Giustizia e precariato sono due termini tra loro dissonanti: anzi, di più.
La loro associazione dà luogo ad un lampante ossimoro, come dimostra l’evoluzione del mercato del lavoro di questi ultimi decenni.
Più precariato ha voluto dire infatti (secondo un rapporto inversamente proporzionale) meno giustizia per i lavoratori tutti, precari e no: meno diritti sicuramente per i primi, a cagione della evidente maggior ricattabilità della loro condizione, ma un indebolimento complessivo anche della posizione dei secondi; in generale, uno svilimento del lavoro inteso come forma di realizzazione della persona e mezzo per procurarsi la retribuzione sufficiente per assicurare a sè ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Il contrasto si fa più stridente ancora se per “giustizia” si intende la funzione pubblica che l’amministra: nel quotidiano, all’interno delle aule, attraverso la celebrazioni di rituali processi, per fatti più o meno bagatellari (ma in cui sempre si rivelano tratti universali di umanità).
Da anni, in Italia, il rimedio concreto alla oggettiva insufficienza del sistema a far fronte ai carichi processuali consiste nell’utilizzo di giudici “onorari”: laureati in materie giuridiche, nella maggior parte dei casi professionisti comunque vincolati da regimi di incompatibilità – e quindi costretti a svolgere solo l’incarico pubblico – che vengono nominati con un mandato a termine, che la legge prevede passibile di un solo rinnovo.
Nei fatti, a seguito delle costanti proroghe annuali, a cui si giunge affannosamente alla scadenza del periodo quando finalmente ci si accorge che non si può far altro, “precari della giustizia”, ormai strutture portanti del sistema, ma tuttora legati ad uno schema ipocrita e mortificante, quello che li vorrebbe vedere “onorati” di entrare tangenzialmente e a far parte della giurisdizione: quando la realtà dice di una presenza di VPO in funzione di Pubblico Ministero nel 97 per cento nei processi monocratici, e di un sonante 100 per cento di procedimenti di esecuzione mobiliare affidati ai GOT, a cui è assegnata anche una percentuale elevata di processi di cognizione.
Nei Tribunali ordinari nel 2008 (sono i dati più recenti) operavano 1861 GOT contro 3681 giudici di carriera, mentre a fronte di 1544 magistrati con funzioni di pubblico ministero, i VPO erano 1669: numeri che da soli smentiscono che la condizione precaria possa essere giustificata da un utilizzo sporadico, saltuario, solo sussidiario.
Questa è la realtà tratteggiata in premessa a Precari (fuori)legge, scritto da una VPO ormai di lungo corso (dal 2000), che nell’occasione mette a fuoco – a pieno diritto, e con intelligente ironia – una visione della giustizia e dell’umanità che vi incappa: ma dando personale testimonianza di come la condizione in cui è costretta, con possibilità di sbocco sempre più nebulose e vaghe, di per sè nega la stessa idea di una giustizia “anche apparentemente giusta”, amministrata da un soggetto messo al riparo da risvolti, materiali ma non solo, di un trattamento iniquo e mortificante.
Perché, come scrive Paola Bellone, “nel sistema giustizia la precarietà è ontologicamente incompatibile con le garanzie che costituiscono il presidio della funzione svolta dai magistrati”: la precarietà mina le esistenze, ma anche le coscienze, rende meno indipendenti e liberi, offende il senso stesso di dignità della persona.
E’ questo il senso più profondo e malato di una rivoluzione negativa che ha avvelenato le nostre società, e contribuito ad abbassare il livello del discorso pubblico (si pensi agli effetti del lavoro precario sull’informazione, o sull’insegnamento), a mortificare le aspirazioni personali non solo al benessere economico, ma alla partecipazione ad un disegno sociale di progresso.
Alle considerazioni che valgono per la generalità della condizione del lavoratore precario, si aggiunge, nel caso dei magistrati onorari, l’ipocrisia del sistema che da un lato, li relega ancora, a distanza di quindici anni dalla loro istituzione (d.lgs. 19 febbraio 1998, n.51, cd. Legge Carotti), in un ruolo non solo ausiliario e accessorio, ma anche fortemente mortificato dal punto di vista economico, privo delle minime tutele che ormai spettano anche a tanti lavoratori non stabilizzati (indennità di maternità, malattia, ferie, tredicesima); dall’altro, ha permesso che essi assumessero ormai una funzione decisiva e portante, capace di garantire lo smaltimento di un numero ingente di processi nel settore penale, ed in quello civile (si vedano in proposito i dati raccolti da Paola Bellone).
L’inerzia legislativa, anche in questo specifico settore della giustizia, mortifica la condizione del singolo, ma soprattutto, penalizza il progetto per un ammodernamento ed una migliore efficienza del servizio: una paralisi che non solo sospende migliaia di destini individuali, ma che lascia al palo ogni ipotesi di riorganizzazione e di razionalizzazione.
Eppure, la proposta che i “precari (fuori)legge” formulano per recuperare quella dignità sin qui negata, contiene proprio preziosi spunti nell’interesse comune: non una meccanica “stabilizzazione”, ovvero un ingresso “per meriti di servizio” nel corpo della magistratura professionale, ma piuttosto una originale forma di arruolamento per continuare a svolgere quei compiti ausiliari all’interno di una struttura di moderna e razionale concezione, l’”ufficio per il processo”.
Già oggetto della proposta dell’Associazione Nazionale Magistrati, è questo un possibile modulo organizzativo capace di coordinare tra loro le competenze dei diversi soggetti chiamati a collaborare alla realizzazione del servizio (magistrati onorari e professionali, personale amministrativo, tirocinanti e stagisti), e di muoverle razionalmente verso l’obbiettivo comune, quello della celebrazione in tempi rapidi, secondo modalità condivise negli uffici, dei processi (preferibilmente, secondo l’idea che suggerisce il libro, per fatti di un qualche rilievo, non essendo più posponibile un organico piano di depenalizzazione).
Quello dell’”ufficio per il processo” può costituire un comune obbiettivo, intorno al quale consolidare un’alleanza strategica capace di portare avanti una proposta capace di disegnare la giustizia del futuro: lasciandoci alle spalle questa, che non può far a meno, per reggere il peso del suo carico, di farsi motivo ed occasione di una palese iniquità.