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Sull’attenuazione della clausola di salvaguardia in materia di responsabilità civile del magistrato: questioni ancora aperte? *

di Federico Sorrentino
sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione
La sentenza della Corte costituzionale n. 164 del 2017, che ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale sull’abrogazione (ad opera della legge 27 febbraio 2015, n. 18) del procedimento di ammissibilità (cd. filtro) delle domande risarcitorie in tema di responsabilità civile del magistrato, non si è invece pronunziata su altre questioni coinvolgenti le modifiche apportate alla legge n. 117 del 1988. Tra queste, si esamina quella concernente l’attenuazione della cd. clausola di salvaguardia (posta a garanzia della funzione giurisdizionale), per vagliarne i possibili esiti alla luce del quadro normativo interno, costituzionale ed eurounitario

Premessa

Sulla legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati) sono state sollevate numerose questioni incidentali di legittimità costituzionale, ma la Corte costituzionale con la sentenza n. 164 del 2017 si è pronunciata solo su quella relativa all’abrogazione del procedimento di ammissibilità − cd. filtro − (dichiarandola peraltro infondata).

Non si è invece pronunciata sulle altre questioni, avendole ritenute non rilevanti nei giudizi in cui vennero sollevate. Ciò non toglie che in futuro, esse possano teoricamente essere riproposte alle condizioni indicate dalla stessa Corte costituzionale.

La Corte costituzionale infatti ha ritenuto «che le questioni sono state dai rimettenti delibate a prescindere da qualsiasi considerazione circa una loro diretta incidenza sullo statuto di autonomia e di indipendenza dei magistrati, tale da condizionare strutturalmente e funzionalmente lo ius dicere, ma facendo esclusivo riferimento alle sue modalità di esercizio. Né rileva che tali modalità possano costituire elementi variamente perturbatori della condizione psicologica di questo o quel magistrato, secondo i principi, del resto, costantemente ribaditi – sia prima sia dopo la sentenza n. 18 del 1989 – dalla giurisprudenza di questa Corte»; «ai fini della rilevanza occorrerà ulteriormente verificare se la norma asseritamente interferente sullo status di magistrato ne comprometta o possa comprometterne l’indipendenza e la terzietà in relazione alla concreta regiudicanda posta al suo esame ed alla specifica e conseguente decisione che è chiamato ad adottare nel giudizio a quo. Presupposti − questi – che non è dato rinvenire nelle odierne questioni, alla luce della stessa motivazione sulla rilevanza fornita dai giudici a quibus in relazione all’attuale sistema normativo sulla responsabilità civile del giudice».

Oggetto della presente relazione è dunque solo una di quelle questioni, non ancora scrutinate nel merito: quella relativa all’attenuazione della clausola di salvaguardia.

A) Sull’attenuazione della clausola di salvaguardia nell’azione contro lo Stato

1. Generalità

Come è noto, l’intervento legislativo del 2015, che ha introdotto numerose modifiche alla legge n. 117 del 1988, ha riguardato, per quanto concerne la responsabilità dello Stato, principalmente tre aspetti (oltre a quello dell’abolizione del procedimento di ammissibilità, di cui si è detto):

a) l’allargamento della risarcibilità dei danni non patrimoniali (anche fuori dei casi derivanti dalla privazione della libertà personale);

b) l’attenuazione della cd. clausola di salvaguardia (con estensione quindi dei casi in cui essa non opera, elencati nei commi 3 e 3-bis dell’art. 2);

c) l’eliminazione, nella fattispecie di illecito da accertare per l’affermazione della responsabilità, dell’elemento soggettivo dell’illecito (la negligenza inescusabile).

Un primo gruppo di censure di illegittimità costituzionale (sollevate dai Tribunali di Verona, di Treviso, di Catania e di Enna) ha riguardato la modifica della cd. clausola di salvaguardia, in ciò dovendosi intendere il limite invalicabile oltre il quale l’accertamento della responsabilità per danni causati dal magistrato non può estendersi, se non con compromissione della stessa funzione giurisdizionale e, quindi, dell’indipendenza e autonomia della magistratura [1].

Tale clausola di salvaguardia era ed è esplicitata nei suoi contenuti (rimasti infatti inalterati dal modificato art. 2, comma 2, della legge 117 del 1988) come segue: «Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove».

Tuttavia, va subito detto con chiarezza che già nel testo originario della legge n. 117 del 1988 la clausola di salvaguardia non poteva dirsi illimitata, non solo nel caso del “dolo” del giudice, ma anche nei casi di “colpa grave” elencati nel comma 3 dello stesso art. 2. Al riguardo viene in particolare in evidenza quanto stabilito da Corte cost. n. 18 del 1989 nell’esame della legge n. 117 del 1988:

«La garanzia costituzionale della sua indipendenza [della magistratura, ndr] è diretta … a tutelare, in primis, l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto. Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art. 2, n. 2 l. n. 117 cit.) ed il legislatore ha ampliato la sfera d’irresponsabilità, fino al punto in cui l’esercizio della giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca in violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa».

Il legislatore del 2015 è quindi intervenuto in materia con un’ulteriore attenuazione della clausola di salvaguardia, in particolare sostituendo ai casi di “colpa grave” di cui al previgente comma 3 dell’art. 2, quanto previsto ora dai commi 3 e 3-bis dell’art. 2.

2. Il travisamento

Al centro delle questioni di illegittimità costituzionali sollevate è l’introduzione della fattispecie del «travisamento del fatto e delle prove», tra le condotte danti luogo a responsabilità.

Secondo il Tribunale di Verona gli artt. 2, comma 1, lettera c), e 4, comma 1, della legge n. 18 del 2015, allargando il perimetro dell’area di accertamento della responsabilità anche alla valutazione dei fatti e delle prove (nel caso cioè di «travisamento del fatto o delle prove») si porrebbero in contrasto con gli artt. 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., apparendo le nozioni di travisamento del fatto o delle prove «equivoche» ed «indefinibili».

La legge n. 18 del 2015, pur riproponendo [nel suo art. 2, comma 1, lettera b)] la clausola di salvaguardia, ne avrebbe, di fatto, sensibilmente ridotto l’àmbito di operatività. La lettera c) del medesimo art. 2, comma 1, della legge n. 18 del 2015 ha infatti ampliato i casi di colpa grave generativi di responsabilità risarcitoria tanto sul piano numerico, con l’aggiunta dell’ipotesi del travisamento del fatto o delle prove, quanto sotto il profilo soggettivo, con l’eliminazione del riferimento alla negligenza inescusabile (la quale, ai sensi dell’art. 7, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 4 della legge n. 18 del 2015, costituisce ora condizione solo per l’esercizio dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato).

Prima di affrontare più nel dettaglio la portata di tale nuova fattispecie di responsabilità (cfr. infra 4.4 e ss.) occorre ripercorrere il quadro interpretativo in cui la modifica si è venuta ad inserire.

3. Il quadro interpretativo al vaglio della Corte di giustizia Ue

È noto che il dibattito sulla necessità di una modifica della legge n. 117 del 1988 è stato portato alla ribalta dell’opinione pubblica sulla spinta della giurisprudenza della Corte di giustizia Ue.

In effetti l’art. 1 della legge n. 18 del 2015 chiarisce l’oggetto e la finalità delle modifiche apportate alla legge n. 117 del 1988, e cioè, testualmente: «Al fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea» [2] (peraltro l’uso della parola «anche», con riferimento all’input derivante dalla Corte di giustizia Ue, sta a rimarcare ambiti di modifica più ampi, non necessariamente correlati ad esso) [3].

L’approccio alla problematica relativa alle modifiche della clausola di salvaguardia nell’ambito della responsabilità dello Stato implica dunque, in primis, una risposta alla seguente domanda: l’intervento legislativo del 2015 sul punto era un intervento necessitato dalla Corte di giustizia con la sentenza 24 novembre 2011, nella causa C-379/10, Commissione c. Italia? [4].

È chiaro che se la risposta è affermativa i dubbi di legittimità costituzionale, anche senza toccare temi di grande rilievo che si intrecciano in materia (ad es. sulla libertà interpretativa e valutativa del giudice; sull’indipendenza interna ed esterna, anche rispetto ai gradi “superiori” di giudizio; sui rapporti tra responsabilità civile ed errore giudiziario, anche in materia penale ex art. 24, ultimo comma, Cost.; sui rapporti tra intangibilità del giudicato e giudizio di responsabilità civile od anche sull’eventualità di giudizi paralleli vertenti da un lato sulla materia del contendere e dall’altro sulla responsabilità civile del giudice chiamato a deciderla) potranno dirsi in massima parte risolti, dovendo il nostro ordinamento conformarsi a quello eurounitario, a meno che non si profili una situazione di contrasto incolmabile con i «principi qualificanti e irrinunciabili dell’assetto costituzionale e quindi, con i principi che sovraintendono alla tutela dei diritti fondamentali» (che operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea, cfr. Corte cost. n. 238 del 2014; Corte cost. n. 24 del 2017).

Su quest’ultimo aspetto è da tenere presente per inciso che la Corte costituzionale, con la cit. n. 164 del 2017, nel ritenere infondate le censure di incostituzionalità relative all’abolizione del cd. filtro di ammissibilità da parte del legislatore del 2015, ha valutato la menzionata modifica (alla luce dei principi affermati dalla Corte di giustizia) in una visione più generale della legge, giustificando così l’abolizione del cd. filtro nella cornice di un «rinnovato bilanciamento normativo − i cui termini sono rimessi alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della ragionevolezza –», affermando quindi che l’esigenza di protezione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura è stata soddisfatta dal legislatore «per altra via» (diversa dal cd. filtro):

«Per un verso mediante il mantenimento del divieto dell’azione diretta contro il magistrato e con la netta separazione dei due ambiti di responsabilità, dello Stato e del giudice; per un altro, con la previsione di presupposti autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato, attivabile, in via di rivalsa, solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel giudizio di danno; per un altro ancora, tramite il mantenimento di un limite della misura della rivalsa. Tanto vale a stornare il paventato pericolo che l’abolizione del meccanismo processuale in esame determini un pregiudizio alla “serenità del giudice” come pure la temuta deriva verso una “giurisprudenza difensiva”, ipotesi, questa, che evidentemente oblitera l’elevato magistero proprio di ogni funzione giurisdizionale».

3.1 Orbene, la clausola di salvaguardia ex art. 2, comma 2, della legge 117 del 1988, secondo l’interpretazione data dalla Cassazione, e secondo la stessa lettura data di questa dalla cit. Corte di giustizia del 2011, nella causa C-379/10, non è stata ritenuta conforme al diritto eurounitario. Si riporta il dispositivo di infrazione:

«La Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, (omissis) è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti (…)».

La Corte di giustizia (punto 35 della sentenza, richiamando analogamente i punti 33-40 della sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo [5]) ha escluso infatti − diversamente da quanto sostenuto (cfr. punto 20 della sentenza) dall’Avvocatura dello Stato italiano in difesa della legge −, che il citato secondo comma dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988 potesse incontrare il limite della colpa grave (di cui al terzo comma), di guisa che, nei confronti dello Stato, la clausola di salvaguardia non si ritenne in alcun modo attenuata. Dalla Corte di giustizia vengono infatti citate in tal senso anche Cass. n. 15227/2007 [6] e Cass. n. 7272 del 2008 [7]. In effetti la clausola di salvaguardia di cui all’art. 2, comma 2, della legge 117 del 1988, in mancanza di alcun esplicito raccordo con i casi di colpa grave indicati al comma 3, è stata interpretata nel senso che essa operasse «anche» in tali casi, favorendo così un’interpretazione restrittiva dell’attività giudiziaria che potesse costituire fonte di responsabilità [8].

In dottrina si è parlato da ultimo di «sterilizzazione» della legge 13 aprile 1988, n. 117 «da parte della Cassazione italiana (che ha fatto prevalere una lettura estremamente protettiva dell’ordine giudiziario)» [9]. Sempre in punto di interpretazione restrittiva del comma 3 dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988, si veda in effetti ancora Cass. n. 2560/2012, la quale, a fronte di doglianze dirette ad evidenziare l’errore del giudicante che si discostò dalla valutazione del CTU facendo ricorso alla sua scienza privata, nonché all’affermazione dell’esistenza di analisi in realtà inesistenti, si limitò ad evidenziare l’insussistenza di «alcuna attività interpretativa e valutativa del magistrato connotata o connotabile in termini di dolo o colpa grave», «in ragione dell’operatività, in parte qua, della clausola di salvaguardia di cui alla l. 13 aprile 1988, n. 117, art. 2, comma 2, a tenor del quale nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. Né è inutile ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, siffatta clausola, giustificata dal carattere fortemente valutativo dell’attività giudiziaria e − come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 18 del 19 gennaio 1989 − attuativa della garanzia costituzionale dell’indipendenza del giudice, non tollera letture riduttive (Cass. civ., 27 novembre 2006, n. 25123)» [10].

Del resto, più chiaro, sul punto dell’attenuazione della clausola di salvaguardia, è risultato il testo normativo del 2006 in tema di responsabilità disciplinare, responsabilità disciplinare sicuramente autonoma e diversa, e comunque più onerosa anche là dove si rifà a concetti o principi comuni in tema di colpa grave (posto che l’art. 9, comma 3, della legge 117 del 1988, chiarisce che «la disposizione di cui all’articolo 2, che circoscrive la rilevanza della colpa ai casi di colpa grave ivi previsti, non si applica nel giudizio disciplinare»). Infatti, l’art. 2, comma 2, del d.lgs n. 109 del 2006 afferma chiaramente che la clausola di salvaguardia non è illimitata, non operando nel caso dei gravi illeciti ivi menzionati [«Fermo quanto previsto dal comma 1, lettere g), h), i), l), m), n), o), p), cc) e ff), l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare»] e tra le ipotesi di esclusione della salvaguardia vi è «la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile» [lett. g)] e «il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile» [lett. h)].

3.2 Ancora all’insegna di una chiusura interpretativa, anche dopo l’infrazione accertata dalla Corte di giustizia del 2011 (che per l’appunto è stata motivata anche sulla spinta del seguente rilievo della Commissione menzionato al punto 18: «Conseguentemente, sembrerebbe che, malgrado la pronuncia della menzionata sentenza Traghetti del Mediterraneo, il testo della legge n. 117/88 sia stato mantenuto inalterato e che la suprema Corte di cassazione non abbia modificato il proprio orientamento giurisprudenziale restrittivo, e ciò nonostante il fatto che detta sentenza abbia operato una “rielaborazione evidente” della normativa di cui trattasi»), si veda la già citata Cass. n. 2560/2012, là dove, in un obiter dictum, ha mostrato, in un giudizio di responsabilità civile azionato (attraverso il procedimento del cd. filtro) per un'asserita violazione della legge n. 117 del 1988 commessa da un giudice di Tribunale, di circoscrivere gli effetti della riscontrata infrazione nei seguenti termini:

«L’arresto della Corte lussemburghese propriamente riguarda la responsabilità dello Stato italiano per violazioni manifeste, da parte dell’organo giurisdizionale di ultimo grado, del diritto dell’Unione. La soluzione del caso sottoposto all’esame del collegio non pone, dunque, alcun problema di armonizzazione ermeneutica tra la disciplina dell’azione di responsabilità civile dei magistrati, come configurata dall’ordinamento e ricostruita dal diritto vivente, e gli obblighi comunitari dello Stato italiano. E ciò al di là del rilievo che, per quanto sin qui detto, nel comportamento del giudice (omissis) non è dato riscontrare alcuna violazione del diritto vigente, men che mai grave e manifesta, e quindi alcun profilo di colpa».

Da tale statuizione, pronunciata in una fattispecie di responsabilità addebitata a giudici di merito, sembrerebbe trarsi l’affermazione della Corte di cassazione secondo cui i principi affermati dalla Corte di giustizia riguardassero solo le «violazioni manifeste da parte dell’organo giurisdizionale di ultimo grado» e non anche quelle commesse dai giudici di merito.

In effetti fin dalla sentenza della Corte di giustizia 2003 Köbler [11], come in quelle successive, l’occasione per la Corte di giustizia di affrontare il tema era data da decisioni prese da giudici di ultima istanza (la Verwaltungsgerichtshof, la Corte suprema austriaca, per la sentenza Köbler e la Corte di cassazione italiana, per le sentenze del 2006 e del 2011, Traghetti del Mediterraneo), ma certamente il tema era più generale e riguardava i limiti della responsabilità dello Stato in caso di violazioni del diritto eurounitario da parte dei giudici, limiti che vengono dalla Corte di giustizia ritenuti non conformi al diritto Ue «anche» quando la violazione fosse stata commessa dalle Corti supreme (si veda all’evidenza il principio affermato dalla sentenza Köbler: «Il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempreché la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese»).

Invero, il fatto che l’azione di risarcimento del danno contro lo Stato possa essere esercitata (a norma dell’art. 4, comma 2, della legge n. 117 del 1988) «soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari» non significa che l’attività causativa di danno possa essere commessa solo dalla Corte di cassazione (quale «giudice di terza istanza»), posto che l’azione può essere promossa «comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno» (cfr. cit. art. 4, comma 2, legge n. 117 del 1988). Si consideri, ancora, il comma 3 dell’art. 4 della legge n. 117 del 1988: «L’azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato» [12].

3.3 Deve dunque ritenersi (per rispondere al quesito, sopra formulato, se cioè l’intervento del legislatore fosse o meno necessitato da quanto deciso dalla Corte di giustizia) che, in tale quadro normativo e interpretativo, detto intervento del legislatore italiano fosse ormai divenuto ineludibile [13].

Per inciso, sia consentito ricordare quanto sostenuto fin dal 1988 nel primo commento alla legge n. 117 del 1988 circa il fatto che la Corte costituzionale con la sentenza n. 2 del 1968 nel giudicare infondate le censure di incostituzionalità del regime di responsabilità del giudice allora previsto nei più angusti limiti fissati dagli artt. 55 e 56 cpc, non mancò, molto significativamente, di indicare una soluzione per superare tale rigido sistema (per una maggiore tutela dei cittadini danneggiati), mediante cioè il «riconoscimento, da parte della giurisprudenza, della responsabilità statale anche per ipotesi diverse (evidentemente facendo riferimento a quella relativa alla colpa grave), analogamente a quanto avvenuto per i pubblici dipendenti. Questi ultimi infatti rispondono nei confronti del terzo solo entro i limiti del dolo e della colpa grave; “eppure (notava allora la Corte costituzionale) ciò non ha precluso alla giurisprudenza di riconoscere la responsabilità statale al di là della colpa grave e addirittura della colpa: lo ha consentito perché l’art. 23 e lo stesso art. 22 (TU 1957 n. 3), non richiamandola per questi casi, neanche la negano” (sent. n. 2 del 1968)» [14].

Si notava allora, con osservazione rivelatasi profetica, come per la Corte costituzionale «il diritto al risarcimento nei riguardi dello Stato per i danni cagionati dai pubblici dipendenti (nel caso, dal giudice) nell’ipotesi non previste per questi ultimi non è costituzionalizzato, non trova cioè garanzia nel precetto di cui all’art. 28 Cost. (pur potendo tale diritto essere previsto, si sottolinea, dalla legislazione o ad opera della giurisprudenza secondo i principi generali)», e come tale indicazione della Corte costituzionale di una responsabilità dello Stato per tutti gli atti dolosi e colposi del magistrato da un lato e responsabilità del magistrato solo nelle ipotesi di cui art. 55 cpc dall’altro, venne disattesa dalla Corte di cassazione con le sentenze Cass., Sez. unite 3719/1975, Cass. n. 1916/1979 [15].

Il legislatore del 1988 mantenne tale impostazione, pure non essendo ciò, come si è detto, una scelta obbligata, e quindi si mantenne l’identità dei casi di responsabilità dello Stato con quelli nei confronti del magistrato in sede di rivalsa (in disparte i casi dei giudici conciliatori e dei giudici popolari e dei cittadini estranei alla magistratura presenti in alcuni organi giudiziari collegiali, di cui all’art. 7, comma 3, della legge 117 del 1988).

Fino a che, dopo tanti anni, è dovuta intervenire la Corte di giustizia Ue per imporre una diversa opzione.

4. I vincoli Ue all’intervento legislativo interno

Ma quali erano i limiti di intervento effettivamente imposti dalla Corte di giustizia? Quale tipo di modifica sarebbe stata necessaria, secondo la Corte di giustizia, per allineare il nostro ordinamento al diritto eurounitario?

Due i punti erano da modificare (secondo quanto emerge dalle pronunce della Corte di giustizia):

a) l’esclusione della responsabilità dello Stato in caso di violazione derivante da «interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove» − in realtà sul punto si pongono tre distinte questioni: aa) interpretazione di norme di diritto; bb) valutazione dei fatti; cc) valutazione delle prove;

b) la limitazione della responsabilità dello Stato «ai soli casi di dolo e colpa grave» (si veda il dispositivo della sentenza Corte di giustizia del 2011, nella causa C-379/10, riportato supra 3.1).

A tutto ciò si è inteso rispondere con la modifica del comma 2 dell’art. 2 sulla clausola di salvaguardia, con la quale modifica infatti vengono «fatti salvi i commi 3 e 3-bis», commi attraverso i quali sono stati, quindi, posti i limiti di operatività della clausola di salvaguardia stessa.

4.1 Le ipotesi di condotta tipizzate

Come è noto il comma 3 dell’art. 2 della legge 117 del 1988 aveva previsto quattro ipotesi «tipizzate» di condotta costituenti colpa grave: la grave violazione di legge; i due casi di errore (che riecheggiano l’errore revocatorio) quali l’affermazione o la negazione di un fatto la cui, rispettivamente, inesistenza o esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; l’emissione di un provvedimento sulla libertà personale fuori dei casi consentiti o senza motivazione.

Il legislatore del 1988 nella tipizzazione di tali casi di colpa grave (casi cioè ex art. 43 cp qualificabili come di «colpa specifica», ricorrente cioè quando l’agente abbia violato leggi, regolamenti, etc.) non si limitò alla previsione o descrizione di una condotta di per sé integrante la negligenza, l’imperizia e l’imprudenza, ma inserì − tranne che nell’ultimo caso (sulla libertà personale) − anche il presupposto dell’elemento psicologico, costituito dalla «negligenza inescusabile».

4.2 Orbene, con la modifica del comma 3, con la quale si esclude, per la responsabilità in parola (cioè per la responsabilità dello Stato), la ricorrenza anche dell’elemento psicologico (della «negligenza inescusabile»), il legislatore del 2015 si ritiene abbia dato una risposta alla Corte di giustizia che aveva censurato la limitazione della responsabilità dello Stato «ai soli casi di dolo e colpa grave»: si veda in particolare il punto 43 della cit. sentenza della Corte di giustizia del 2011 là dove riconosce che «la condizione della “colpa grave”, di cui all’art. 2, commi 1 e 3, della legge n. 117/88, che deve sussistere affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato italiano, viene interpretata dalla suprema Corte di cassazione in termini tali che finisce per imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di “violazione manifesta del diritto vigente”» (che è la nozione «postulata dalla Corte ai fini del sorgere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione», cfr. punto 39).

4.3 Con il comma 3-bis si sono enucleate le condizioni perché possa ravvisarsi la «violazione manifesta di legge» (così sostituita la previgente ipotesi di «grave violazione di legge») – e del diritto dell’Unione europea −, in tali limiti e condizioni non operando quindi la clausola di salvaguardia dell’«interpretazione di norme di diritto»: «ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea».

La norma riproduce in sostanza quanto stabilito nella sentenza della Corte di giustizia del 2003, Köbler:

«Il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell’errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE, ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia» (sentenza Köbler, cit., punti 53-56).

Nella sentenza della Corte di giustizia del 2011, nella causa C-379/10, sono state richiamate secondo costante giurisprudenza (ivi citata) le tre «condizioni in presenza delle quali uno Stato membro è tenuto al risarcimento dei danni causati ai singoli per violazione del diritto dell’Unione al medesimo imputabile, vale a dire che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e, infine, che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi» (punto 40 di cit. Corte di giustizia 24 novembre 2011, nella causa C-379/10).

Come rilevato in dottrina, la modifica della clausola di salvaguardia in punto di «interpretazione della legge» era imposta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia solo con riferimento al diritto eurounitario, e non invece, come ha ritenuto di fare il legislatore del 2015, anche per tutto il diritto nazionale [16]. D’altra parte essendo il legislatore intervenuto modificando vari aspetti della disciplina della responsabilità civile dei magistrati (e non solo quella dello Stato rispetto alle violazioni del diritto eurounitario) «una diversa considerazione del diritto interno avrebbe rischiato di porsi in contrasto con l’art. 3 Cost.» [17].

Per completezza va evidenziato che, come sopra accennato, in realtà la clausola di salvaguardia prevista dalla legge n. 117 del 1988, con riferimento alla «interpretazione della legge», non poteva dirsi «assoluta», giacché (in disparte l’interpretazione restrittiva che ne è stata data) essa incontrava già il limite della «grave violazione di legge» (sia pure quando «determinata da negligenza inescusabile»).

4.4 Come sopra accennato (supra n. 2), per rendere non illimitata la clausola di salvaguardia della «valutazione del fatto e delle prove» l’intervento del legislatore del 2015 ha aggiunto l’ipotesi di «travisamento del fatto o delle prove» alle condotte tipizzate previste nell’originario comma 3 dell’art. 2.

Sulla nuova ipotesi di colpa grave del «travisamento del fatto e delle prove» tre sono gli aspetti che vengono in rilievo (tutti collegati tra loro) nelle questioni di costituzionalità sollevate:

a) il problema interpretativo concernente la coesistenza della nuova ipotesi del «travisamento del fatto e delle prove» con quella dell’errore revocatorio (dell’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento, o della negazione di un fatto la cui esistenza risulti incontrastabilmente dagli atti del procedimento), nella parte in cui, cioè, l’ipotesi del «travisamento» è stata aggiunta, e non già prevista in sostituzione dell’errore revocatorio;

b) l’insufficiente tipizzazione del «travisamento del fatto e delle prove» (con ampia possibilità di condizionare l’esercizio della funzione giurisdizionale: qualsiasi valutazione dei fatti o del materiale probatorio potrebbe essere, infatti, censurata semplicemente qualificandola come travisamento, con ulteriori ricadute negative in termini di ampliamento indefinito della possibilità di sindacato sui provvedimenti giudiziari e di estrema incertezza sull’àmbito applicativo dell’azione obbligatoria di rivalsa);

c) il contrasto (della apportata modifica) con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 18 del 1989, là dove si afferma detta clausola e la tipizzazione dei casi di colpa grave essere funzionali alla tutela dell’indipendenza del giudice, che, a propria volta, costituisce garanzia di apprezzamento imparziale delle risultanze istruttorie.

4.5 Per quanto non sia sempre semplice per l’interprete qualificare e distinguere, in concreto, le ipotesi di travisamento del fatto, di travisamento delle prove e di errore revocatorio [18], possono essere ricordati i seguenti principi rilevabili dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, tralasciando in questa sede (in quanto costituente un riferimento solo indiretto) l’elaborazione interpretativa relativa all’ipotesi del travisamento del fatto dell’atto amministrativo, quale figura sintomatica dell’eccesso di potere [19].

In campo civile il travisamento dei fatti è sostanzialmente assimilabile all’errore revocatorio (quale errore percettivo e non valutativo), mentre il travisamento della prova implica, non una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che quella informazione probatoria, utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale (cfr. Cass., n. 10749 del 25 maggio 2015; n. 12362 del 24 maggio 2006; n. 2174 dell’8 aprile1982; n. 433 del 22 gennaio 1982).

Anche con riferimento al processo penale, «il travisamento della prova non tocca il livello della valutazione, ma si arresta alla fase antecedente dell’errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio (Cass., 12 dicembre 2012, M. id, Rep. 2013, voce Cassazione penale n. 37)» [20]. Secondo un’attenta analisi della giurisprudenza di legittimità la nozione di travisamento delle prove si sarebbe «affermata in tempi più recenti sovrapponendosi» a quella di travisamento del fatto [21].

V’è da aggiungere, in merito alla censura di incostituzionalità dell’ipotesi di «travisamento dei fatti» (in aggiunta alla già prevista ipotesi di errore revocatorio), quanto osservato nell’intervento dell’Avvocatura dello Stato (nel procedimento avanti alla Corte costituzionale e deciso da cit. Corte cost. n. 164 del 2017), secondo cui «pur in presenza di possibili “spazi di sovrapposizione” con il cosiddetto errore revocatorio – ossia con le ipotesi dell’affermazione di un fatto escluso e della negazione di un fatto risultante incontestabilmente dagli atti – il concetto di travisamento conserverebbe un proprio autonomo e definito àmbito di operatività. Il travisamento potrebbe, infatti, consistere non solo nella “‘svista’ rappresentativa” che integra l’errore revocatorio, ma anche nello stravolgimento del dato fattuale, dovuto ad una macroscopica omissione nella percezione di fatti secondari decisivi, ovvero della regola di inferenza logica applicata» (cfr. punto 1.7.2. della narrativa della sentenza Corte cost. n. 164 del 2017).

Secondo parte della dottrina «lo sdoppiamento che l’art. 2, 3° comma, ha stabilito fra travisamento del fatto e affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento incrina in modo serio il bilanciamento tra il principio costituzionale di indipendenza della magistratura e quello di responsabilità perché invade il campo della valutazione del fatto, istituzionalmente affidato al libero convincimento del giudice» [22]. Per altri, in generale, l’attenuazione della clausola di salvaguardia porterebbe alla «concreta prospettiva di una giurisprudenza difensiva, cioè dell’eccesso di cautela cui può essere indotto il magistrato una volta che le nuove deroghe alla clausola di salvaguardia aprono, in sede di valutazione della responsabilità dello Stato (ma anche del magistrato in sede di rivalsa, se sia riconosciuto il dolo o la negligenza inescusabile nei casi previsti dall’art. 7) spazi non ben definiti al sindacato nel merito delle decisioni, confinando i giudici in un ruolo burocratico di impiegati della giurisdizione. Una giurisprudenza che abdica alla sua funzione» [23]. D’altro canto v’è chi sostiene che «lo spazio assegnabile al travisamento dovrebbe restringersi a eccezionali e abnormi casi limite di ricostruzione manifestamente e macroscopicamente errata dei fatti e dei dati probatori» [24].

4.6 Tenuto conto degli stretti rapporti tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare, e del fatto che quest’ultima può coprire un ambito di condotta sicuramente più ampio della prima, merita una riflessione la circostanza che, da un lato, le modifiche della legge n. 18 del 2015 hanno incluso, tra le ipotesi di condotta danti luogo a responsabilità civile, sia il travisamento dei fatti sia il travisamento delle prove (nei confronti dello Stato e, nei confronti del magistrato in sede di rivalsa quando sia determinato da «negligenza inescusabile»), dall’altro, nel d.lgs n. 109 del 2009 sulla responsabilità disciplinare solo la prima fattispecie del «travisamento dei fatti» (e non la seconda sul «travisamento delle prove») costituisce espressamente illecito disciplinare [cfr. art. 2, lett h), d.lgs n. 109 del 2006].

4.7 Di tal che v’è da chiedersi allora se fosse stato realmente necessario, da parte del legislatore italiano per adeguarsi al decisum della Corte di giustizia, operare su tutti e tre gli aspetti della clausola di salvaguardia riportati nello stesso dispositivo della Corte di Lussemburgo (in quanto l’incompatibilità delle norme interne al diritto eurounitario è stata affermata quando la «violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove») ovvero se fosse stato sufficiente un adeguamento limitato anche ad uno ovvero a due di tali profili (escludendo ad esempio il «travisamento delle prove»).

La risposta sembra essere nel senso che l’allineamento con il diritto eurounitario avrebbe dovuto comportare una modifica (oltre che nell’interpretazione di legge, quando si traduca in una «violazione manifesta della legge») anche per quanto riguarda la «valutazione dei fatti e delle prove» (non essendo sufficiente la previsione dell’errore revocatorio) [25]. Si vedano in particolare i punti 37, 38 e 39 della sentenza Corte di giustizia 2006, Traghetti:

«37. Si deve giungere ad analoga conclusione nel caso di una legislazione che escluda, in maniera generale, la sussistenza di una qualunque responsabilità dello Stato allorquando la violazione imputabile ad un organo giurisdizionale di tale Stato risulti da una valutazione dei fatti e delle prove.

38. Da un lato, infatti, una simile valutazione costituisce, così come l’attività di interpretazione delle norme giuridiche, un altro aspetto essenziale dell’attività giurisdizionale poiché, indipendentemente dall’interpretazione effettuata dal giudice nazionale investito di una determinata causa, l’applicazione di dette norme al caso di specie spesso dipenderà dalla valutazione che egli avrà compiuto sui fatti del caso di specie così come sul valore e sulla pertinenza degli elementi di prova prodotti a tal fine dalle parti in causa.

39. Dall’altro lato, una tale valutazione – che richiede a volte analisi complesse – può condurre ugualmente, in certi casi, ad una manifesta violazione del diritto vigente, sia essa effettuata nell’ambito dell’applicazione di specifiche norme relative all’onere della prova, al valore di tali prove o all’ammissibilità dei mezzi di prova, ovvero nell’ambito dell’applicazione di norme che richiedono una qualificazione giuridica dei fatti».

4.8 Del resto, nonostante le differenze sopra evidenziate (sub 4.5) le espressioni di «travisamento del fatto» e «travisamento delle prove» sono nella prassi usate quasi come un sintagma o comunque appaiono strettamente connesse, posto che un travisamento del fatto (commesso dal giudice) può basarsi in realtà anche su un travisamento della prova, e, viceversa, il travisamento della prova (da parte del giudice) può essere a volte determinato da un travisamento, a monte, del fatto oggetto del contendere (non chiaramente dedotto dalle parti e/o erroneamente supposto dal giudice).

Da tenere presente inoltre che nel settore civile per la sussistenza dell’errore revocatorio vero e proprio (quello cioè previsto dall’art. 395 n. 4 cpc) è prevista la condizione che «il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare» (trattandosi, appunto, di errore percettivo e non valutativo); mentre il travisamento del fatto, quale errore «valutativo», sembrerebbe sindacabile ai sensi del vigente art. 360 n. 5 cpc (alla luce dell’interpretazione data di tale disposizione dalle Sezioni unite) allorquando il vizio si sostanzi in una «anomalia» della motivazione (del provvedimento impugnato) consistente nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» [26].

Inoltre, per ritornare − per un’opportuna visione di insieme − sulla normativa in tema di responsabilità disciplinare, l’ipotesi del «travisamento delle prove» è comunque trattata in dottrina in uno con quella del «travisamento dei fatti» di cui all’art. 2, comma 1, lett. h), del d.lgs n. 109 del 2006:

«Il travisamento dei fatti che può determinare la responsabilità disciplinare del magistrato non è dunque assimilabile ad un vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, quanto piuttosto ad una inconciliabile contraddittorietà, emergente in maniera inequivoca, tra il provvedimento giurisdizionale reso e le risultanze degli atti e le relative prove acquisite. Esso è quindi assimilabile ad un errore di fatto (nella valutazione delle prove) e non ad un errore di diritto» [27].

In ogni caso nella responsabilità disciplinare la fattispecie del travisamento delle prove potrebbe essere oggetto di contestazione nell’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. ff), del d.lgs n. 109 del 2006, là dove si prevede l’«adozione di provvedimenti … sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza», quando detto errore sia consistito nel travisamento della prova.

D’altro canto, sempre in tema di responsabilità disciplinare, la configurabilità di una ipotesi di illecito consistente nel «travisamento delle prove» può desumersi, con ulteriore argomento, dai limiti di operatività della clausola di salvaguardia ove si menziona espressamente anche la «valutazione delle prove», la quale clausola non opera, appunto, nei gravi illeciti menzionati [cfr. l’art. 2, comma 2, del d.lgs n. 109 del 2006: «Fermo quanto previsto dal comma 1, lettere g), h), i), l), m), n), o), p), cc) e ff), l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare»].

Tutto ciò per concludere quindi che, a fronte di ipotesi di errori commessi dal giudice già sindacabili a vario titolo sul piano interno, l’attenuazione della clausola di salvaguardia, imposta dalla Corte di giustizia in tema di responsabilità civile dello Stato per tali errori, difficilmente potrebbe, nell’attuale sistema, porsi come manifesta compromissione della stessa funzione giurisdizionale e, quindi, dell’indipendenza e autonomia della magistratura, nell’esercizio del potere di interpretazione della legge e di apprezzamento imparziale dei fatti e delle risultanze istruttorie.

Ciò non significa, d’altro canto, che l’ambito di operatività della clausola di salvaguardia possa considerarsi ormai meramente apparente o simbolico, ma le citate norme dovranno essere interpretate, in concreto, in modo costituzionalmente orientato, in modo cioè comunque da preservare l’attività di valutazione ed interpretazione [28].

B) Sull’attenuazione della clausola di salvaguardia nell’azione di rivalsa

6. Quanto all’attenuazione della clausola di salvaguardia nell’azione di rivalsa, sono del tutto leciti i dubbi posti dal Tribunale di Treviso in merito alla legittimità costituzionale dell’estensione delle ipotesi di responsabilità personale del magistrato anche con riferimento a quella del «travisamento del fatto o delle prove» [29], dubbi così riportati in narrativa della sentenza Corte cost. n. 164 del 2017: «È ben vero, infatti, che la Corte di Lussemburgo ha ritenuto incompatibile con il diritto comunitario l’esclusione della responsabilità civile nei casi in cui il danno connesso all’esercizio di funzioni giudiziarie sia dovuto ad una errata interpretazione di norme di diritto o ad una errata valutazione del fatto o delle prove (sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo), ma tale affermazione – come precisato espressamente dalla sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler – si riferisce solo alla responsabilità dello Stato, e non anche alla responsabilità personale del magistrato» (cfr. punto 2.2 della narrativa della sentenza Corte cost. n. 164 del 2017).

In altri termini, al di fuori degli obblighi derivanti dal diritto eurounitario (inerenti solo la responsabilità nei confronti dello Stato), si riespande, nel campo della responsabilità personale del magistrato, la problematica dei limiti costituzionali in merito alla discrezionalità del legislatore in materia, secondo quanto tradizionalmente già affermato dalla Corte costituzionale.

Sulla discrezionalità del legislatore in materia, ma anche sui limiti della stessa, si veda la sentenza Corte cost. n. 385 del 1996 [30], che (in una fattispecie di conflitto di attribuzione tra giudice ordinario e giudice contabile) ebbe modo di chiarire che «gli artt. 101, 102, 104 e 108 Cost. – indipendentemente dall’esame della pertinenza di tutte queste disposizioni al caso in esame – non valgono ad assicurare al giudice uno status di assoluta irresponsabilità, pur quando si tratti di esercizio delle sue funzioni riconducibili alla più rigorosa e stretta nozione di giurisdizione» per cui ne deriva «la conciliabilità in linea di principio dell’indipendenza della funzione giudiziaria con la responsabilità nel suo esercizio, non solo con quella civile, oltre che penale, ma anche amministrativa, nelle sue diverse forme». Ed ancora la sentenza Corte cost. n. 26 del 1987, relativa all’ammissibilità del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, nella quale la Corte ha affermato:

«Che qui vi sia posto per scelte legislative discende proprio dall’art. 28 della Costituzione, dove − come questa Corte ha già avuto modo di precisare (v. sentenza n. 2 del 1968) − trova affermazione “un principio valevole per tutti coloro che, sia pure magistrati, svolgono attività statale: un principio generale che da una parte li rende personalmente responsabili, ma dall’altra non esclude, poiché la norma rinvia alle leggi ordinarie, che codesta responsabilità sia disciplinata variamente per categorie o per situazioni”. Scelte plurime, anche se non illimitate, in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni» [31].

7. In effetti il legislatore del 2015, una volta ampliato su input della Corte di giustizia, l’ambito della responsabilità dello Stato, è intervenuto anche (e autonomamente) sul regime della responsabilità personale del magistrato (azione di rivalsa) posto che tale regime, nel testo originario della legge n. 117 del 1988, era del tutto parallelo a quello nei confronti dello Stato, cui rinviava.

Il primo comma dell’art. 7 della legge n. 117 del 1988 è stato dunque modificato nei seguenti modi:

a) confermando (ma questa volta in modo espresso) l’obbligatorietà dell’azione di rivalsa (il Presidente del Consiglio «ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa», in luogo di «esercita l’azione di rivalsa»);

b) riscrivendo le condotte fonte di responsabilità personale;

c) richiedendo la sussistenza dell’elemento psicologico dell’illecito («dolo o negligenza inescusabile») – intervento quest’ultimo necessario una volta espunto l’elemento psicologico della negligenza inescusabile per la configurabilità della responsabilità dello Stato −.

8. Quanto alla «riscrittura» delle condotte tipizzate fonte di responsabilità (incidenti quindi sulla clausola di salvaguardia), esse non sono esattamente le stesse di quelle di cui ai commi 2, 3 e 3-bis dell’art. 2, ciò ponendo alcuni problemi interpretativi.

Le ipotesi menzionate nel novellato art. 7, comma 1, legge n. 117 del 1988 previste per l’azione di rivalsa infatti si sostanziano testualmente (oltre al diniego di giustizia) nei casi seguenti: «La violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove». Rispetto alle condotte danti luogo a responsabilità dello Stato rimangono dunque fuori quelle consistenti nel cd. errore revocatorio e quella relativa all’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale (fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione).

Sul punto si ritiene che in tale materia, così rigorosamente disciplinata, non vi sia spazio per un’interpretazione della norma che consenta anche un’azione di rivalsa facoltativa per le ipotesi di responsabilità non espressamente contemplate nel comma 1 dell’art. 7, che pure abbiano portato all’affermazione della responsabilità dello Stato [32].

Proprio con riferimento a tali discrasie, prima di soffermarci sul tema in parola (sulla clausola di salvaguardia, infra n. 9), non possono non essere rilevate, per inciso, alcune irrazionalità del sistema, che afferiscono proprio all’obbligatorietà dell’azione di rivalsa.

Se l’obbligatorietà dell’azione di rivalsa poteva dirsi giustificata o addirittura necessitata nel sistema previgente al fine di evitare discriminazioni tra magistrati (da sottoporre a giudizio di rivalsa) sulla base di scelte discrezionali della Presidenza del Consiglio (con vulnus quindi dell’indipendenza e autonomia di ogni singolo magistrato, soggetto solo alla legge), tale obbligatorietà (già espressa, come si è detto, nella più tenue formulazione costituita dall’espressione: «Lo Stato … esercita l’azione di rivalsa», in luogo di quella vigente: «Il Presidente del Consiglio dei ministri … ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa») aveva pur sempre, come presupposto, l’accertamento della responsabilità dello Stato sotto tutti i profili, ivi compreso quello soggettivo allora richiesto (della negligenza inescusabile).

Nel sistema odierno, stante l’intervenuta «scissione» (anche nei suoi contenuti) della responsabilità dello Stato rispetto a quella personale del magistrato, il Presidente del Consiglio, come si è detto, «deve» esercitare l’azione «al buio» [33], ovvero, peggio ancora, nella consapevolezza di un’azione infondata − con possibili riflessi sulle spese di lite − allorché già al momento della proposizione dell’azione stessa sussistano all’evidenza gli estremi giustificativi dell’errore giudiziario commesso [34].

Legittimo chiedersi se l’attuale azione di rivalsa, così disciplinata, abbia assunto (quanto meno nel suo automatismo, per le ipotesi previste) connotazioni che si avvicinano a quelle di uno strumento sanzionatorio o punitivo, allontanandosi dalla sua natura di azione ripristinatoria del danno subito dall’erario, e se tali connotazioni, in uno con le censure inerenti anche l’ampiezza dei presupposti per il suo esercizio, siano compatibili con le garanzie costituzionali riservate alla magistratura [35].

9. Per quanto riguarda invece i dubbi di costituzionalità sollevati in merito all’attenuazione della clausola di salvaguardia, incentrati soprattutto sulla genericità e incertezza dell’ipotesi di «travisamento del fatto e delle prove» (e quindi come forte limite all’indipendenza del giudice «nel cuore della propria attività» [36] valutativa dei fatti e delle prove), può osservarsi che, come si è detto, tali dubbi trovano una loro soluzione nei principi affermati dalla giurisprudenza eurounitaria solo con riferimento alla responsabilità dello Stato. Quando invece si tratti di responsabilità personale del magistrato, fuori quindi del suddetto vincolo europeo, dovrebbero essere presi in esame, come sopra accentato, alla luce dei principi stabiliti dalla Costituzione, così come elaborati dalla Corte costituzionale in materia.

Tuttavia al riguardo viene in particolare in evidenza quanto stabilito da Corte cost. n. 18 del 1989 nell’esame della legge n. 117 del 1988:

«La garanzia costituzionale della sua indipendenza [della magistratura, ndr] è diretta … a tutelare, in primis, l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto. Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art. 2, n. 2 l. n. 117 cit.) ed il legislatore ha ampliato la sfera d’irresponsabilità, fino al punto in cui l’esercizio della giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca in violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa».

In altri termini per la Corte costituzionale la compatibilità della disciplina in materia di responsabilità personale del magistrato con i principi costituzionali a presidio dell’indipendenza e autonomia della magistratura nell’esercizio della propria funzione non verrebbe meno nei casi di «violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa».

Si ritiene quindi che il novellato art. 7, nel momento in cui prevede, per la responsabilità personale del magistrato, condotte determinate da «negligenza inescusabile», si ponga in linea con il richiamato principio, anche là dove, alla luce delle considerazioni sopra svolte in tema di stretta connessione tra le due ipotesi di «travisamento» (cfr. sub 4.6), la norma ricomprende nelle condotte non solo il travisamento dei «fatti di causa», ma anche il «travisamento delle prove».



[*] L’articolo riproduce la relazione tenuta il 21 maggio 2018 al corso organizzato presso il Csm dalla Scuola superiore della magistratura, avente per oggetto La responsabilità civile dei magistrati. Un primo bilancio sulla nuova legge. Casistica. Istruzioni per l’uso.

[1] Cfr. R. Romboli, Una riforma necessaria o una riforma punitiva?, in Foro it., 2015, V, pp. 346 ss., il quale, nel riferirsi alla previgente clausola di salvaguardia di cui alla legge n. 177 del 1988, parla di «previsione di una “immunità” per l’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove».

[2] Si veda anche il punto 5.2. del Considerato in diritto della sentenza Corte cost. n. 164 del 2017: «Va rammentato come un forte stimolo alla riforma operata dalla legge n. 18 del 2015 sia venuto proprio dai principi affermati dalla Corte di Lussemburgo, riguardo all’obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario (ora, dell’Unione europea) commesse da organi giurisdizionali nazionali (anche di ultimo grado): principi con i quali alcune delle limitazioni previste dalla legge n. 117 del 1988 sono state ritenute incompatibili (Corte di giustizia, Grande sezione, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa), tanto da dar luogo all’apertura di una procedura di infrazione, decisa in senso sfavorevole per il nostro Paese (Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana)».

[3] Secondo G. Campanelli, L’incidenza delle pronunce della Corte di giustizia sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati, in Foro it. 2015, V, pp. 299 ss., «le indicazioni della corte Ue non erano dirette ad incidere sulla responsabilità dei magistrati, sulla violazione del diritto nazionale e sulle decisioni di organi non di ultimo grado».

[4] Corte giust. Ue, 24 novembre 2011, causa C-379/10, Commissione Ue c. Repubblica italiana, in Foro it. 2012, IV, 13.

[5] Corte giust. Ue, sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo Spa contro Repubblica italiana, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2006, con nota di F. Biondi, Un “brutto” colpo per la responsabilità̀ civile dei magistrati (nota a Corte di giustizia, sentenza 13 giugno 2006, TDM contro Italia).

[6] Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15227 del 5 luglio 2007: «La responsabilità prevista dalla legge 13 aprile 1988 n. 117, ai fini della risarcibilità del danno cagionato dal magistrato nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, è incentrata sulla colpa grave del magistrato stesso, tipizzata secondo ipotesi specifiche ricomprese nell'art. 2 della citata legge, le quali sono riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile, che implica la necessità della configurazione di un “quid pluris” rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come “non spiegabile”, e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l'errore del magistrato» (massima tratta dal Ced della Corte di cassazione).

[7] Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7272 del 18 marzo 2008: «I presupposti della responsabilità dello Stato per grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, ai sensi dell'art 2, comma 3 lett. a), della legge n. 117 del 1988, devono ritenersi sussistenti allorquando nel corso dell'attività giurisdizionale si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero. (Nella specie la SC, rigettando il ricorso ha escluso la responsabilità del magistrato per grave violazione di legge derivante dalla emissione di un provvedimento di sequestro ritenuto erroneo dal giudice del gravame, in quanto detto sequestro era fondato su una interpretazione estensiva del concetto di “cose pertinenti al reato”, sia pure opinabile e discutibile, ma plausibile sul piano logico-giuridico)» (massima tratta dal Ced della Corte di cassazione).

[8] Cass. n. 17259/2002, secondo cui: «In tema di responsabilità civile dei magistrati, l'art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, nel fissare − a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art. 5, terzo comma − i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, esclude possa dare luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova, comprendendo in detta colpa, fra l'altro, la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, senza eccezioni per le norme processuali, e dunque includendo quelle che fanno carico al giudice di esaminare i temi in discussione influenti per la decisione, e di dare contezza delle ragioni della decisione stessa. Ne deriva che il momento della funzione giurisdizionale riguardante l'individuazione del contenuto di una determinata norma e l'accertamento del fatto, con i corollari dell'applicabilità o meno dell'una all'altro, non può essere fonte di responsabilità, nemmeno sotto il profilo dell'opinabilità della soluzione adottata, dell'inadeguatezza del sostegno argomentativo, dell'assenza di una esplicita e convincente confutazione di opposte tesi, dovendo passare l'affermazione della responsabilità, anche in tali casi, attraverso una non consentita revisione di un giudizio interpretativo o valutativo; fonte di responsabilità, invece, può essere l'omissione di giudizio, sempre che investa questioni decisive, anche in relazione alla fase in cui si trova il processo, e sia ascrivibile a negligenza inescusabile» (massima tratta dal Ced della Cassazione). Peraltro si veda, fin dal primo commento della legge n. 117 del 1988, G. P. Cirillo e F Sorrentino, La responsabilità del giudice, Legge 117/1988, Jovene, Napoli, 1988, p. 163, là dove si afferma, con riferimento ad esempio ai casi cd. di errore revocatorio previsti dal comma 3 dell’art. 2, «le menzionate fattispecie costituenti colpa grave rappresentano in buona sostanza ipotesi estreme rispetto al descritto caso di esenzione dalla responsabilità; sono cioè ipotesi che implicano la negazione, la totale, assoluta mancanza di ogni attività di valutazione del fatto da parte del giudice».

[9] Così F. Elefante, La responsabilità civile dei magistrati: recenti novità, in Nomos, 2016, n. 3.

[10] Negli stessi termini si veda anche Cass. n. 23979/2012: «In tema di responsabilità civile del magistrato, l'art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, nel fissare − a pena di inammissibilità, ai sensi del successivo art. 5, terzo comma − i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, esclude che possa dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova. La clausola di salvaguardia, riconducibile a quest'ultima esclusione, non tollera letture riduttive, perché è giustificata dal carattere fortemente valutativo dell'attività giudiziaria ed attua l'indipendenza del giudice e, con essa, del giudizio. (Nella specie, il ricorrente lamentava l'omessa valutazione di prove da parte di sezione penale della Corte di cassazione, che avrebbe ritenuto veri dati fatti, invece falsi)» (massima tratta dal Ced della Cassazione). Per una ricognizione più ampia della giurisprudenza di legittimità in materia si rinvia a C. M. Barone, La legge sulla responsabilità civile dei magistrati e la sua (pressoché inesistente) applicazione, in Foro it., 2015, V, pp. 291 ss.

[11] Corte giust. Ue, 30 settembre 2003, causa C-224/01; Köbler contro Repubblica d’Austria, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2005, fasc. 1, pp. 169 ss. di G. Alpa, La responsabilità dello Stato per «atti giudiziari». A proposito del caso Köbler c. Repubblica d’Austria.

[12] Per F. Elefante, op. cit., dalla previsione «che vede nella proposizione dei mezzi d’impugnazione una condizione di ammissibilità dell’azione risarcitoria, deriva che la manifesta violazione dei diritto o il travisamento di fatti o prove intervenuti, come di regola, in provvedimenti impugnabili o finiscono per divenire responsabilità condivisa delle corti chiamate a decidere le impugnazioni (senza emendare i vizi) o, assumendo la macroscopicità di tali vizi, finiscono per essere corretti in queste forme, lasciando alla responsabilità la (ragionevole) funzione di costituire un rimedio per i danni non riparabili con i mezzi di impugnazione».

[13] Sulla «insufficienza» della legge n. 117 del 1988 a garantire la tutela dei soggetti lesi dall’attività dei magistrati si rinvia da ultimo al commento alla Corte cost. n. 164 del 2017 di R. G. Rodio, La Corte ridisegna (in parte) i confini costituzionali della (ir)responsabilità dei magistrati, in Rivista AIC, n. 4/2017, con i riferimenti ai dati e alle analisi di G. Campanelli, Lo “scudo” giurisprudenziale quale principale fattore della “inapplicabilità” della legge sulla responsabilità civile dei magistrati o quale perdurante sistema di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici?, in Id. (a cura di), Indipendenza, imparzialità e responsabilità dei giudici speciali, Pisa University Press, Pisa, 2013; nonché a F. Dal Canto, La responsabilità del magistrato nell’ordinamento italiano. La progressiva trasformazione di un modello: dalla responsabilità del magistrato burocrate a quella del magistrato professionista, in Osservatorio AIC, 11/2007. Altrettanto netto (in senso negativo) è il giudizio sulla legge n. 117 di A. D’Aloia, La “nuova” responsabilità civile dei magistrati, in Confronti costituzionali, 11 marzo 2015; di F. Dal Canto, La legge n. 18/2015 sulla responsabilità civile dello Stato per fatto del magistrato: tra buone idee e soluzioni approssimative, in Questione Giustizia Trimestrale, n. 3/2015, p. 190, http://www.questionegiustizia.it/rivista/2015/3/la-legge-n_182015-sulla-responsabilita-civile-dell_269.php, e di N. Zanon, La responsabilità dei giudici, in Annuario AIC, 2004. Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale, Cedam, Padova, 2008, pp. 228 ss.

[14] P. G. Cirillo e F. Sorrentino, op. cit., pag. 44. Si veda anche per un commento alla Corte cost. n. 2 del 1968, P. A. Capotosti, Profili costituzionali della responsabilità dei magistrati, in Foro amm., 1, 1968, pp. 193 ss.

[15] P. G. Cirillo e F. Sorrentino, op. cit., pp. 45-46.

[16] A. Macchia, Riflessioni a margine della “clausola di salvaguardia” in tema di responsabilità̀ civile dei magistrati, alla luce delle novelle introdotte dalla legge n. 18 del 2015, e dei riflessi di tipo costituzionale e convenzionale, http://www.associazionemagistrati.it/allegati/1_3-riflessioni-clausola-di-salvaguardia.doc, secondo cui: «Non risultava imposta dal diritto della Unione una modifica – per di più non circoscritta al diritto dell’Unione ma estesa anche al diritto nazionale – della clausola di salvaguardia di cui all’art. 2, comma 2, della legge n. 117 del 1988».

[17] Così G. Grasso, La nuova responsabilità civile dei magistrati, in Foro it. 2015, V, pp. 281 ss.

[18] Secondo E. Cesqui, Il rapporto tra responsabilità̀ disciplinare e responsabilità̀ civile, non è solo questione procedurale. La legge sulla responsabilità̀ civile alla prova dei fatti, un orizzonte incerto, in Questione Giustizia Trimestrale, n. 3/2015, p. 200, http://www.questionegiustizia.it/rivista/2015/3/il-rapporto-tra-responsabilita-disciplinare-e-resp_270.php. «La formula scelta dal legislatore non è felice proprio perché non aiuta a fare chiarezza sugli elementi di differenziazione tra il travisamento del fatto e delle prove rispetto alla affermazione/negazione di un fatto incontrovertibilmente falso/vero».

[19] Si rinvia comunque sul punto al contributo di P. D’Ovidio, in AA.VV., Il magistrato e le sue quattro responsabilità, a cura di V. Tenore, Giuffrè, Milano, 2016, p.69.

[20] Così E. Scoditti, La nuova fattispecie di «colpa grave», in Foro it., 2015, V, pp. 323-326. Per A. Macchia, op. cit., «è oggi condivisa l’opinione per la quale anche a seguito della modifica apportata all'art. 606, lett. e), cod. proc. pen. dalla l. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 6, n. 25255 del 14 febbraio 2012-dep. 26 giugno 2012, Minervini, Rv. 253099)».

[21] Così P. D’Ovidio, op. cit., p. 70.

[22] Così E. Scoditti, op. cit., pp. 323-326.

[23] E. Cesqui, op. cit., p. 200.

[24] C. M. Barone, op. cit., che riporta l’opinione di G. Fiandaca.

[25] In tal senso anche F. Elefante, op. cit., contra G. Campanelli, L’incidenza delle pronunce della Corte di giustizia sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati, in Foro it. 2015, V, pp. 299 ss., secondo cui il legislatore del 2015 sarebbe andato «oltre» le indicazioni della corte Ue «nel momento in cui fa riferimento alla fattispecie del travisamento del fatto o delle prove, profili non trattati e non richiesti espressamente dalla Corte di Lussemburgo».

[26] Cfr. Cass., Sez. unite, n. 8053/2014 (annotata in Rivista Diritto Processuale, 2014, 6, p. 1600, da F. Porcelli, Sul vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo”; in Giur. it., 2014, pp. 8-9, p. 1908, da A. Turchi, Applicabili in materia tributaria le nuove disposizioni sul ricorso per Cassazione) e successive conformi.

[27] Così P. Fimiani e M. Fresa, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, Giappichelli, Torino, 2013, p. 59.

[28] In tal senso P. D’Ovidio, op. cit., p. 100.

[29] Infatti per R. G. Rodio, op. cit., «L’ampliamento delle fattispecie nelle quali lo Stato può rivalersi sul magistrato, introdotte dalla novella del 2015, esulano dalle ipotesi di responsabilità dello Stato per incidere, invece, proprio sulla sfera della responsabilità personale del singolo magistrato».

[30] Corte cost. n. 385 del 1996, in Giur. cost., 1996, n.6, pp. 3542 ss., con nota di S. Bartole, A proposito dell’inammissibilità di un conflitto tra organi giurisdizionali appartenenti ad ordini diversi, ivi, pp. 3578 ss.

[31] Corte cost. n. 26 del 1987, in Giur. cost., 1987, pp. 149 ss.

[32] Si ritiene che non vi sia margine per ammettere anche un’azione di rivalsa facoltativa per le condotte non previste per l’azione di rivalsa obbligatoria, condividendosi l’opinione in tal senso espressa da R. G. Rodio, op. cit.; nonché P. D’Ovidio, op. cit., p. 146. Si veda anche F. Elefante, op. cit., ove si ipotizza, sia pure per escludere, una responsabilità residuale avanti alla Corte di conti, in linea con G. D’Auria, “L’altra responsabilità” dei magistrati, in Foro it. 2015, V, p. 340.

[33] Il profilo di non manifesta infondatezza di legittimità costituzionale è stato ben evidenziato nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Verona, secondo il quale «la disposizione sottrarrebbe, infatti, al Presidente del Consiglio dei ministri il diritto di valutare la convenienza di detta azione, sulla base di un raffronto tra i costi del giudizio risarcitorio nei confronti dello Stato e quelli del giudizio nei confronti del magistrato, nonché delle probabilità di successo di quest’ultimo. In questo modo, essa violerebbe tanto l’art. 24, primo comma, Cost. – che, nel garantire il diritto di difesa, riconoscerebbe implicitamente anche il diritto di non agire in giudizio – quanto il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). Al riguardo, si dovrebbe considerare che – diversamente da quanto accadeva nel sistema originario della legge n. 117 del 1988 – i presupposti per l’esercizio dell’azione nei confronti dello Stato non sono i medesimi dell’azione di rivalsa, occorrendo, per questa, che i comportamenti individuati dalla norma siano connotati da negligenza inescusabile. Il Presidente del Consiglio dei ministri si troverebbe, di conseguenza, a dover esercitare l’azione di rivalsa “al buio”, ossia senza che si sia avuta una positiva verifica dell’esistenza di quel presupposto» (cfr. punto n. 1.5. della narrativa di Corte cost. n. 164/2017). Come si è detto in premessa, la questione sollevata dal Tribunale di Verona è stata ritenuta irrilevante nel giudizio a quo da Corte cost. n. 164/2017.

[34] L’osservazione critica in parola è pure sollevata da P. D’Ovidio, op. cit., p. 150.

[35] La difesa della legittimità costituzionale della legge affidata alla Presidenza del Consiglio si era d’altra parte espressa come segue: «Sarebbe, d’altra parte, arduo ipotizzare casi di manifesti errori di diritto, gravi violazioni di legge o travisamenti dei fatti o delle prove idonei a determinare una condanna dello Stato, ma non ad integrare la negligenza inescusabile del magistrato» (cfr. punto 1.7.5. della narrativa di Corte cost. n. 164 del 2017).

[36] Così efficacemente l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del Tribunale di Catania.

27/06/2018
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