanto lavoratore il soggetto titolare di una protezione sociale, altrimenti esclusa per la persona in quanto tale”. In realtà, tutto quel che è seguito, e di cui Allegri e Bronzini danno puntuale riscontro, è il sostanziale tradimento dell’impegno costituzionale, nella persistente strategia di rilanciare la subordinazione, invece di “gestire la transizione verso forme meno coercitive e afflittive di prestazione lavorativa attraverso nuove garanzie e tutele sociali”.
Questo il nodo politico decisivo, questa la sfida su cui per vero si sono impegnati alcuni (pochi: uno fra tutti, il Senatore Smuraglia il cui disegno di legge venne approvato dal Senato il 4 febbraio 1999 per poi arenarsi definitivamente), mentre i più hanno insistito nella necessità di provare ad arginare gli utilizzi abusivi delle collaborazioni coordinate e continuative, poi diventate lavori a progetto, lasciando ben poche tutele ai lavoratori autonomi.
A cui, in sostanza, non è rimasto che ambire al massimo risultato, ossia quello di dimostrare giudizialmente che l’autonomia è solo simulata, che nel caso concreto ricorrono gli estremi fattuali della subordinazione, che ancora più viene concepita come la categoria privilegiata, quella che sola può garantire livelli economici equi, e coperture previdenziali degne di questo nome.
Perché, ed in questo la lettura degli Autori è ancora pienamente condivisibile, il modo migliore per reprimere l’abuso sarebbe quello di evitare la logica binaria del tutto o niente: niente diritto del lavoro per gli autonomi, protezioni solo per i subordinati, ciò che incentiva fisiologicamente gli imprenditori, ma anche la Pubblica Amministrazione (che ha fatto massiccio ricorso a collaboratori para – subordinati) ad avvalersi dei primi “in funzione elusiva della legislazione pro – labour”.
E’ allora indispensabile formulare delle serie proposte: capaci di andare oltre le (ancora troppo timide) aperture alle tutele previdenziali, per arrivare a delineare un nuovo sistema di welfare, capace di costituire un “garantismo sociale oltre la subordinazione” (è il titolo dell’ultimo capitolo).
Una rivoluzione necessaria, purtroppo tardiva dopo i radicali cambiamenti del lavoro “che non c’è più”: che ponga a cardine del cambiamento il diritto al reddito minimo garantito, diritto sociale fondamentale a matrice europea solennemente sancito dall’art. 34 della Carta di Nizza, non limitato al sostegno reddituale ma comprendente anche l’assistenza abitativa, nonché tutti quei servizi sociali che l’esperienza ha elaborato nel promuovere un ruolo attivo del “cittadino laborioso”.
Ed è estremamente istruttivo raccogliere dal testo il richiamo a tutte le specifiche pronunce delle corti sovranazionali, e nazionali, che già su questo tema si sono misurate, contribuendo a conferire concretezza a questo disegno sociale garantistico a carattere inclusivo, rispetto al quale diventa cruciale lo ius existentiae.
Muta allora la prospettiva della garanzia offerta al lavoratore tipico: non si tratta solo più di un sostegno economico, ma un contributo per continuare a coltivare la propria scelta di libertà e di autonomia, supportata da una efficiente serie di servizi approntati dal soggetto pubblico per garantire l’orientamento professionale e l’aggiornamento. Serve anche (e qui si tocca un altro snodo politico ineludibile) l’introduzione di un salario minimo legale che valga per tutte le prestazioni di lavoro, anche di quello indipendente, già promesso dal Governo ma avversato dall’opposizione del sindacato.
Su questa conclusione il ragionamento degli Autori impone una seria discussione capace di andare oltre le chiusure e le rigidità della visione sindacale, che vede nella proposta essenzialmente una ulteriore occasione di isolamento ed emarginazione: il salario minimo inderogabile è un istituto che opera nella generalità degli ordinamenti occidentali, e la cui mancanza in Italia contribuisce a rafforzare la tendenza all’impoverimento ed alla perdita di valore di tutto il lavoro, non solo di quello autonomo.
Così come deve essere posta al centro della discussione la conclusione sposata dagli Autori, secondo i quali da questa garanzia universale comune può sbocciare una nuova condizione in cui armoniosamente si combinano l’incentivo all’autodeterminazione dell’individuo e la riscoperta di uno spazio di solidarietà collettiva, capace finalmente di parlare a tutte le forme di lavoro e di impegno, e di segnare il punto di svolta per promuovere una nuova idea di società e di Paese “che leghi cittadinanze ed istituzioni in un rapporto fiduciario, in grado di affrancare le persone dal bisogno e dai ricatti, per rendere praticabili le nuove, eppure antiche, sperimentazioni di cooperazione sociale, mutualismo ed economie solidali e collaborative, favorendo i nessi tra le intuizioni dell’innovazione sociale e le tradizioni di auto – organizzazione dell’associazionismo diffuso”.
Che poi a ben vedere è solo quello (e tutto quello) a cui si ha bisogno di tornare a pensare: un progetto capace di tenere insieme una nuova idea di lavoro, impresa e cittadinanza sociale. Lavorare sulle esperienze che già ci sono, e sui discorsi che veramente hanno il sapore del nuovo – quali quelli sui beni comuni e sull’uso di spazi sociali ormai frammentati e individualizzati, a partire dall’occupazione del Teatro Valle a Roma, modello di esperienze diverse quali a Torino quello della Cavallerizza Reale e della Caserma di via Asti – per valorizzare anche tutte le diffuse iniziative di Coworking di nuova generazione, “per una nuova pratica di cittadinanza che scardina la solitudine attraverso apertura, accoglienza solidarietà, cooperazione e collaborazione tra cittadini, lavoratori indipendenti, freelance, imprese innovative, in una tensione che obbliga il ripensamento degli sclerotizzati confini che separano società, istituzioni, imprese, lavori, territori e inclusione sociale”.
Un pensiero oggi tanto più necessario, intorno a cui incominciare a pensare di organizzare la resistenza contro le pulsioni ormai realtà che predicano, anche nell’Europa una volta più solidarista ed inclusiva, la chiusura agli accessi, l’egoismo della prosperità, addirittura la spoliazione dello straniero con il pretesto della necessità di un suo contributo all’accoglienza di cui ha bisogno, ed a cui deve continuare ad avere diritto.