Sommario: 1. Breve preambolo di metodo; - 2. Il contesto normativo di vario rango della responsabilità disciplinare dei magistrati; - 3. L'insegnamento storico del diritto inglese; - 4. La possibile dissociazione dei fini dell'azione disciplinare rispetto allo statuto della condizione giuridica del magistrato; - 5. Il ruolo di barriera dissuasiva di azioni disciplinari indebite svolto dall'art.2 comma 2 del d.lgs.109/2006 nella giurisprudenza; - 6. Rilevanti contributi dottrinari in materia di collegamento tra strumento disciplinare e principi costituzionali sullo “status” dei magistrati ordinari; - 7. La vicenda processuale (il cosiddetto caso USS) da cui ha tratto origine l'azione disciplinare del Ministro della Giustizia e la relativa contestazione; - 8. Considerazioni sulla compatibilità dell'azione disciplinare con la libertà dell'attività ermeneutica e valutativa e con la corrispondente immunità in sede disciplinare; - 8. a) Osservazioni controfattuali; - 8. b) Osservazioni di principio; - 9. Uno sguardo al diritto eurounitario; - 10. Sommarie notazioni finali.
1. Breve preambolo di metodo
Non sempre e non necessariamente è possibile o utile sviluppare riflessioni in termini ricostruttivi o esplicativi di istituti giuridici partendo dall'analisi di casi singoli perché la loro particolarità può costituire schermo ad un ragionamento che aspiri a librarsi al di sopra della semplice contingenza ed a muoversi nell'area dei principii e delle categorie. Meno di frequente, tuttavia, è proprio la specifica configurazione della vicenda a stimolare considerazioni avulse da un contesto peculiare e come tali capaci di prestarsi al compito di approfondire l'analisi degli elementi attorno ai quali ruota il fenomeno giuridico inteso nella sua complessità di esperienza umana governata in forma sistematica.
Ben può dirsi, secondo quanto andrà affiorando nella prosecuzione del discorso, che la fattispecie da cui traggono spunto le osservazioni che seguono funga utilmente da stimolo ad una lettura, compatibile con la complessiva condizione giuridica del magistrato quale è tratteggiata sin dal testo costituzionale e si propaga anche nell'esperienza giuridica europea, dell'esercizio dell'azione disciplinare. L'interesse è specialmente dato da quelle iniziative disciplinari destinate ad incidere sull'amministrazione della giurisdizione nel preciso senso di desumere il loro presupposto dalle sue concrete modalità, dalla sua declinazione e dai relativi effetti.
2. Il contesto normativo di vario rango della responsabilità disciplinare dei magistrati
La regolamentazione della responsabilità disciplinare dei magistrati[1] forma oggetto di un articolato e minuzioso testo normativo, il decreto legislativo n. 109 del 23 febbraio 2006, che ha visto la luce dopo un fervido dibattito snodatosi nel tempo avente al suo apice il tema della generalmente invocata tipicità delle condotte costitutive di illecito. Ma indipendentemente da questo, pur centrale, argomento è notevole il fatto che tra tutte le categorie dell'impiego pubblico quella della magistratura ordinaria abbia impegnato il legislatore in un'opera così ricca e puntuale (almeno nelle intenzioni), come ha ripetutamente chiarito la Corte Costituzionale[2]. La risposta non tarda a venire ed orienta qualunque riflessione che ruoti attorno alla materia. È evidente, infatti, che un così denso apparato legislativo poggi sulla comune, incontestabile percezione dell'unicità della funzione giudiziaria nell'intero panorama delle carriere svolgentisi all'interno della sfera pubblica nonché sulla particolare cura che ad essa dedica la Costituzione nelle sue significative ed illuminanti disposizioni del Titolo IV dedicato a La Magistratura (artt.101-110). In sostanza, già il costituente, nel riconoscere la fondamentale collocazione dell'ordine giudiziario nella delicata architettura dei poteri dello Stato e la connessa essenzialità della relativa attività, ha posto le premesse perché il legislatore ordinario nei vari interventi destinati a ricadere nell'area giudiziaria, quella, cioè, popolata dagli appartenenti alla Magistratura, dovesse tener conto del disegno costituzionale preservandone i principii basilari e non vulnerandone la posizione e le attribuzioni. Se vi è un campo in cui massima deve essere la cautela legislativa nella prospettiva del rigoroso rispetto delle prerogative costituzionali esso è facilmente identificabile proprio in quello in senso lato afferente alla materia disciplinare. Essa, infatti, come si dirà oltre, può facilmente lasciarsi attrarre in forme di utilizzazione, più o meno sottili, striscianti o subdole, indirizzate all'indebolimento o all'incrinatura; non solo e non tanto della posizione dei singoli magistrati quanto dell'esercizio indipendente e sereno della funzione. Perché questa deve considerarsi la irrinunciabile conquista resa possibile dall'intelaiatura ravvisabile nel complesso normativo di rango costituzionale prima richiamato: la scissione dell'interesse oggettivo e superiore della funzione da quello delle persone che concorrono ad attuarla. E ciò non nel senso della irrilevanza della loro posizione nell'ambito del sistema. Al contrario, la lungimirante edificazione dello statuto giuridico dei singoli appartenenti all'ordine giudiziario non può che esplicarsi e reputarsi soddisfacentemente perseguita attraverso il pieno rispetto delle prerogative riservate alla funzione giurisdizionale ed all'interesse pubblico al suo retto esercizio che la circonda. In altri termini, il sistema globalmente inteso in cui va inserita, tra le altre, la materia disciplinare non è di per sé ed in modo assoluto concepita in ragione ed in vista della protezione individuale ma va guardata quale parte integrante di un sistema che mira a preservare l'integrità dell'ordito costituzionale. Il che equivale a dire che ciascuna vicenda afferente alla disciplina dei magistrati non è mai solo ed esclusivamente storia singolare e personale ma si proietta necessariamente verso un metalivello che assicura come essa debba vivere e nutrirsi della linfa animatrice delle previsioni costituzionali, che altrimenti correrebbero il grave pericolo della disgregazione in un numero incontrollabile di rivoli individuali. È, quindi, del tutto ragionevole muovere dalla premessa che nessuna fattispecie di rilevanza disciplinare - a parte la risonanza esterna suscitata - si sottrae alla sua implicita valutazione in termini di conformità e fedeltà all'immagine che della Magistratura la Costituzione ha sapientemente dipinto. Del tutto conseguenziale è la proposizione secondo cui anche i soggetti promotori dell'azione disciplinare debbano trarne legittimazione, con non minor rigore dei destinatari di essa, dalla cornice primaria di cui si discute e, quindi, idealmente assoggettarsi a quel controllo diffuso sulla persuasività e legittimità dei propri provvedimenti[3] che giace alla base di un ordinamento giuridico permeato da spirito e sensibilità democratiche.
Del resto, solida sensibilità nei riguardi della sottrazione dell'esercizio della funzione giurisdizionale all'esiziale rischio dei condizionamenti, esterni o interni al sistema, che possono scaturire dalla leva della responsabilità (civile, penale, disciplinare) in relazione a singoli atti e provvedimenti è mostrata anche da ordinamenti non marginalmente distanti e distinti dalla nostra tradizione giuridica, quale quello inglese di common law. Brevi riferimenti a quell'esperienza si mostrano di sicura utilità nell'esplorazione del tema nell'ordinamento italiano il quale da esso può desumere ragioni chiarificatrici
3. L'insegnamento storico del diritto inglese
Ed infatti, la storia del diritto inglese ammonisce circa il fatto che si sono sempre saputi adeguatamente valorizzare i profili di rilevanza costituzionale inerenti al tema di ciascuna delle possibili forme di responsabilità giudiziale[4].
La strada percorsa successivamente al superamento del triste periodo di funzionamento della Star Chamber (la famigerata camera stellata operante fino agli inizi del diciassettesimo secolo che veniva adita perché, su iniziativa della parte dichiarata colpevole in un processo penale, giudicasse della fondatezza della sentenza impugnata e contestualmente dichiarasse la responsabilità personale del giudice che l'aveva pronunciata in caso di accoglimento del gravame) è stata costante nel tempo e si è contraddistinta per la sua propensione all'immunità dei giudici rispetto a possibili responsabilità (in particolar modo di natura civile) nascenti dai loro provvedimenti. La base dogmatica a sostegno di questa posizione si è sempre rinvenuta nell'esigenza di tutelare, attraverso lo strumento immunitario, l'autonomia e l'indipendenza del potere giudiziario, mettendolo al riparo da iniziative che, se in modo incontrollato poste in essere, si risolverebbero in un effettivo impedimento all'amministrazione libera ed affidabile della giustizia. Questa concezione, inizialmente applicata ai soli giudici delle corti superiori, si è gradatamente estesa anche ai giudici non professionali[5], per i quali si è ritenuta comune la necessità di preservarne l'opera allontanandola dallo spauracchio di un'affermazione di responsabilità basata sull'arbitraria identificazione tra l'eventuale erroneità (tale dichiarata dal giudice successivo) del provvedimento e la meccanica attribuzione di colpa al suo autore. L'eccezione al principio immunitario è costituita dai marginali e sporadici casi di pronunce emesse “ultra vires”, ossia in difetto assoluto di giurisdizione: eccezione, peraltro, del tutto coerente con l'idea di fondo, che è quella secondo la quale in tanto è tutelata la persona del singolo giudice in ipotesi errante in quanto egli abbia rigorosamente agito nel circuito giurisdizionale, quello, cioè, che solo possa conferirgli il potere di amministrare giustizia. In pratica, la regola di consolidata accettazione sin dal caso Marshalsea del 1613 è che, una volta assicurata l'inerenza dell'attività giudiziale alla sfera delle connesse attribuzioni, essa diviene insindacabile, in quanto espressione del potere assegnato, rispetto a possibili rivendicazioni legate al merito o alla procedura utilizzata. Di questo atteggiamento si rese ancor più sicuro interprete un caso del 1770[6] in cui l'immunità da responsabilità per atti compiuti nello stretto alveo della propria giurisdizione venne considerata mezzo servente rispetto alla necessità che l'intero sistema di amministrazione della giustizia non venga compromesso. Concetto ripreso e perfezionato in un caso del 1895[7] in cui Lord Esher formulò l'opinione che la libertà e l'autonomia dei giudicanti sono incondizionatamente necessarie ai fini dell'amministrazione della giustizia. Si trattava del coerente compimento di un'idea ancor più radicale, e di sicura ricaduta nella presente indagine, formulata da uno dei giudici, Lord Tenterden, chiamati a pronunciarsi in un caso del 1827[8] che affermò stentoreamente che ogni magistrato deve essere posto in condizione di esercitare il proprio ufficio in completa indipendenza e libertà da timori[9]. La stessa giurisprudenza, d'altro canto, non ha mai preteso di fondare le proprie posizioni su semplici petizioni di principio, avendole, al contrario, suggellate attraverso un ragionamento giuridico saldo, quello per il quale è nella presunzione dell'esercizio in buona fede e in conformità allo scopo per il quale i poteri sono stati conferiti che risiede la fonte dell'immunità riconosciuta dall'ordinamento, soprattutto nel momento giurisdizionale, a favore del relativo titolare[10]. Per concludere, va ricordato che anche la dottrina in tempi meno lontani ha condiviso l'impianto argomentativo e le basi del discorso giudiziale, pervenendo alla autorevole conclusione che l'indipendenza del potere giudiziario è un grande bastione contro una concezione assolutistica della democrazia e rappresenta uno dei principii fondativi della libertà e della democrazia inglesi, in conformità alle disposizioni dell'Act of Settlement del 1701 che affrancò i giudici dal timore di negative ripercussioni di carriera (fino alla destituzione) nel caso fossero incorsi nello sgradimento reale, almeno finché avessero tenuto condotta irreprensibile, “se bene gesserint”[11].
Questa fugace incursione in un terreno ordinamentale in cui il fondamento costituzionale è certamente presente e riconosciuto[12] serve a ricordare l'indissolubile raccordo tra azioni, da qualunque fonte provenienti, prefiggentisi lo scopo di imporre una qualche forma di responsabilità giudiziale in relazione all'esercizio della funzione e la loro sostenibilità in un quadro di congruenza costituzionale. Si tratta, invero, di un'indagine che, sebbene implicita, non può mancare quando si valuti la conformità dell'iniziativa responsabilizzante, pubblica o privata, all'essenza stessa ed al fine ultimo della giurisdizione. Prescinderne o anche semplicemente trascurarne l'importanza si rivela l'anticamera del superficiale ricorso a quegli strumenti il cui obiettivo finale, anche se dissimulato dietro il paravento della ricerca e della eliminazione dell'errore, sostanzialmente consiste nell'attribuzione di un giudizio di disvalore sanzionabile all'operato del giudice.
4. La possibile dissociazione dei fini dell'azione disciplinare rispetto allo statuto della condizione giuridica del magistrato
Ed è proprio a questa plateale eterogenesi dei fini, registrabile in materia disciplinare con particolare intensità di effetti in senso lato destabilizzanti, che si deve guardare con preoccupazione, al contempo erigendo barriere interpretative sufficienti a stornare, o comunque attenuare, il pericolo che il sistema generale, a partire dalle sue declinazioni costituzionali, ne risulti seriamente compromesso.
L'evenienza della distorta utilizzazione dell'azione disciplinare, ossia del promuovimento di incolpazioni fuoriuscenti dal tracciato normativo con il conseguente attentato allo “status” magistratuale e, per immediato riflesso, all'intero schema costituzionale, è direttamente collegabile al grado di sensibilità del titolare nei confronti dell'esercizio della giurisdizione. Essa, invero, non può soffrire, pena il suo non retto svolgimento, di qualsivoglia circostanza idonea ad influenzarla negativamente, ossia attraverso la privazione della certezza della libertà di giudizio ancorata al solo rispetto della legge (art. 101 Costituzione). In effetti, il legislatore del 2006, in questo poi assistito dagli orientamenti giurisprudenziali sorti successivamente, ha saputo predisporre una molteplicità di binari indirizzati a prevenire deragliamenti nell'attività dei promotori dell'azione disciplinare. Ed è ragionevole supporre che questi limiti sostanziali siano stati circoscritti a causa della dualità degli organi preposti. Tale dualità si manifesta non soltanto nella loro differente estrazione (politica e giurisdizionale, rispettivamente) ma trova il punto più alto di divaricazione nel carattere dell'esame che deve precedere la promozione del procedimento: solo discrezionale e conseguente ad un apprezzamento eminentemente politico in un caso, obbligatorio (seppur presupponente attività delibativa preliminare sfortunatamente coperta da un'impenetrabile e mai persuasivamente spiegata segretezza[13] nell'altro. Gli accorgimenti normativi sono calibrati proprio in questa direzione: essi tendono, infatti, a precludere ghiotte tentazioni, magari frutto di manipolazioni riferibili all'esterno della sede giudiziaria (o, talvolta, ad essa direttamente imputabili per scopi faziosi), di stimolare l'azione disciplinare quale disarmante antidoto al concreto modo di amministrazione della giustizia o ad una sua amministrazione spiacevole o contraria ad interessate aspettative.
La norma di presidio, di stentorea e rassicurante declamazione, è quella data dal comma 2 dell'art. 2 del d.lgs. 109 del 2006 citato, intitolata “Illeciti disciplinari nell'esercizio delle funzioni”, norma di larga e frequente applicazione pratica. Essa stabilisce che l'attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare ,ferme restando le precedenti disposizioni in materia di: a) grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile; b) travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile; c) emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge; d) adozione di provvedimenti adottati nei casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave ed inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali; e ) reiterata e grava inosservanza delle norme regolamentari o delle disposizioni sul servizio giudiziario adottate dagli organi competenti; f) indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei propri compiti; g) inosservanza dell'obbligo di risiedere nel comune ove ha sede l'ufficio in assenza dell'autorizzazione prevista dalla normativa vigente se ne è derivato concreto pregiudizio all'adempimento dei doveri di diligenza e laboriosità; h) adozione intenzionale di provvedimenti affetti da palese incompatibilità tra la parte dispositiva e la motivazione, tali da manifestare una precostituita e inequivocabile contraddizione sul piano logico, contenutistico o argomentativo; i) adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza.
5. Il ruolo di barriera dissuasiva di azioni disciplinari indebite svolto dall'art.2 comma 2 del d.lgs.109/2006 nella giurisprudenza
Sulla norma esonerativa di responsabilità prima riportata si regge l'intero sistema degli illeciti funzionali e su di essa è fiorita una consolidata giurisprudenza che ne ha chiarito limiti e presupposti di applicazione. Ed infatti, è costante e perentoria l'affermazione della intangibilità in sede disciplinare dello spazio di apprezzamento del giudice, con conseguente sottrazione a quello scrutinio[14]. La concreta determinazione contenutistica della clausola di salvaguardia costituita dal comma 2 dell'art. 2 del d.lgs. 109/2006 è ormai pacificamente affidata alla massima secondo cui l'interpretazione di norme di diritto è censurabile disciplinarmente solo quando sia frutto di errore macroscopico o di negligenza grave ed inescusabile, rivelatrice di scarsa ponderazione, approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, idonea a riverberarsi negativamente sulla credibilità del magistrato o sul prestigio dell'ordine giudiziario[15]. Ancor più esplicita è la lettura in senso salvifico della libertà interpretativa del fatto e del diritto che la corte di legittimità ha fornito statuendo che l'insindacabilità in ambito disciplinare dei provvedimenti giurisdizionali e della presupposta attività ermeneutica esclude che la loro inesattezza tecnico-giuridica possa di per sé sola configurare l'illecito disciplinare, tranne che sia dovuta o scarso o superficiale impegno indicativo di scarsa ponderazione o approssimazione[16]. Sotto altro profilo si segnala l'orientamento che esclude la ricorrenza dell'illecito disciplinare se la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, pur collocandosi al di fuori dei paradigmi normativi, non abbia inciso negativamente sulla considerazione del magistrato o sul prestigio dell'ordine giudiziario[17]. Quest'ultima pronuncia introduce un elemento integrativo della fattispecie disciplinata dalla lettera ff) dell'art.2 comma 1 citato, ravvisandolo nella supplementare lesione dell'immagine individuale del magistrato e di quella dell'intera categoria. Tuttavia, resta dubbio se la formulazione della norma induca o meno ad attribuire natura di illecito di solo pericolo (nel qual caso il giudizio sulla lesione sarebbe già assorbito nel paradigma legislativo) o se, viceversa, la violazione possa ritenersi realizzata solo in presenza dell'ulteriore segmento della produzione di un danno concreto al corretto e credibile esercizio della funzione. Vi è ancora da dire che una chiara linea di continuità applicativa dell'art. 2 in questione, soprattutto se posto in relazione con la lettera ff), appare compromessa se si presta un'attenzione eccessiva a singole, difficilmente ripetibili, condotte, come tali sfuggenti ad una qualificazione in termini di principio[18].
6. Rilevanti contributi dottrinari in materia di collegamento tra strumento disciplinare e principi costituzionali sullo “status” dei magistrati ordinari
Anche la dottrina ha saputo collocare il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati nel felice solco delle previsioni costituzionali, sottolineando, in coerenza con l'insegnamento della Corte Costituzionale, che esso è volto a garantire il rispetto dell'esigenza di assicurare il regolare svolgimento della funzione giudiziaria, che è uno degli aspetti fondamentali della vita democratica e della realizzazione dello stato di diritto e, al contempo, ad attribuire alla pronuncia giudiziaria la garanzia del suo rispetto da parte della collettività in quanto proveniente da un giudice indipendente ed imparziale e, nei casi previsti dalla legge, giuridicamente responsabile[19].
Una prospettiva trasversale che incrocia l'esperienza della Corte Costituzionale con quella della Corte Europea dei diritti dell'Uomo viene adottata da chi osserva che la disciplina dei magistrati obbedisce all'assoluta necessità, per la preservazione dello stato di diritto e della democrazia, della fiducia dei consociati nell'indipendenza ed imparzialità del sistema giudiziario[20]. D'altra parte si ricorda che la Corte EDU si preoccupa che venga preservato un bene indispensabile alla democrazia “effettiva”, ossia la credibilità della giustizia, intesa quale fiducia di cui essa deve godere presso gli utenti e presso il pubblico[21].
L'analisi del procedimento disciplinare a carico dei magistrati si arricchisce di lineamenti nitidi e persuasivi dal punto di vista filosofico e di solidissimo sostrato etico-giuridico nelle alte riflessioni di un teorico del diritto la cui opera ha segnato irretrattabili punti di approdo in tema di esercizio e natura della giurisdizione[22].
La profondità e l'originalità delle riflessioni e la loro radiale estensività a molteplici aspetti della materia qui trattata le candidano ad un maggior, seppur contenuto dati i limiti del presente studio, approfondimento e le rendono pienamente spendibili nel dibattito circa le basi destinate a sorreggere il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati.
Una prima acquisizione riguarda un peculiare punto di vista dal quale guardare il fenomeno delle condotte deontologicamente censurabili, rappresentato da un fine ulteriore e speciale che l'iniziativa disciplinare appare destinato a perseguire. Ed infatti, muovendo dalla premessa teorica già esplicitata nel titolo del saggio, ossia quella che assegna natura cognitiva a quell'operazione al tempo stesso intellettuale ed istituzionale che è racchiusa nella nozione di giurisdizione, l'Autore individua nelle regole insite nella deontologia dei magistrati la tensione diretta a ridurre il potere connesso all'esercizio della funzione e ad ampliare il sapere, anch'esso implicito ed essenziale. Ed il fine di accrescimento del sapere si sublima nella ricerca di quella verità solo esigibile in sede giudiziaria, ovvero la verità assicurata da tutte le garanzie che devono circondare il processo, a partire dal rigore della motivazione e dalla sua esposizione al giudizio critico diffuso che a propria volta esige nel Giudice la piena disponibilità all'ascolto. Perché “veritas, non auctoritas facit iudicium”. E perché per restare ancorati all'oggetto del presente scritto, un'attività cognitiva, quale, tipicamente, la giurisdizionale, non può sottostare ad imperativi che non siano quelli inerenti alla ricerca del vero. Si soggiunge in maniera illuminante per quanto si dirà nei successivi paragrafi che qualunque condizionamento di potere è fuorviante rispetto al fine del raggiungimento della verità nel senso prima illustrato.
Il peso e l'influenza di questo pensiero vanno certamente definiti incalcolabili ai fini dell'inquadramento dal punto di vista dogmatico nonché pratico della vicenda che ha alimentato le considerazioni sin qui svolte e verso la quale si dirigeranno quelle seguenti.
7. La vicenda processuale (il cosiddetto caso USS) da cui ha tratto origine l'azione disciplinare del Ministro della Giustizia e la relativa contestazione
Si è detto all'inizio che talvolta le più stimolanti osservazioni di principio possono essere suggerite da particolari circostanze processuali. La fattispecie di cui ci si occupa sembra ben incarnare l'ipotesi formulata a causa non tanto dei fatti che hanno fatto da corona alla pronuncia giurisdizionale quanto del giudizio attorno ad essi formulato in ottica disciplinare dal Ministro della Giustizia.
La Corte d'Appello di Milano si è pronunciata lo scorso autunno sull'istanza di un cittadino straniero, già tratto in arresto a seguito di provvedimento del Dipartimento di Giustizia statunitense per i delitti di associazione per delinquere, truffa e riciclaggio, ed in atto detenuto in Italia a seguito di convalida disposta dal competente giudice interno, rivolta ad ottenere la sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari (anche con l'applicazione del braccialetto elettronico) presso un'abitazione locale fornita dalla moglie, i rapporti patrimoniali con la quale erano regolati dal regime di comunione dei beni. A sostegno della richiesta erano state rappresentate, e documentate nel corso del procedimento, numerose circostanze relative: a) all'avvenuto trasferimento in Italia degli interessi economici e familiari del detenuto; b) al fatto che la moglie avesse acquistato un immobile in comune prossimo al capoluogo lombardo; c) alla presenza non occasionale del ricorrente in Italia; d) alla mancanza di prova che lo stesso si fosse allontanato dal luogo di commissione dei reati contestatigli; e) alla circostanza che il luogo in cui si chiedeva di applicare la misura degli arresti domiciliari si trovasse nello stesso stabile in cui la moglie aveva acquistato altro immobile in corso di ristrutturazione.
La procura generale distrettuale aveva espresso parere contrario all'accoglimento dell'istanza.
La Corte milanese, ritenuta fondata l'istanza, l'ha accolta convertendo l'originaria misura di custodia in carcere in quella degli arresti domiciliari con applicazione del dispositivo del braccialetto. A fondamento della propria decisione il Collegio ha posto i seguenti argomenti storici e logici: a) la prova dell'effettiva ed accertata disponibilità della moglie ad ospitarlo nell'alloggio specificamente indicato; b) l'idoneità della misura sostitutiva a garantire l'eventuale consegna del ricorrente all'autorità straniera procedente.
Dopo la pronuncia del provvedimento il ricorrente evadeva, rendendosi irreperibile.
Disposti preliminari accertamenti ispettivi, il Ministro ha promosso l'azione disciplinare nei confronti dei tre magistrati componenti il Collegio pronunciatosi sull'istanza contestando loro la violazione degli articoli 1 e 2 lettera ff) del decreto legislativo 109 del 2006 perché avevano applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari - ancorché con l'applicazione del braccialetto elettronico - senza prendere in considerazione una serie di circostanze, e nonostante il parere contrario della Procura generale presso la Corte d'Appello, che avrebbero potuto portare ad una diversa decisione se opportunamente ponderate. Le circostanze la cui mancata ponderazione era contestata erano le seguenti: a) il cittadino straniero era stato fermato all'aeroporto di Malpensa durante i controlli di sicurezza; b) egli godeva di appoggi internazionali che gli avevano consentito di allontanarsi dal luogo di commissione dei reati; c) secondo l'Interpol lo stesso aveva interessi economici in Germania ed era figlio di un politico russo; d) il cittadino straniero possedeva e controllava numerose società nel mondo; e) egli disponeva di rilevanti consistenze economiche; f) il Dipartimento di giustizia statunitense aveva chiesto il mantenimento della custodia in carcere; g) anche il Ministro della Giustizia italiano aveva chiesto il mantenimento di quella misura cautelare. L'incolpazione concludeva, pertanto, nel senso che non valutando tali elementi, dai quali risultava l'evidente pericolo di fuga del cittadino straniero, poi evaso, i consiglieri della corte d'appello avessero tenuto un comportamento di grave ed inescusabile negligenza.
8. Considerazioni sulla compatibilità dell'azione disciplinare con la libertà dell'attività ermeneutica e valutativa e con la corrispondente immunità in sede disciplinare
L'iniziativa disciplinare, riguardata nella sua formulazione letterale nonché nella sua dubbia capacità di rendersi fedele interprete dei principii informatori del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ,ed in particolare di quelli ostativi ad uno scrutinio pervasivo ed ex post del merito dei provvedimenti giudiziari, è stata oggetto di preoccupate analisi da parte delle articolazioni centrali e territoriali della magistratura associata ed anche di qualificati organismi professionali forensi, nonché oggetto di analisi in ambiti mediatici specialistici[23]. Molti degli argomenti utilizzati nei diversi contesti si sono dipanati lungo l'articolato filo comune della insindacabilità dell'attività interpretativa e valutativa quale presidio fondamentale dell'attività giurisdizionale rivolta nell'interesse della collettività nonché attorno all'equivoco concettuale che si annida nell'indebita equazione tra preteso errore giudiziario (inteso nella asfittica e puramente sperimentale dimensione di difformità di esiti all'interno dei vari stadi e fasi di un unico procedimento) ed ineluttabilità della responsabilità disciplinare. Ed in effetti, la via per tale verso tracciata sembra convincente e solida, come si cercherà di dimostrare. Di particolare interesse si rivela il comunicato diramato dal Comitato direttivo centrale dell'Associazione Nazionale Magistrati lo scorso 13 maggio. In esso, traspare l'allarme suscitato da un'azione disciplinare che non indica quale violazione di legge avrebbe concretato l'ordinanza milanese. Nel comunicato si ribadisce che oggetto della “critica” disciplinare non può mai essere il merito del provvedimento, pena la scalfitura del principio costituzionale dell'indipendenza della magistratura. Lo stesso documento, che paventa il ragionevole pericolo che si vada affermando una giurisprudenza “difensiva” (in altri termini, sembra potersi dire, pavida e conformistica) per allontanare lo spettro di responsabilità disciplinari, affronta poi la questione del basilare bilanciamento tra libertà personale, esercizio della potestà punitiva, strumenti di tutela e conseguente scelta tra queste alternative nell'ipotesi di loro conflitto, quale quello manifestatosi nella specifica vicenda processuale. Il riferimento al rispetto della libertà personale appare particolarmente calzante in quanto una delle due norme la cui violazione è stata addebitata agli incolpati è proprio l'art.1 del d.lgs. 109 del 2006 che prevede che: “Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio e rispetta la libertà delle persone nell'esercizio delle funzioni”. Non può non destare amara meraviglia che si rimproveri l'inosservanza della norma in un caso in cui il provvedimento censurato era teso ad ampliare, e non a restringere, la libertà personale!
8. a) Osservazioni controfattuali
Ciò richiamato, vi è una preliminare tentazione alla quale non è semplice, e nemmeno utile, sottrarsi, quella di riconsiderare dal punto di vista fattuale e logico le circostanze poste a fondamento dell'azione disciplinare, in quanto asseritamente omesse nella pronuncia della Corte d'Appello. Il fatto che esse vengano, seppur in forma aggregata, prese qui in considerazione non va intesa come una concessione all'ipotesi che ai titolari dell'azione disciplinare sia consentito un esame controfattuale del corteo delle circostanze processualmente rilevanti: è vero, piuttosto, il contrario. Tuttavia, appare fruttuosa anche una siffatta confutazione a suffragio della tesi della complessiva inappropriatezza dell'incolpazione in sé e per il modo in cui è stata concepita. Per compiere questa operazione è necessario e sufficiente prendere le mosse dal provvedimento giudiziario onde scorgerne la sua piattaforma costitutiva e, in via di preliminarità logica, acclararne la congruenza rispetto al “thema decidendum” determinato dal materiale probatorio ed argomentativo devoluto dalla difesa alla Corte al fine della delibazione della propria istanza, non di caducazione, ma di sostituzione, della misura cautelare con altra comunque circondata da un presidio di controllo esterno teso a prevenirne l'inefficacia. Ciò che la difesa postulava era la valorizzazione di talune dimostrate ed incontestate circostanze di fatto cospiranti allo scopo assertivo del radicamento in Italia del cittadino straniero e della sfera dei suoi interessi economici e familiari e, conseguentemente, della disponibilità di idoneo luogo di dimora. Per nulla casuale risulta la concentrazione attorno a questi due poli tematici della prospettazione difensiva: entrambi, infatti, mostravano la chiara attitudine, in astratto ed in concreto, a sovvertire l'originario giudizio, fondante la precedente misura custodiale in carcere, sul pericolo di fuga del ricorrente, naturalmente incrementato nella diretta misura dell'incertezza o indeterminatezza del suo stabilimento e dei suoi movimenti. Lungo i binari di questa duplice verifica, solo realizzabile attraverso l'altrettanto duplice attività percettiva e valutativa degli atti, non poteva che indirizzarsi il giudizio del Collegio. Il passaggio è di indiscutibile rilevanza per l'inquadramento della condotta giudiziale per scriminarla dalla mortificante contestazione disciplinare, in ultima analisi risolventesi nella frontale negazione di sufficienti doti professionali. Ed invero, solo riuscendo nell'improba - ed alla luce dei fatti, impossibile - impresa di ribaltare il terreno dell'intervento giudiziale, pretendendo, come purtroppo è accaduto, che esso si svolgesse secondo le rime obbligate ministerialmente fissate, che avrebbe potuto concepirsi l'incolpazione. In altri termini, questa si è tradotta nell'imposizione “ex post” ai Giudici di un modello decisorio predeterminato non solo nell'esito (sfavorevole alla parte privata) ma addirittura nei mezzi da adottare nell'analisi per pervenire a tale risultato. Basterebbe la piana constatazione di questo brusco capovolgimento di prospettiva, dannoso per la libertà di giudizio, per decretare la carenza assoluta di plausibilità, o più esattamente la improponibilità o impromuovibilità, dell'azione disciplinare sovvertitrice dello statuto giudiziale garantito dalla Costituzione. Ma anche accettando per semplice completezza argomentativa di contraddire il piano inclinato su cui scivola l'iniziativa ministeriale si rafforza il convincimento, questa volta, della sua infondatezza in punto di completezza, adeguatezza, puntualità della motivazione dell'ordinanza di cui si tratta. Essa, infatti, si è pronunciata sugli elementi focali collegati all'istanza. In primo luogo vi è la piena adesione alla prospettazione difensiva della sussistenza del presupposto storico su cui poggiava l'istanza, ossia l'effettiva disponibilità di un alloggio in Italia, messo a disposizione dalla moglie all'interno di un edificio nel quale la stessa era proprietaria di altro appartamento. Ragionamento, questo, che, come prima detto, ben valeva ad escludere il paventato pericolo della irriferibilità della persona ad un luogo certamente identificabile e controllabile, così reagendo sull'iniziale timore della fuga. Timore a propria volta superabile sul piano probabilistico e della regolarità statistica (ossia alla stregua di regole di giudizio sfuggenti a qualsiasi censura di inaccuratezza o superficialità) attraverso la disposizione prescrittiva dell'applicazione del braccialetto elettronico, di cui nemmeno l'incolpazione riesce a nascondere la riconosciuta efficacia. Proprio su questi rilievi la Corte d'Appello, con giudizio derivante dal proprio libero ed insindacabile apprezzamento, scevro, per le ragioni prima individuate, da qualsiasi biasimevole mancanza, ha formulato la conclusione diretta a qualificare gli arresti domiciliari come misura atta a garantire l'eventuale consegna del cittadino straniero all'autorità estera procedente. La statuizione appare decisiva nell'economia del provvedimento perché essa mira alla cura dell'obiettivo della nuova misura cautelare, rendendola compatibile e funzionale anche con l'interesse dello stato straniero, affatto trascurato ma solo tutelato mediante uno strumento giudicato ragionevolmente utile. Né può reggere sul piano giuridico una critica desunta da eventi posteriori ed imprevedibili secondo un ordinario criterio prognostico quali la fuga dell'arrestato anche grazie all'effrazione del braccialetto. A completare il quadro della insanabile debolezza dell'accusa disciplinare giovano due brevi, complementari osservazioni. Entrambe attengono a profili messi in evidenza nella contestazione. La prima consiste nell'avere disatteso il contrario parere della pubblica accusa, quasi esso implicasse una limitazione della libertà decisoria o si trasformasse in una cogente prescrizione. In secondo luogo, va osservata la genericità della proposizione disciplinare accusatoria che include tra le circostanze non ponderate dalla Corte d'Appello la richiesta ministeriale del mantenimento della custodia in carcere: il rilievo è sollevato senza alcun concreto riferimento oggettivo e cronologico capace di dimostrare l'incidenza sul processo decisorio di questa circostanza, peraltro di sfuggente collocazione temporale.
Il metodo confutativo fin qui adottato ha consapevolmente proceduto “ad abundantiam”, lungo un tragitto improprio perché apparentemente si è accettato il contraddittorio sul tema cruciale della sindacabilità dei provvedimenti giudiziari applicando il metro della diretta censura al loro intrinseco contenuto e della sostituzione del canone decisorio applicato con quello soggettivamente divisato dal titolare (politico) dell'azione disciplinare, rivelatosi inconsistente anche sotto questo versante.
Adesso è il momento di trascorrere verso un piano più generale ed esemplare, quello della compatibilità di questa singola iniziativa disciplinare con il mosaico che concorre a delineare la condizione giuridica del magistrato quale ci viene consegnata dall'ordinamento.
8. b) Osservazioni di principio
Ricondurre i provvedimenti giurisdizionale al canale del controllo a fini di sanzione disciplinare e, quindi, assoggettarli ad uno scrutinio di merito non a fini impugnatori ma di verifica di corrispondenza ai parametri della diligenza professionale implica una quantità di problemi e rischi, tutti contrastanti con la figura costituzionale dell'appartenente all'ordine giudiziario. E di questo la collettività deve essere avvertita non nel proponimento di accrescere la tutela della posizione dei magistrati ma proprio in obbedienza al basilare precetto dell'art. 101 della legge suprema che vuole che la giustizia sia amministrata in nome del popolo. Ora, questo indefettibile nesso che collega funzionalmente ed idealmente l'attività giudiziaria alla comunità nazionale non può essere interrotto dall'inserimento in tale circuito di un nuovo attore che si assuma il compito di alterare il carattere lineare e diretto del collegamento attraverso azioni, astrattamente rientranti nel proprio ufficio, in concreto orientate ad influire sull'operato giurisdizionale. Si avrebbe, infatti, in tal caso una sorta di co-gestione, per di più in posizione non paritaria ma di preminenza, dell'attività giurisdizionale, la quale, formalmente attribuita all'appartenente all'ordine giudiziario, nasconderebbe la tagliola del suo sindacato a fini punitivi da parte di una figura-quella del titolare dell'azione disciplinare-estranea al circuito nel quale debitamente scorre il rapporto tra lo Stato-giudice ed il cittadino. Questo sarebbe, infatti, irreparabilmente influenzato dalla possibilità di censurare il provvedimento giudiziario all'esterno dell'apparato processuale strutturato su un piano multi-livello corrispondente ai gradi di giurisdizione. Si è già osservato[24] che l'assorbimento in chiave disciplinare di una vicenda processuale, una vicenda, cioè, che vive di atti formali e non di condotte fenomeniche, comporta l'inevitabile effetto di trasformare i titolari dell'azione punitiva in protagonisti di una forma alternativa, se non concorrente o antagonista, rispetto a quella ordinaria di amministrazione della giustizia e di assegnare loro un primato sconosciuto al sistema. Siffatta eccentrica e non consentita costituzionalmente concezione è stata per questo robustamente contrastata erigendo la solidissima barriera che espelle dall'area dei fatti disciplinarmente rilevanti tutte le possibili forme di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove, come rilevato nel paragrafo 5 a proposito dal comma 2 dell'articolo 2 del decreto legislativo 109 del 2006. Il sistema è coerente e completo nel prevedere reazioni interne al sistema giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti, fino ad arrivare ad un traguardo di definitività ed irrevocabilità coessenziale alla nozione di cosa giudicata (sia in senso formale sia in senso sostanziale). Solo e proprio in questo itinerario si realizza, da un canto, l'unità ordinamentale e, d'altro canto, si invera la previsione costituzionale della separazione dei poteri con il connesso riflesso dell'autonomia ed indipendenza di quello giudiziario.
Trasferendo questo delicatissimo ordine concettuale al caso da cui queste riflessioni promanano è di tutta evidenza che l'azione promossa dal Ministro appaia con nettezza fuoriuscire dall'area nella quale la relativa potestà disciplinare dovrebbe essere racchiusa. Essa, infatti, si dirige direttamente e senza infingimenti al prodotto dell'attività giurisdizionale, degradandolo ad atto privo del requisito della ponderazione in misura talmente elevata da toccare il livello della negligenza grave ed inescusabile, ossia tanto estesa da non potersi avvalere di qualsivoglia ragione giustificatrice. Ed il motivo di una così sferzante qualificazione (di un atto formale e non di un comportamento materiale) vien fatto consistere nella frontale contrapposizione tra la “ratio decidendi” utilizzata dai giudici e quella alternativamente posta dal Ministro come modello e paradigma unico e determinante di risoluzione del caso, di per sé non decidibile secondo la scansione argomentativa dei magistrati incolpati. La svolta è drammatica. Il Ministro non si limita ad indicare la propria personale opinione non collimante con quella espressa dal Collegio giudicante ma si spinge ad una doppia pretesa: quella della indiscutibile esattezza della propria tesi (o almeno della maggior esattezza a confronto di quella della Corte d'Appello) e l'altra, non meno ardita, del pronosticato successo di essa in un ulteriore grado di giudizio. Solo così, infatti, può interpretarsi l'inciso nel quale si predice il diverso impatto che sulla decisione avrebbe potuto avere l'esame delle circostanze reputate rilevanti e non considerate. Ma se anche si accedesse all'ipotesi restrittiva, che, cioè, l'inciso fosse riferito ad una diversa pronuncia da parte del medesimo Collegio giudicante, la ferita ordinamentale non sarebbe più lieve perché si sarebbe, comunque, in presenza di una impropria surroga da parte del Ministro nel compito decisorio istituzionalmente commesso ai giudici naturali precostituiti per legge. Resta, poi, l'ambiguità di fondo che caratterizza l'azione disciplinare. Essa, infatti, è stata in sostanza adibita a mezzo succedaneo a quello di un'impugnazione nemmeno proposta: il che genera le deprecabili conseguenze qui poste in rilievo. In primo luogo, resta inesplorato l'interrogativo su quale sarebbe stato il risultato dell'esame del provvedimento da parte di altro Giudice: il che ha autorizzato il promotore dell'azione disciplinare a congetturare, senza possibilità di smentita, la sua caducazione. In secondo luogo, è il criterio di utilizzazione dello strumento disciplinare che lo allontana irreparabilmente dalla retta via di sanzione dei comportamenti di disvalore tipizzati per legge. Ed infatti, l'atto di incolpazione si converte, nell'impostazione ministeriale, in iniziativa alternativa alla richiesta di riesame del provvedimento nelle dovute forme processuali e, pertanto, determina un'obiettiva, del tutto indesiderabile interferenza nell'esercizio della giurisdizione, che viene a contaminarsi con il potere esecutivo. Sorprende che manchi completamente nella contestazione il riferimento alla norma che si assume violata o erroneamente applicata, sicché ne deriva un'aporia nella descrizione del fatto che si riflette negativamente sulla possibilità di una difesa piena ed informata.
La somma di queste considerazioni critiche non si limita a denunciare l'imperfetta concezione del potere disciplinare e dei fini legittimamente perseguibili: vi è una causa additiva che segna l'irriducibile distanza della specifica iniziativa dalle aspettative della collettività in merito all'operato giudiziale ed al contesto di suo svolgimento. Dalla magistratura i cittadini attendono una risposta sgombra da calcoli opportunistici e disinteressata rispetto ai destini individuali dei singoli appartenenti all'ordine giudiziario quali si potrebbero configurare per effetto dei propri provvedimenti. L'affrancamento dai timori per l'azione degli altri poteri dello Stato è condizione necessaria e sufficiente per soddisfare gli interventi di giustizia che la società chiede, i quali possono solo provenire da un animo indifferente ai condizionamenti. Ecco perché, in ultima analisi, episodi come quello in commento incoraggiano i cittadini a ritrarsi dalla porta di ingresso degli uffici giudiziari e li spingono sulla via del qualunquistico scetticismo.
9. Uno sguardo al diritto eurounitario
Se il panorama nazionale dà vita da solo ad un articolato complesso di presidi in difesa dell'attività giurisdizionale, segnali non meno significativi ed univoci provengono, nella medesima direzione, dall'esperienza europea, ormai sussunta nella fortunata formula “diritto eurounitario”. È indubbio che in tale contesto geografico-giuridico-istituzionale si sia creata una koinè di principii, tutele, tensioni ideali che rassicurano i cittadini dell'Unione europea circa la sensibilità che tale istituzione nutre nei riguardi della libera ed indipendente esplicazione del potere giudiziario. E di questa fruttuosa predisposizione culturale partecipano sia la Corte di giustizia sia quella dei diritti umani. Entrambe parlano una lingua analoga e per certi versi identica, come la succinta esposizione che segue tenderà a mettere in risalto.
La Corte che siede in Lussemburgo si è espressa con accenti vibranti nel senso della necessità che il regime disciplinare applicabile ai giudici degli organi giurisdizionali nazionali rispetti il principio di indipendenza dei medesimi[25]. E ciò perché, prosegue la medesima sentenza, quando uno Stato avvia tali procedimenti disciplinari è in gioco la fiducia del pubblico nel funzionamento e nell'indipendenza del potere giudiziario, fiducia che, in uno Stato democratico, garantisce l'esistenza dello stato di diritto. Giova a rendere ancor più limpido il ragionamento della Corte di Giustizia ed assonante rispetto alla trama discorsiva qui sviluppata il passaggio centrale che così recita: “risulta essenziale, al fine di preservare questa stessa indipendenza ed evitare in tal modo che il regime disciplinare possa essere sviato dalle sue finalità legittime ed utilizzato a fini di controllo politico delle decisioni giudiziarie o di pressione sui giudici, che il fatto che una decisione giudiziaria contenga un eventuale errore nell'interpretazione e nell'applicazione del diritto nazionale e dell'Unione, o nella valutazione dei fatti e nella valutazione delle prove, non possa, di per sé, condurre a far sorgere la responsabilità disciplinare del giudice interessato”. In questa scultorea proposizione sembrano risuonare le stesse parole dell'art 2 comma 2 ripetutamente citato ed il medesimo apparato ideologico che da esse traspare e conduce alla recisione senza appello dell'aspirazione a fare dell'azione disciplinare una forma surrettizia di controllo politico sui provvedimenti giudiziari. Evenienza tanto più insidiosa ed ostile in quanto rivolta direttamente contro le pronunce in sé considerate, seppur ingannevolmente evocate nel loro profilo di asserita carenza motivazionale. E le affinità rispetto al caso in esame si rivelano in pari misura abbaglianti e fonte di preoccupazione: la dialettica negativa tra poteri dello stato esasperata al punto da indurre uno ad interferire (a possibili fini, politici, minatori ed anche solo putativamente) nella sfera dell'altro si risolve al contempo nella dissoluzione della tradizionale tripartizione e nella sfiducia del corpo sociale nei riguardi delle istituzioni.
La lingua che parla sul punto la Corte di Giustizia è uniforme e stabile: al centro del discorso vi è sempre, infatti, il tema della separazione dei poteri il cui riflesso positivo viene ravvisato nell'indipendenza dei giudici che deve essere segnatamente garantita nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo, in modo da porre gli stessi al riparo da interventi o da pressioni esterni che possano mettere a repentaglio l'indipendenza stessa[26]. Ribadire la sacertà del valore dell'indipendenza giudiziale da ogni altro potere statale equivale, in linea di principio, a rimuovere l’incubo di atti puntivi da questi sollecitati che obiettivamente comportino come conseguenza pratica o anche solo psicologica l'indebolimento dell'indipendenza giudiziale.
La stessa, forse addirittura accresciuta, attenzione è sempre stata riservata dalla Corte europea dei diritti umani alla delimitazione degli inviolabili confini della giurisdizione e, per precipitato logico, della condizione giuridica di quanti vi operano. Nella sentenza pubblicata il 9 marzo 2021 nel caso Eminagaoglu c. Turchia la Corte di Strasburgo non si è in nulla discostata dal pensiero di quella gemella di Lussemburgo fissando i congiunti e reciprocamente implicantisi principi: a) della specialità del ruolo istituzionale della magistratura da svolgere in modo da attrarre la fiducia del pubblico nel suo operato; b) dell'eguale rilevanza in tale ottica dei procedimenti disciplinari promossi contro i magistrati con ricadute sulle rispettive carriere: essi vanno condotti in modo da salvaguardarne l'indipendenza e da soddisfare le condizioni poste in particolare dall'art. 6 della Convenzione europea del 1950.
In altra sentenza la Corte EDU[27] ha richiamato a sostegno del valore insopprimibile dell'indipendenza del potere giudiziario fonti esterne, quali i Principi fondamentali sull'indipendenza del potere giudiziario adottati nel settimo congresso delle nazioni unite sulla prevenzione dei delitti e sul trattamento degli autori di gravi delitti tenutosi a Milano nel 1985 (testo approvato dall'assemblea generale dell'ONU con le risoluzioni 40/32 e 40/146 rispettivamente del 29 novembre e del 13 dicembre 1985) e la Magna Carta dei Giudici (Principi fondamentali) adottati nel novembre 2010 dal Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) il cui paragrafo 2 dichiara che l'indipendenza giudiziale e l'imparzialità sono prerequisiti essenziali per l'amministrazione della giustizia.
Severa è stata la risposta data dalla Corte EDU[28] in un caso di procedimento disciplinare posto in essere contro un magistrato in contrasto con l'art. 6 della CEDU. Ed infatti, agli Stati contraenti non può esser consentito omettere di disporre adeguate garanzie contro l'abuso o il cattivo uso dello strumento disciplinare con effetti nocivi sull'indipendenza giudiziale, espressamente definita come uno dei più importanti valori che sorreggono il funzionamento della democrazia.
Affermazione analoga quanto ad effetti e sostrato ideale si trova in altra sentenza di Strasburgo[29] in cui, a proposito dei procedimenti disciplinari nei confronti di magistrati, si afferma che l'ordinamento degli stati contraenti deve preparare un complesso di misure sufficienti ad assicurare l'assenza di perniciose pressioni esterne.
La rassegna precedente offre un'immagine nitida ed univoca del comune spirito informatore della giurisprudenza europea sulle prerogative da riconoscere al potere giudiziario. Quel che maggiormente rileva, anche per le ricadute nel diritto interno, è l'afflato che permea le pronunce delle due Corti in ordine alla infrazionabilità della garanzia di autonomia e indipendenza dalla protezione da pressioni esterne di carattere condizionante l'attività giurisdizionale. Ed altrettanto sintonico è il punto di vista che individua in un improprio esercizio della potestà disciplinare una maniera surrettizia e deviante che si propone di imporre un controllo esterno, fatto anche solo di suggestioni e timori reverenziali, sulla funzione giudiziaria. Il che conferma quanto improvvida si manifesti la recente iniziativa disciplinare ministeriale. Indipendentemente da una precisa e dichiarata volontà di minare il caposaldo della esclusione dal perimetro degli illeciti disciplinari funzionali, il concreto effetto che essa ha prodotto è stato quello di scuotere un'acquisizione mai prima discussa e di generare un grave sentimento di incertezza ed isolamento nell'intero ordine giudiziario, in perfetta contraddizione con lo statuto di garanzie che anche il diritto eurounitario ha da tempo radicato nelle coscienze e nelle menti giuridiche.
10. Sommarie notazioni finali
Se si riprende l'iniziale filo del discorso ben si può apprezzare, alla luce dell'intero itinerario di conoscenze man mano conseguite, l'utilità esemplare del caso esaminato. Esso, forse anche involontariamente (prudenzialmente e speranzosamente si preferisce concedere il beneficio del dubbio), ha scoperto una falla che si credeva definitivamente colmata ed impossibile da riaprire. Mettere in discussione l'estraneità dell'attività interpretativa e valutativa dei magistrati non significa privarli di un privilegio che li distinguerebbe da ogni altra categoria professionale per attrarli nel comune circuito di responsabilità. Ben altri sono gli effetti della sterilizzazione della salvaguardia fornita dal comma 2 dell'art.2 del d.lgs.109 del 2006. In primo luogo, si facilita e si incentiva il desiderio di incursioni esterne nella funzione giudiziaria, aprendo la via ad ogni genere di recriminazioni impiantate sulla insofferenza o sull'insoddisfazione personali in relazione a singoli provvedimenti. Incidentalmente si noti che la prassi mai revocata in dubbio del Consiglio Superiore della Magistratura è quella di disporre la piana archiviazione degli esposti da qualunque soggetto provenienti che tocchino il merito dell'attività giudiziaria e, pertanto, si traducano in censure proposte all'esterno del retto canale delle impugnazioni. E questa constatazione porta dritti al secondo, grave inconveniente che si annida nella sostanziale abrogazione della norma che sta al centro di questa indagine. L'azione disciplinare avente ad oggetto il prodotto della funzione giurisdizionale e non lo specifico comportamento materiale instrada verso l'abbandono della retta e garantista via che ruota intorno all'impugnazione quale reazione tipica e fruttuosa rispetto a provvedimenti che i destinatari, pubblici o privati, reputino difformi ai canoni della giustizia. E di scorciatoie l'attuale sistema, imperniato appunto su una struttura sequenziale di provvedimenti giudiziari, non avverte il bisogno in virtù della collaudata completezza delle sue articolazioni. Ed infine, vi è da considerare quanto dirompente possa prevedibilmente risultare il messaggio consegnato al cittadino, indotto a credere che esista un vindice, esterno al sistema, delle proprie delusioni, la cui opera produca non la sperata riforma del provvedimento contrario ma, esattamente come ai tempi della Star Chamber inglese delle ultime propaggini del basso medioevo, la appagante punizione del suo autore. Ancor di più occorre rifuggire da questo destabilizzante vortice se ad innescare il tourbillon è l’organo titolare della potestà disciplinare appartenente ad un altro potere dello Stato.
[1] Si vedano per tutti, più di recente e in generale, Campanelli, Il giudizio disciplinare dei magistrati ordinari: procedimento o processo? Natura, garanzie, criticità e ipotesi di riforma, Torino, 2018; e A.L.M. Toscano, Il controllo sui magistrati. Vigilanza ministeriale, CSM, procedimento disciplinare e garanzie costituzionali, Napoli, 2020.
[2] Si veda la sentenza 197 del 2018 che sancisce che i magistrati hanno il dovere di conformare la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell'esercizio delle funzioni perché ad essi è affidata la tutela dei diritti di ogni consociato, sicché sono tenuti più di ogni altra categoria di funzionari pubblici all'adempimento di tali precetti. La stessa Corte Costituzionale, nelle sentenze 87 del 2009 e 262 del 2003, ha chiarito che è sottesa al procedimento disciplinare a carico dei magistrati, l'esigenza di tutelare gli interessi connessi allo statuto di indipendenza della magistratura.
[3] Di cui parlò Taruffo nel suo seminale volume La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975.
[4] Serio, Responsabilità o immunità giudiziale: studio comparatistico su un'apparente alternativa, in Il giusto processo civile, 2017, pag. 333 ss.
[5] A segnare il punto di svolta fu la sentenza della Court of Appeal del 1974 nel caso Sirros v Moore 3 WLR 459.
[7] Anderson v Gorrie (1895) 1 QB 671.
[8] Garnett v Ferrand (1827) 6 B& C 626.
[9] “He (NdA: the judge) should be able to do his duty with complete independence and free from fear”.
[10] G. Scammell and Nephew Ltd v Harley (1929) 2 kb 419, che riprende Galloway v London Corpn (1864) 2 De GJ Sm 229.
[11] Si veda l'edificante lezione di Lord Hailsham, già prestigioso componente la House of Lords in formazione giurisdizionale (Appellate Committee), Democracy and judicial independence, in U.N.B. Law Journal,1977, pag.7 ss., tenuta il 17 ottobre 1977 alla Law School della University of New Brunswick.
[12] Lo ha fatto nel settembre 2019, per bocca della sua Presidente Lady Hale, un'unanime Supreme Court nel celebre caso in cui è stata sancita l'illegittimità della sospensione dell'attività parlamentare strumentalmente disposta dal primo governo Johnson: UKSC 41/2019 in R (on the application of Miller) v The Prime Minister, su cui si può vedere Serio, Prime impressioni relative alla sentenza 41/2019 della Supreme Court sulla (il)legittimità della sospensione dei lavori del parlamento inglese, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2020, pag. 555 ss.
[13] Silvestre, L'accesso all'“autoarchiviazione” disciplinare del P.G. della Cassazione: un vicolo stretto o un vicolo cieco?, in Jus. Vita e pensiero on line del 29 aprile 2022, che ripercorre il tormentato succedersi di pronunce del giudice amministrativo sul tema, fino a Consiglio di Stato V, 5712/2021, del carattere paragiurisdizionale o amministrativo della fase predisciplinare.
[14] Cass. SU civili 12311/2015.
[15] Cass. SU civili 11586/2019 e 7379/2013.
[16] Cass SU civili 11586/2019; conforme 3759/2009. Per un caso di specie, in cui si è esclusa la responsabilità disciplinare, si può vedere Sezione disciplinare CSM 157/2021 laddove si è ritenuto che non configurasse illecito disciplinare per grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile il fatto del magistrato che, presiedendo due collegi, abbia adottato due ordinanze conducenti a diverse soluzioni in punto di termini di durata massima della misura cautelare a condizione che i provvedimenti risultino ampiamente motivati, trattandosi di attività interpretativa di norme di diritto non censurabile, salve le ipotesi di grossolana ed inescusabile negligenza causata da superficialità o approssimazione.
[17] Sezione disciplinare CSM 12/2021.
[18] Esemplificative di questa tendenza necessariamente frammentaria sono 2 pronunce della sezione disciplinare che chiaramente risentono della particolarità delle circostanze. Con la prima, la 57 del 2021, si è stabilito che non costituisce illecito disciplinare, perché priva del carattere dell'abnormità, la condotta del Giudice dell'esecuzione che, in relazione alla situazione concreta, abbia negato l'esecutività della sentenza di primo grado. Con la seconda, la 47 del 2021, si è, al contrario affermata la responsabilità disciplinare per errore macroscopico e grave ed inescusabile negligenza del giudice per le indagini preliminari che aveva provveduto per due volte su due misure cautelari benché il relativo procedimento pendesse davanti ad altro giudice competente che aveva già emesso il decreto di giudizio immediato.
[19] Romboli, La responsabilità dei magistrati nel quadro dei principi e dei valori costituzionali, in Quaderno n. 8 della Scuola Superiore della Magistratura, Il procedimento disciplinare dei magistrati, 2022, pag.15 ss.
[20] Raimondi, Il patrimonio e l'impatto della Corte Costituzionale e della Corte europea dei diritti dell'Uomo sul giudizio disciplinare dei magistrati, in Quaderno n. 8 della SSM citato, pag. 95 richiama espressamente Corte Costituzionale 197/2018.
[22] Ferrajoli, 10 regole di deontologia giudiziaria, conseguenti alla natura cognitiva della giurisdizione, in Quaderno citato, pag. 85 ss.
[23] Serio, Riflessioni critiche sulla iniziativa disciplinare del Ministro della giustizia nel caso Artem Uss, in Questione Giustizia on line del 20 aprile 2023.
[24] Serio, Riflessioni critiche, citato.
[25] CGUE Grande sezione, sentenza 15 luglio 2021 in Commissione Europea c Repubblica di Polonia.
[26] CGUE, 16 novembre 2021, in una serie di procedimenti riuniti riguardanti numerose misure varate dal governo polacco in tema di condizione giuridica dei magistrati.
[27] Depositata il 20 febbraio 2013 nel caso Harabin c. Slovacchia.
[28] Sentenza del 27 maggio 2013 della quinta sezione nel caso Oleksander Volkov c. Ucraina riguardante il licenziamento disciplinare di un giudice di quello stato.
[29] Del 6 novembre 2018 in Ramos Nunes De Carvalho E Sà c. Portogallo.
Lo scritto, integrato e rivisto, riproduce la relazione tenuta all'Assemblea generale dell'Associazione Nazionale Magistrati tenuta presso la Corte di Cassazione l'11 giugno 2023.