Nel 2006 andai in Afghanistan per un reportage sulla giustizia di quel Paese, dove il diritto statale coesiste con il diritto islamico ma anche con regole tribali non scritte anteriori al Corano e dove dal 2001 l’Italia era in missione per riformare proprio il sistema giudiziario (con un investimento di svariate decine di milioni di euro).
Girai per i Tribunali e le Corti di Kabul, ma anche della provincia, e mi colpì vederli, sì, pitturati di fresco ma quasi tutti deserti, senza un’anima viva in circolazione. Un giorno mi spinsi fino alla provincia di Logar, a sud di Kabul, alla ricerca di un Consiglio degli anziani (Shura o Jirga), dove la giustizia, come in tutte le province dell’Afghanistan, è amministrata nel 90% dei casi secondo la Sharia. Lo trovai, ma per parlare con Sardagull, maestro di scuola nonché giudice anziano “capo” del Consiglio, fui costretta ad aspettare un bel po’ di tempo perché davanti alla Shura c’era una lunghissima fila di persone in attesa di una “sentenza” sul proprio caso giudiziario.
Quando finalmente mi fu possibile intervistare l’anziano giudice, gli chiesi subito come mai da una parte (la giustizia statale) ci fosse il deserto e dall’altra (la giustizia tribale) la folla. E lui mi rispose: «La giustizia statale è lenta, costosa e incerta; quella tradizionale è rapida, accessibile a tutti e dà risposte certe». Lo disse come se fosse un’ovvietà. E in effetti lo era.
Ovviamente, Sardagull non sapeva di aver appena messo il dito sulla piaga della giustizia italiana – tempi, accessibilità, certezza –, cioè del Paese che stava dando all’Afghanistan lezioni di diritto anche per costruire una giustizia efficiente. C’era da chiedersi quale ricetta potesse mai esportare l’Italia in Afghanistan visto che in casa propria l’efficienza era un’utopia…
Da allora sono trascorsi più di dieci anni ma soltanto negli ultimi sei la nostra politica giudiziaria ha imboccato in modo un po’ più convinto la strada dell’efficienza, seminando misure di scarso appeal mediatico e spesso impopolari, oltretutto destinate a produrre frutti solo nel medio-lungo periodo e quindi a beneficio dei Governi futuri. Il tutto a costo quasi zero, o comunque con investimenti finanziari molto limitati.
Una delle misure finalizzate all’obiettivo dell’efficienza (oltre che del risparmio) è stato il “famigerato” taglio dei cosiddetti Tribunalini, uffici minori sparsi nella penisola, di fatto improduttivi. Una riforma epocale ma impopolare, approvata nel 2012 tra proteste e polemiche, non a caso da un Governo tecnico perché quelli politici – pur considerandola fondamentale da almeno mezzo secolo per razionalizzare le (scarse) risorse esistenti e migliorare i tempi e la qualità della risposta giudiziaria su tutto il territorio nazionale – non avevano avuto la forza di realizzarla temendo di perdere consensi.
È stata una vera e propria battaglia. Un radicale “cambiamento”, tanto per usare una parola in voga di questi tempi.
Per mettere a punto la nuova geografia giudiziaria e renderla pienamente funzionante c’è voluto qualche altro anno; perciò sarebbe prematuro, e poco serio, pretendere già oggi di tirare le somme di quell’operazione di sottrazione e accorpamento di uffici. Al ministero della Giustizia, tuttavia, qualche conto lo hanno fatto. Per esempio, hanno calcolato che dal 2014 sono stati risparmiati – grazie alla nuova geografia giudiziaria – circa 70 milioni di euro all’anno. Inoltre, pur non essendo esclusivamente imputabile alla riforma dei Tribunalini, è un dato che dal 2014 si sia anche ridotta la durata delle cause civili: secondo i calcoli della Cepej (la Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) siamo passati dai 478 giorni del 2014 ai 375 di adesso, calcolando anche i procedimenti per decreto ingiuntivo; senza questi ultimi, il ministero della Giustizia ha calcolato che siamo passati dai 1044 giorni del 2014 ai 914 di adesso.
Non sono numeri che si possono ignorare.
Ma allora, perché tornare indietro? Perché non difendere quella riforma, faticosamente realizzata, e semmai rafforzare gli uffici esistenti?
Sono interrogativi che nascono dalla lettura del contratto sul programma di Governo giallo/verde, quello del “cambiamento”. Al paragrafo 11, intitolato «Giustizia rapida ed efficiente», si legge, infatti: «Occorre una rivisitazione della geografia giudiziaria – modificando la riforma del 2012 che ha accentrato sedi e funzioni – con l’obiettivo di riportare tribunali, procure e uffici del giudice di pace vicini ai cittadini e alle imprese». Un cambiamento del cambiamento, insomma, proposto impugnando la bandiera della cosiddetta “giustizia di prossimità”, ovvero vicina (fisicamente) ai cittadini ma fonte di sprechi e inefficienze. Un ritorno al passato che non si giustifica alla luce dei, sia pur piccoli, risultati positivi registrati finora in termini di risparmi e di durata dei processi.
Un “cambiamento” declinato al passato, anche letteralmente, sul presupposto (palesemente sbagliato) che la giustizia funzionasse meglio prima (peraltro, non è l’unico punto del programma sulla giustizia in cui il cambiamento è un ritorno al passato: basti pensare al capitolo carceri).
Spetterà al neo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede chiarire bene i termini di questo “cambiamento”, nella speranza che ne ridimensioni la portata, come del resto hanno già fatto alcuni suoi colleghi (vedi Tria sull’economia). Tanto più che, al netto di altre considerazioni, il ripristino di Tribunalini, Procurine e Uffici del giudice di pace avrebbe un impatto economico molto forte e al momento non si capisce dove potranno essere reperite le necessarie risorse.
Lega e 5Stelle sono sempre stati apertamente contrari al taglio dei Tribunalini, mentre altre forze politiche lo hanno ingoiato facendo più o meno buon viso a cattivo gioco (qualcuna ha anche cercato di recuperare nottetempo questo o quell’ufficio). Ecco perché sarebbe politicamente difficile fermare un eventuale ritorno al passato, nonostante i numeri suggeriscano di andare avanti. Fermamente contrari sono sempre stati gli avvocati, che con ogni mezzo hanno cercato di bloccare la riforma (anche con il ricorso alla Corte costituzionale), senza riuscirci, e che verosimilmente, quindi, si schiererebbero con il “governo del cambiamento”.
Favorevoli, invece, i magistrati. All’epoca (ma si può dire: da sempre) l’Anm ha con coraggio e coerenza difeso i tagli dei Tribunalini, sebbene avessero ripercussioni sulla vita professionale di molti magistrati, soprattutto dirigenti degli uffici soppressi. Perciò oggi stupisce il silenzio dell’Associazione nazionale magistrati, apparentemente più preoccupata di accreditarsi con il nuovo Governo che di tornare a battagliare in difesa di una riforma essenziale per migliorare la qualità della risposta giudiziaria. Stupisce che anche in questo caso – come in quello del carcere – l’Anm sia diventata improvvisamente afasica e abbia rinunciato a quel ruolo di interlocutrice, se non di protagonista, della politica giudiziaria attenta più ai cittadini che agli interessi di categoria. Ma stupisce ancora di più constatare che, quando esce dall’afasia, l’Anm lo fa per rimangiarsi tutto quello che per anni ha invece sostenuto e difeso (dal carcere alle intercettazioni). Eppure, in teoria, il momento storico politico dovrebbe farla sentire “al sicuro”, non più nel mirino di questa o quella forza politica di maggioranza, anche se il condizionale è d’obbligo se è vero che alcuni punti del programma di Governo tradiscono una sostanziale diffidenza, se non sfiducia, verso la magistratura, riducendone l’ambito di discrezionalità (si veda l’articolo di Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera dell’8 giugno «Carcere e regole, i 5Stelle non si fidano più dei giudici»). In fin dei conti stupisce vedere una magistratura sempre più ripiegata su stessa e incapace di volare alto.
Per chi vede le cose da fuori e soprattutto per chi ha a che fare con la giustizia, la preoccupazione è che, tra annunci roboanti e afasie strategiche, non solo non cambi nulla ma vinca come sempre l’immobilismo. Sarebbe grave e pericoloso, perché l’immobilismo aumenta la sfiducia dei cittadini nella giustizia, indebolisce l’Istituzione e riduce il suo potere di controllo, anche rispetto alla politica.
Per questa via, rischiamo di avere tanti Tribunali e Tribunalini, ma tristemente vuoti.
Donatella Stasio