Il Parlamento è sempre libero di negare all’autorità giudiziaria l’autorizzazione a procedere qualora ritenga che un Ministro abbia commesso un reato nell’esercizio delle sue funzioni, o esistono invece dei reati talmente gravi per cui in nessun caso il Parlamento potrebbe negare tale autorizzazione? Nel caso in cui sposassimo questa seconda tesi, quali sono i fondamenti normativi che la sorreggono? E ancora, la decisione del Parlamento è assolutamente insindacabile, o è ammesso invece un controllo da parte della Corte Costituzionale?
Queste sono le domande a cui il bel libro di Luca Masera cerca di dare una risposta. E lo fa non propugnando verità certe, ma conducendo il lettore attraverso un percorso che parte da dubbi, da ipotesi, da teoremi da verificare e che via via vengono validati attraverso un’attenta analisi della normativa e della giurisprudenza interna (costituzionale e comune) e sovranazionale. Nella consapevolezza che le risposte che saranno date a quelle fondamentali domande contribuiranno a configurare i tratti sostanziali del nostro sistema democratico.
Il caso da cui l’Autore prende le mosse è quello cd. Diciotti (con alcuni riferimenti anche a quelli speculari di Gregoretti e Open Arms), in cui per la prima volta – in un procedimento per reati ministeriali – si è posto il problema relativo alla possibilità per il Parlamento di negare l’autorizzazione a procedere per un reato, il sequestro di persona, che offende un diritto fondamentale dell’individuo, la libertà personale.
È una situazione che si pone al di fuori dello scenario classico dei rapporti tra politica e magistratura perché ciò che viene in rilievo non è un uso privatistico, ma pubblicistico, del munus pubblico: la categoria del reato ministeriale ha infatti sempre evocato vicende corruttive ovvero di interesse privato perseguito dal Ministro nell’esercizio delle proprie funzioni. La riforma del 1989 aveva infatti come scopo principale quello di superare una assoluta impunità ministeriale per fare in modo che fosse possibile perseguire il Ministro accusato di aver agito per fini personali o di partito. Proprio per questo, l’autorizzazione a procedere da parte della magistratura può essere negata, a norma dell’art. 9 L. Cost. n. 1/1989, quando il Ministro ha agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico. Nel caso da cui muovono invece queste riflessioni, è pacifico che l’allora Ministro dell’Interno non abbia agito per tornaconto personale o per perseguire un interesse privato. Al contrario, egli ha agito per perseguire un obiettivo politico esplicitamente rivendicato di fronte all’opinione pubblica, consistente nel porre all’attenzione dell’UE la circostanza che negli ultimi anni l’Italia si era fatta carico sostanzialmente da sola dei flussi migratori provenienti dalle coste africane. In questo contesto, negare alle imbarcazioni dei soccorritori l’autorizzazione allo sbarco era funzionale a spingere gli altri paesi dell’UE ad assumersi la responsabilità di accogliere parte di quei migranti. Si tratta, come è evidente, di una questione del tutto nuova e che non era stata immaginata dal legislatore del 1989; una questione che non attiene più tanto o solo ai rapporti tra politica e magistratura, ma ai limiti a cui, in una società democratica, devono essere sottoposti i poteri pubblici.
Naturalmente si potrebbe argomentare, come ha fatto la procura di Catania nella propria richiesta di archiviazione, che la natura politica della condotta del Ministro impedisca, per ciò solo, la sua sindacabilità da parte del giudice penale. La tesi è stata però categoricamente smentita dal Tribunale dei Ministri, che ha riconosciuto invece l’esistenza di un limite, individuato in una immediata e diretta capacità lesiva dell’atto ministeriale nei confronti delle sfere soggettive individuali.
L’Autore ripercorre allora il dibattito parlamentare che è scaturito a seguito della decisione del Tribunale dei Ministri, individuando i punti salienti ai fini della presente riflessione: la relazione di maggioranza ha escluso la configurabilità di un reato ministeriale in presenza di fattispecie criminose che ledono in modo irreversibile determinati diritti fondamentali; la relazione di minoranza a firma Grasso ha sottolineato invece come i diritti fondamentali dell’individuo non possano mai essere sacrificati per il perseguimento di obiettivi politici, pena lo stravolgimento dell’ordinamento costituzionale.
Nel volume si illustrano anche le numerose opinioni dottrinali sul tema. Quello che interessa qui sottolineare è questo aspetto, che è nucleo su cui la riflessione si concentra: nel nostro ordinamento si può dire che il fine, anche quello politico, giustifichi i mezzi? O invece la caratteristica del costituzionalismo moderno non è quella per cui i diritti fondamentali costituiscono un argine all’azione della maggioranza politica? E questo argine su cosa si fonda? E come si articola?
Il punto di partenza non può che essere la presa di coscienza del fatto che il principio personalistico che sta alla base della nostra convivenza impone che, nella dialettica tra lo Stato e l’individuo, la persona non può mai essere strumento per il perseguimento di un interesse collettivo. Tale limite non determina certo che i diritti fondamentali non siano bilanciabili, ma che tale azione non può essere tale da scalfire il nucleo duro del diritto bilanciato.
Sulla base di questa linea guida, Masera individua una serie di figure delittuose per cui non può essere negata l’autorizzazione a procedere, in quanto non coperte dall’immunità della L. del 1989.
Il fondamento giuridico di tali figure viene rinvenuto nella Costituzione e in alcune Carte Internazionali; ma - ed è quello che più conta - il suo fondamento assiologico è quel sistema di valori che connota tutto l’impianto costituzionale, e che è riconducibile al principio personalistico di cui si è detto in precedenza, che impedisce che l’uomo sia trattato come un mezzo e che il nucleo duro dei diritti fondamentali possa cedere in presenza di un interesse pubblico confliggente. E così sono esclusi dalla copertura dell’immunità i fatti di genocidio e i crimini contro l’umanità; l’omicidio doloso, la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, la riduzione in schiavitù, la violenza sessuale.
Seppure il Masera esamini puntualmente le norme internazionali che fondano tali diritti, l’aspetto più importante della sua riflessione è che le fonti non vengono analizzate nella loro gerarchia con una logica kelseniana, ma vengono utilizzate - in un’ottica di reciproca integrazione - per individuare un fondamento giuridico a quei valori irrinunciabili che fanno del nostro sistema costituzionale un sistema realmente democratico.
Consentire che una persona venga uccisa, torturata, resa schiava o violentata in nome di un interesse collettivo significherebbe negare noi stessi e i principi fondamentali su cui il nostro sistema si regge.
Accanto al dato materiale, contenutistico, l’autore ne affronta uno procedurale e formale. Non è infatti indifferente ed anzi è rilevante il procedimento parlamentare che porta all’individuazione del diritto violato e dell’interesse pubblico che si pretende perseguito. Nel caso di specie da cui ha preso le mosse la nostra riflessione, per esempio, il reato in astratto posto in essere era quello del sequestro di persona, il cui bene giuridico tutelato è la libertà personale, garantita a livello costituzionale dall’art. 13 e a livello sovranazionale dall’art. 5 Cedu. La Corte Edu ha stabilito con riguardo a tale diritto che lo stesso non necessita di tutela penale, a meno che la privazione della libertà sia stata eseguita con modalità tali da configurare un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 3 Cedu. In quest’ottica, le condizioni del trattenimento sarebbero risultate decisive per valutare il rispetto dello standard convenzionale e avrebbero dovuto essere oggetto di specifica contestazione nella richiesta di autorizzazione e di conseguente dibattito parlamentare. Aspetto che invece è completamente sfuggito tanto ai magistrati quanto ai parlamentari.
L’ultimo aspetto affrontato nel volume concerne quello dell’insindacabilità della decisione assunta dal Parlamento.
Se davvero fosse così, quale cogenza potremmo attribuire ai limiti che si sono innanzi individuati? E ancora, è pensabile che in un sistema democratico si creino spazi, seppur costituzionalmente previsti, in cui la volontà della maggioranza parlamentare si esprime senza alcun controllo di legittimità, potendo incidere su diritti che sono sottratti anche alla revisione costituzionale? La risposta non può che essere negativa, perché nel nostro sistema non esistono deleghe in bianco e poteri completamente liberi: unica conseguenza possibile è allora ammettere che il potere giudiziario possa sollevare conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato innanzi alla Corte Costituzionale, garante del fatto che l’esercizio della prerogativa in esame non si trasformi in potere arbitrario.
Siamo così giunti alla fine del volume, non senza aver tralasciato alcuni aspetti non meno interessanti (dall’analisi dottrinale e giurisprudenziale della responsabilità penale dei ministri, alla costruzione della autorizzazione a procedere come causa di giustificazione ovvero condizione di procedibilità, agli obblighi internazionali della tutela penale) ma nella speranza di aver destato curiosità nel lettore, affinché parta da queste brevi considerazioni per leggere a fondo il bel volume qui recensito.