Magistratura democratica

Cambiamenti e nuove possibilità per la professione forense

di Maria Pia Lessi

L’articolo trasporta il lettore in un viaggio appassionato attraverso 35 anni di evoluzione culturale, politica, sociale del ruolo dell’avvocato. Non più solo si richiede oggi all’avvocato di essere un eccellente tecnico del diritto, collaboratore primo del giudice nell’attuazione della giustizia. L’avvocato deve essere sensibile interprete delle trasformazioni, attore nella risoluzione delle crisi, supportato da buone prassi ormai sperimentate (dalla mediazione familiare al diritto collaborativo) e sospinto dalle modifiche normative e dalle numerose sfide lanciate alla professione forense, realizzando non una «“esternalizzazione” o “ privatizzazione” della giustizia, ma l’apertura a strumenti che si affiancano alla giurisdizione per consentire maggiore e migliore soddisfazione alla stessa sete di giustizia, che continuiamo a considerare degna di ascolto e risposta».

Premessa

Iscritta all’albo degli avvocati dal 1980, dopo la laurea in giurisprudenza (nel 1978 a Pisa), ho attraversato in modo paradigmatico le trasformazioni del ruolo professionale per le normative che sono state emanate, ma soprattutto per i cambiamenti sociali e culturali di questi 35 anni.

1. Il ruolo tradizionale

Il ruolo tradizionale dell’avvocato fino agli anni ‘80 presentava un professionista (uso il maschile non come “neutro” ma perché l’accesso delle donne alla professione è avvenuto in modo massiccio e progressivo successivamente)[1] con una preparazione esclusivamente giuridica (26 esami su aree diverse del diritto), un attore individualista sulla scena della giustizia che si intrometteva tra le parti interessate, in genere sprovviste di informazioni giuridiche, e i giudici al fine di chiarire la situazione e far scaturire dal contrasto dei fatti e delle idee la verità che poi doveva essere consacrata nelle sentenze sulla base delle norme generali e astratte della giustizia cieca.

Doti fondamentali: “una cultura generale e specifica, attitudine alla logica e all’oratoria, probità e correttezza”, eccellente solista ma poco propenso a confondere la propria voce all’interno dell’orchestra[2].

Ci siamo formati su testi di diritto costituzionale che individuavano nella difesa tecnica un diritto della persona costituzionalmente garantito (art. 2, 24 Cost) e che proponevano il sistema della difesa giurisdizionale dei diritti come unico mezzo di attuazione dei valori costituzionali di uguaglianza sostanziale e libertà, di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, diritto alla salute, diritto al lavoro, alla retribuzione sufficiente a una vita libera e dignitosa.

Il processo civile ci è stato prospettato come il luogo dove dirimere le controversie al di fuori dei rapporti di forza (economica e sociale), dove un terzo soggetto, indipendente e competente, applicava normative conformi ai valori costituzionali e il giusto processo consentiva a chi avesse ragione di ottenere quello di cui aveva diritto ai sensi degli art. 24 e seguenti della Costituzione.

L’avvocato seguiva un unico copione, quello “avversariale”: emblematico, nel film “Schegge di paura” del 1996, il motto dell’affascinante avvocato Martin Vain: “In Tribunale non è importante aver ragione o torto: l’importante è vincere”.

Con la sentenza infatti il giudice distribuisce ragioni e torti, celebra il vincitore e sanziona il soccombente.

La persona prospetta il problema all’avvocato e questi si occupa di difenderne in giudizio le sorti, con pieno affidamento alle sue conoscenze tecniche, per cui è l’avvocato che porta dinanzi al giudice e difende “a spada tratta” le convinzioni e i diritti del cliente “contro” l’altra parte (ricordo che i timbri delle copie per controparte, ormai desuete con il processo telematico, portavano scritto copia per l’avversario”).

Scarso è il potere decisionale dei clienti, per la mancanza delle informazioni giuridiche, massima la delega al professionista che a sua volta delega a un terzo soggetto indipendente la decisione delle questioni sulla base di norme generali e astratte.

Gustavo Zagrebelsky in quegli anni scriveva agli studenti delle scuole superiori: «Tutti i cittadini hanno il diritto di adire un giudice per far valere i propri diritti (art. 24 Cost.); questo diritto alla giustizia è una conseguenza dell’uguaglianza di fronte alla legge. La giustizia non dovrebbe essere arma a disposizione dei ricchi contro i poveri, come per tanto tempo è stata, ma un servizio offerto dallo Stato, in condizioni di parità, a tutti. Da questo punto di vista si comprende l’importanza che assumono anche le regole del processo. Queste devono essere le più semplici possibili. Tutte le volte in cui esistono complicazioni, infatti, coloro che sono meno avveduti culturalmente e non hanno la possibilità di farsi assistere da un buon avvocato sono svantaggiati di fronte a coloro che invece hanno questa possibilità»[3].

Il diritto positivo e quindi le norme in quel momento in vigore erano l’unico parametro di riferimento per la soluzione della questione e grande era l’entusiasmo e la convinzione di cooperare all’attuazione della giustizia.

2. Crisi del modello unico avversariale. Tempi, costi, parzialità di norme e risposte

L’entusiasmo e la convinzione dei valori costituzionali, che tuttora restano intatte, peraltro subivano negli anni l’impatto con la quotidianità del contenzioso giudiziario, in cui l’affermazione della teoria generale del processo di «rendere giustizia ai cittadini in tempi accettabili» si rivelava difficoltosa per la lunghezza e i costi sempre maggiori[4] dei processi, nonostante la generosità e l’impegno di tanti soggetti che vi operano, il continuo mutamento delle norme anche di diritto sostanziale, con un progressivo allontanamento dai valori costituzionali della uguaglianza e libertà che la Repubblica si impegna a promuovere rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto li limitano (art. 3 Costituzione).

Si è poi assistito dagli anni ‘80 alla progressiva erosione dei diritti, per limitarci alla materia, particolarmente sensibile del diritto del lavoro, con le norme introduttive dei contratti di formazione e lavoro del 1984, il protocollo d’intesa del 14.02.84 sul contenuto del costo del lavoro, la L. 368 del 06.09.2001 sui contratti a termine, la L. 30/2003 e il successivo DLgs 276/2003 sui contratti di lavoro “atipici”, la L. 183/2010 cd. “collegato lavoro” con limiti all’impugnazione dei licenziamenti, l’art. 8 del Dl 138/11 con la possibilità per la contrattazione decentrata di derogare alle disposizioni di legge, la L. 14/12 che crea soggetti (cd. Esodati) privi di lavoro e pensione, la L. 92/12 cd. “Legge Fornero” che limita le tutele in uscita, la L. 183/14 (cd. Job acts) e i decreti attuativi del dicembre 2014 con i contratti a tutele crescenti[5].

Ma il vulnus più feroce a un’impostazione giuridica democratica è stato inferto dalla L. costituzionale n. 1/2012 che ha inserito il pareggio di bilancio come vincolo, consegnando i diritti sociali a una gestione contabile.

Accanto a questa insoddisfazione della struttura del sistema giudiziario, cresceva però la consapevolezza della inadeguatezza del modello avversariale a risolvere con soddisfazione delle parti le loro controversie specie nei settori, come quello della famiglia, ma anche delle società commerciali del diritto fallimentare in cui la demolizione dell’avversario non soddisfa l’interesse della parte, che all’altro soggetto è legato da rapporti destinati a protrarsi nel tempo.

In tema più strettamente processuale le modifiche al codice di procedura civile dal 1940 ad oggi sono state oltre 30, concentrate negli anni successivi al 1995.

Purtroppo si è trattato di una normativa “alluvionale”, senza una visione sistemica in cui le regole processuali venivano inserite con leggi destinate ad altri scopi, provvedimenti d’urgenza volti a arginare la crisi finanziaria, con mutamenti delle regole del gioco durante lo svolgimento delle cause e un pericoloso aumento di sensazioni di difficoltà interpretativa per gli operatori, giudici e avvocati e di confusione e inaffidabilità per le parti[6].

In particolare, in materia di famiglia, una forte “scossa”, questa volta in senso evolutivo, al ruolo tradizionale del “divorzista” è giunto dalla riforma della materia di famiglia con la L. 54/2006 in punto di “bigenitorialità” che richiede alla coppia in crisi di mantenere e rafforzare la responsabilità genitoriale nei confronti dei figli e dalla successiva L. 219/2013 che ha sostituito la responsabilità alla potestà genitoriale.

Se infatti prima del 1975 le separazioni si focalizzavano sul necessario addebito e la “colpa” era il primo interesse in giudizio, progressivamente il mutamento culturale e sociale che ha reso più frequenti le separazioni, le normative già richiamate sulla “bigenitorialità” (L. 54/2006) e la responsabilità genitoriale (Dl 54/2013 e L. 219/2013) impongono ai legali di favorire il mantenimento di relazioni tra i genitori che tali continuano ad essere indipendentemente e nonostante dalla loro crisi di coppia.

Sono richieste quindi oggi all’avvocato di famiglia competenze ulteriori e diverse, di capacità di ascolto dei bisogni del proprio cliente e della controparte di comprendere le ragioni del conflitto, di sostenerli, di convincere la persona che vive la crisi della coppia a comportarsi ragionevolmente, di fornire le informazioni sulla base della competenza tecnica e della esperienza in un procedimento “sicuro” per i minori coinvolti.

Ulteriore necessità di interpretare in modo diverso il ruolo dell’avvocato è imposta dalla normativa relativa all’ascolto del minore, ridisegnata dal Dlgs 154/2013 con l’art. 366bis cc che impone di sostenere illa cliente in una fase molto delicata e dolorosa, di vedere i propri figli in tribunale, senza venir meno alle regole di rispetto dei minori (peraltro accuratamente previste in vari protocolli) e di doveri di lealtà.

L’avvocato “tradizionale”, individualista e battagliero, competente solo tecnicamente come giurista, non ha strumenti sufficienti per sostenere queste sfide che coinvolgono aspetti relazionali ben diversi dalla conoscenza delle norme.

3. … il pensiero giuridico democratico …

Agli inizi degli anni ‘90 un testo per me fondamentale fu “La grammatica della giustizia” di Elisabeth Wolgast[7] con cui la studiosa americana sottopone a severa critica i principi dell’ordinamento nordamericano fondati sul contratto sociale e i diritti individuali.

Afferma Wolgast che il modello di atomismo sociale pone al centro un individuo umano e razionale autonomo, privo di legami, in realtà inesistente perché si escludono parti di realtà; i rapporti in cui sono presenti disparità di posizioni e legami richiedono infatti categorie diverse da quelle contrattuali e investono campi diversi e nuovi come “responsabilità” e “cura”.

Elisabeth Wolgast parla di “diritti imperfetti” nei casi in cui la disparità strutturale tra i soggetti rende inefficace lo strumento giuridicogiudiziario.

Si pensi ai bambini (non a caso il legislatore nel 2014 ha sostituito la potestà genitoriale con la responsabilità), agli ammalati nei confronti del personale sanitario, soggetti inseriti in relazioni complesse dove sono in gioco la fiducia e l’aiuto, non solo ragione o torto o spartizione di potere.

Il paradigma della “cura” del resto era stato richiamato da Carol Gilligan nel testo “In a different voice” che individua e nomina accanto al linguaggio dei diritti (generali, astratti, da gestire con indipendenza, la nota “giustizia cieca”) quello delle relazioni concrete, situate in contesti reali .

Sulla stessa linea Stefano Rodotà[8] in “La vita e le regole” afferma che: “La nozione di cura, proiettata ormai ben al di là dell’area della malattia, si trasforma dunque in uno strumento per definire la posizione sociale di un soggetto, le sue relazioni con gli altri e con le istituzioni. Non riguarda più soltanto il corpo, ma la persona nella sua integralità. Non è riferibile soltanto a singole categorie di soggetti o a situazioni particolari, ma a tutti e a ciascuno. Si libera dalle insidie del paternalismo, e individua piuttosto responsabilità sociali. Non dipende da un esercizio di discrezionalità.

Il paradigma consente quindi a parere di molte e molti un arricchimento e una maggiore efficacia dell’azione giuridica nell’esercizio della giustizia, tant’è che in campo penalistico ha ispirato il cd. restorative justice che si propone di riconciliare anziché di punire e si domanda quale sia la modalità più idonea per riparare il male cagionato, al di là del risarcimento del danno, in azioni positive che tendono a una graduale responsabilizzazione del reo[9].

In questa linea fu per me fondamentale in quegli anni la lettura del testo “Non credere di avere diritti”, della Libreria delle Donne di Milano, della frase di Simon Weil: «Non offuscare o deformare la giustizia, ma non credere che ci si possa legittimamente aspettare che le cose avvengano in maniera conforme alla giustizia; tanto più che noi stessi siamo ben lungi dall’essere giusti. Vi è un cattivo modo di credere di avere dei diritti, e un cattivo modo di credere di non averne»[10].

Il diritto, si sosteneva, non è sufficiente, per agire la libertà. Occorrono il confronto con l’altro, il suo riconoscimento; perché ogni individuo, donna o uomo, deve essere consapevole dei limiti del diritto. Una rifondazione del diritto e della giustizia nel senso della realtà parte dal considerare che ciascuna, ciascuno di noi è in necessaria relazione con altri: relazioni affettive, relazioni di cura, relazioni politiche, relazioni dispari. Le relazioni portano dipendenza, portano conflitti, ma sono necessarie all’essere umano.

La giustizia si realizza nell’ascolto, nella ridefinizione del problema, nel percorso con la persona interessata protagonista e responsabile del suo bisogno/desiderio/diritto.

La pratica dei Centri antiviolenza e le esperienze delle professioniste che sostengono le donne abusate ci insegna che il primo obiettivo è non appiattire nessuna nel ruolo della vittima che riduce la persona alla violenza subita, chiude il futuro nella “verità processuale” del passato, consegna a carte e a terzi estranei la profondità di ciò che è accaduto.

La incommensurabilmente necessaria dimensione giudiziaria si affianca quindi a percorsi relazionali e di consapevolezza che consentono di elaborare la sofferenza e attraversare esperienze dolorosissime.

Con altri toni Gustavo Zagrebelsky nel “Il Diritto mite”[11] riprende il frammento di Archiloco per richiamare l’opportunità di operare come la volpe che «sa molte cose» piuttosto che il riccio «che ne sa una sola, grande» e spiegava che «l’astuzia che occorre è gravata di tanti compiti, di tante responsabilità ...», per cui «ragionevole è il diritto quando si presta a essere sottomesso a quell’esigenza di comparazione e apertura», con un’apertura potente all’integrazione delle competenze.

4. … buone pratiche …

4a) La difesa civica

Altra esperienza fondamentale per una conoscenza e pratica della giustizia non contenziosa è stata per molti legali la Difesa civica.

Molti legali hanno conosciuto la cultura della mediazione rivestendo il ruolo di difensore civico comunale fino al 23.12.2009 quando il difensore civico comunale è stato soppresso dalla L. 23.12.2009 n. 191.

Scrivevo nella relazione della Difesa civica livornese del 2000: «Si sta cercando di superare l’idea di “diritti” per cui si protesta, si accusa, si denuncia l’assenza di autorità competenti e si invocano soluzioni drastiche, per provare a favorire lo scambio di saperi e esperienze tra le/gli abitanti e l’amministrazione, attingendo all’innovativa risorsa dei rapporti vissuti nella concretezza, con desiderio e consapevolezza. L’impegno costante riguarda la tessitura deirapporti, la presa di parola su quanto ci accade intorno a partire dallo spazio più vicino per creare momenti e prospettive di libertà e giustizia.Perché scommettere su un livello più alto di rapporti è proteggere la città dalla bruttezza e coltivare la gioia comune.». «Se si considera che l’immagine classica della giustizia è quella di una dea bendata, dove l’immagine della cecità suggerisce l’idea di neutralità e di impersonalità, ben si comprende quanto ambiziosa e appassionante sia la scommessa di provare a praticare il giudizio e la giustiziaad occhi bene aperti, senza benda, una giustizia che prova a interpretare la legge ascoltando le condizioni di esistenza materiale e simbolica dei soggetti, donne e uomini, in carne e ossa» temi questi attualissimi alla luce della L. 162/2014 in materia di negoziazione assistita.

«L’attività di difesa civica rappresenta uno dei molteplici campi di applicazione della mediazioneche spaziano dalle negoziazioni politico sindacali all’ambito diplomatico, ai conflitti inter etnici e sociali, ai procedimenti di separazione e divorzio. Si deve, però, anche avere ben presente che nelle politiche di mediazione possono essere compresenti due componenti alternative, che potremo definire contenimento e innovazione. Nel primo caso la mediazione assume una funzione di ammortizzatore sociale e tende a prevalere un atteggiamento di delega alla figura del mediatore da parte di chi gli si rivolge. Nel secondo caso la strategia della mediazione tende a rimuovere ostacoli, promuovere diritti, attuare una politica di empowerment, stabilire rapporti di reciprocità. È questa seconda alternativa, a parere di questa Difesa civica, che deve essere privilegiata, perché rappresenta una fondamentale strategia per promuovere la partecipazione, costituendo un passo fondamentale per consentire di esprimere, affermare e far valere bisogni e diritti su un piano di parità e di interscambio.».

L’insoddisfazione dei clienti e dei professionisti più attenti sul contenzioso come unico modello di intervento di fronte alla richiesta di giustizia e l’ascolto e lo studio del pensiero più attento e innovativo porta all’apertura a nuove e diverse procedure: le cd. Adr alternative dispute resolution” risoluzioni alternative delle controversie, che si affiancano al contenzioso come strumento monopolistico e onnivoro per la risoluzione dei conflitti (sul punto, in maniera più ampia, in questo numero di questa Rivista, Le alternative alla giustizia tradizionale: lo stato dell’arte e le prospettive, di Maria Angela Zumpano).

Cresce la consapevolezza che il sistema giurisdizionale è una risorsa preziosa e limitata che per essere efficace deve essere reso sostenibile, che si può e si deve giungere alla cd. “Giurisdizione minima” per i casi relativi a questioni fondamentali (cd. diritti indisponibili), di capacità, di interessi generali e che la riduzione della litigiosità demandata al sistema giurisdizionale appare condizione necessaria per rendere lo stesso sostenibile; nello stesso tempo l’autonomia privata consente di comporre le controversie attraverso strumenti “alternativi” più adeguati alle singole tipologie di liti. Anziché un’unica opzione di procedimento giurisdizionale, la linea continua della soluzione delle controversie parte dal confronto tra le parti, per articolarsi nei diversi strumenti della mediazione, dell’arbitrato, della pratica collaborativa, (oggi) della negoziazione tra avvocati per lasciare il contenzioso ai casi in cui é veramente necessario, a cui brevemente accenno, rimandando agli altri saggi di questo numero.

4b) La mediazione familiare

È noto che la mediazione familiare, “fase” richiamata dall’art. 155-sexies II co. cc come riferimento a “esperto” nell’ambito della lite giudiziaria in corso, è un intervento professionale che facilita o restaura la comunicazione tra le parti per ottenere condivisione di linguaggi genitoriali e accordi consapevoli, che possano “mantenersi nel tempo” visto che riguardano i figli, di cui i genitori continuano a doversi occupare.

Il limite della mediazione familiare nella cultura italiana è risultato la percezione di distanza del soggetto neutro rispetto al bisogno di prossimità, sostegno e assistenza di chi attraversa la crisi familiare, che nel momento di particolare fragilità della perdita o riorganizzazione della famiglia, si sente scoraggiato dalla necessaria imparzialità del mediatore.

Questo limite viene superato dalla presenza, indiretta, di legali che sostengono in modo non litigioso le parti in mediazione.

4c) L’arbitrato

Di natura diversa è l’arbitrato, previsto e regolato dagli art. 806 e segg. del codice di procedura civile oggetto di riforma col DLgs 40/2006.

In ambito societario per assistere i clienti (e ancora di più nella contrattualistica internazionale più rilevante) sono da tempo inserite clausole compromissorie volte a demandare ad arbitri indipendenti e imparziali la soluzione delle controversie con procedure snelle e tempi rapidi e i soggetti finanziariamente più forti da tempo si avvalgono della giustizia “privata” per conseguire risultati certi in tempi compatibili con le esigenze della produzione.

Questo strumento di definizione delle controversie è considerato più efficiente perché si avvale di soggetti competenti e indipendenti, è più veloce delle cause ordinarie, consente di procedere con regole più snelle e flessibili del giudizio ordinario nel rispetto del contraddittorio con costi prevedibili. L’art.1 della L. 162/2014 di cui infra apre e incentiva l’arbitrato nelle cause già in corso, e in molti luoghi si sta promuovendo la cultura arbitrale (cfr. www.arbitrando.eu) e si costituiscono camere arbitrali per affrontare con questo strumento anche questioni di minore rilevanza economica.

4d) Il diritto collaborativo

 

Tra le “buone pratiche” merita un’attenzione particolare il “diritto collaborativo”, un metodo di trattazione non contenziosa dei conflitti nato negli Usa nell’anno 1999, diffuso successivamente in Canada, Australia, in Europa, particolarmente in Francia e Belgio, dal 2010 in Italia 2 associazioni, Aiadc (Associazione italiana professionisti collaborativi) che fa riferimento a Iacp (international academy of collaborative professionals) e Iici (Istituto italiano di diritto collaborativo).

La pratica collaborativa è un metodo efficace di risoluzione dei conflitti con un alto tasso di soddisfazione che si protrae nel tempo, in cui le parti e i loro avvocati, oltre i professionisti necessari per le esigenze del caso concreto, collaborano a trovare una soluzione concordata ed appare particolarmente interessante in questa fase, caratterizzata da un’ampia diffusione delle informazioni, tramite internet, dall’espansione dell’autonomia privata, dalla complessità degli aspetti che coinvolgono chi attraversa la crisi familiare o comunque una controversia.

Gli elementi chiave della pratica collaborativa sono: anzitutto il team dei professionisti, in ogni caso un avvocato per parte, a cui possono aggiungersi l’esperto in relazioni e l’esperto finanziario; l’obbligo di trasparenza delle informazioni; il protagonismo delle parti, che interagiscono tra loro e sono presenti alle riunioni; la negoziazione sugli interessi reali oltre e più che sui diritti.

La pratica collaborativa richiede una preparazione specifica, e la continua supervisione in gruppi di lavoro ed è strutturata in protocolli e moduli permeati dalla cultura anglosassone e dei sistemi di common law in cui è cresciuta.

Assolutamente da escludere nei casi di abuso, violenza, malattie psichiatriche, è inadatta nelle situazioni caratterizzate da scarsa fiducia, scarsa comunicazione e interessi molto divergenti.

Rappresenta invece un’ottima via in casi di coppie, comunque soggetti in conflitto, che attraversano la crisi ma sono disposte, nell’interesse dei figli o di altri legami o beni comuni, ad avvalersi di una difesa conciliativa, in cui mettere in gioco, col sostegno di professionisti motivati e competenti, risorse di fiducia, capacità, rispetto.

Particolarmente interessante appare per l’avvocato italiano, deluso dall’aspettativa di giustizia nel campo giurisdizionale, per i tempi, i costi, le incertezze normative e interpretative, la prospettazione del diritto e del contenzioso che viene proposta dal diritto collaborativo.

Nei corsi di diritto collaborativo si insegna infatti a non demonizzare il procedimento del contenzioso, ne’ a spaventare i clienti con le informazioni, peraltro dovute sui tempi, costi e disagi del giudizio.

Piuttosto si rappresenta come ipotesi, in caso di mancato accordo, il ricorso a un giudice, competente e attento che si prenderà cura della questione con una giusta decisione.

Si segnala peraltro come la decisione venga presa sulla base del diritto vigente, e. necessariamente, non possa rispondere ad ogni aspettativa o bisogno, proprio perché il giudice, competente in materia di diritto, giudicherà sulla base della “verità processuale” sempre inevitabilmente meno ricca delle innumerevoli sfumature della verità sostanziale.

L’avvocato svolge in questo caso il ruolo fondamentale di fornire una consulenza giuridica qualificata, assumendo però il compito ulteriore di cooperare e lavorare con la controparte per il raggiungimento dell’accordo.

5. Le normative successive al 2010

Se il percorso di apertura culturale e professionale delineato tra gli anni ‘80 e il 2010 poteva essere una scelta di competenza e sensibilità del legale, le normative degli ultimi cinque anni hanno delineato la nuova figura e le nuove preparazioni tecniche anche in termini di regole del gioco.

Mi riferisco alla L. 69/2009 che ha introdotto la mediazione obbligatoria con le successive modifiche, alla riforma della professione forense introdotta dalla L. 247/2012, alla L. 162/2014 che ha introdotto la negoziazione assistita e, ultimo ma non per importanza, l’avvio del processo telematico, previsto dalla L. 114/2014.

La riforma della professione forense introdotta dalla L. 247/2012 «cristallizza la figura dell’avvocato implicando competenza, aggiornamento, internazionalità», «affida nuovi ruoli coinvolgendo questa professione in ambiti sempre più estesi ... che postulano una preparazione tecnica da acquisirsi mediante l’aggiornamento costante, la specializzazione, l’approfondimento culturale, l’esperienza, il confronto e la cooperazione con le altre professioni»[12].

5a) La mediazione civile e commerciale

La L. 69/2009 e il DLgs 28/2010 hanno richiesto all’avvocatura di acquisire 2 diversi nuovi ruoli: il legale media-conciliatore e il legale che sostiene la parte nella procedura di mediazione civile e commerciale.

Le competenze del legale media-conciliatore sono delineate dalla norma e, presentano sia l’acquisizione del caso di mediatore, sia il mantenimento della qualifica attraverso il tirocinio e la formazione ulteriore.

Le materie del corso riguardano:

  • i principali metodi Adr
  • la costituzione del consenso di fronte al conflitto
  • tecniche di comunicazione efficace
  • la normativa italiana.

È l’esperienza che si matura a rafforzare la capacità di accompagnare le parti e i loro legali a costruire un accordo valido ed efficace a raggiungere i loro intenti.

Dall’altra parte al legale che accompagna la parte in mediazione è richiesto un radicale mutamento di atteggiamento: un passo indietro al ruolo di litigator e passare dall’obiettivo di far valere le ragioni del cliente a quello di far raggiungere al cliente un accordo per lui vantaggioso in termini dei suoi interessi sostanziali (finanziari, fiscali, relazionali) e procedimentali (compresi tempi e costi).

In questa prospettiva si rileva essenziale la prima seduta della mediazione in cui il mediatore prospetta alle parti gli elementi essenziali del procedimento e chiede alle parti sostanziali se intendono aderire conferendo al loro legale un ulteriore e diverso ruolo: salvaguardare al meglio gli interessi della parte nella loro globalità.

L’esperienza ci insegna che quando al legale è conferito un chiaro ed esplicito mandato in questo senso, si supera “l’ansia da prestazione” di derogare ai diritti della parte e si allarga l’area di intervento mettendo in campo quella che Guido Alpa[13] ha definito «funzione creativa dell’avvocato; che costruisce la base su cui si forma il diritto vivente».

Per comprendere la volontà deflattiva affidata alla mediazione si richiama la recente pronuncia 1.11.2014 del Tribunale di Roma sez. VI che così si è espressa: «Segnala sin d’ora che la legge sulla mediazione obbligatoria prevede l’erogazione di sanzioni economiche a favore dello Stato ed a carico dell’una e dell’altra parte per eventuali comportamenti non leali e non probi tenuti in sede di mediazione. Segnala che l’art. 96 comma 3 cpc prevede la condanna al pagamento di una somma a carico di quella parte che dovesse risultare aver agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave. Richiede alle parti di segnalare immediatamente l’accordo conciliativo raggiunto in sede di mediazione ovvero in altro modo stragiudiziale prima della prossima udienza onde poter così liberare prezioso spazio sul proprio ruolo istruttorio e decisorio per quelle cause che necessitano inevitabilmente di decisione di tipo giurisdizionale/contenziosa da parte del giudice. Si richiede tale collaborazione alle parti in applicazione dell’art. 111 Cost. che impone una “durata ragionevole del processo”, durata ragionevole che va letta sia con riferimento al singolo processo trattato sia con riferimento alla più complessiva gestione dell’attività giurisdizionale da parte del giudice».

5b) La riforma della professione forense

La L. 247/2012 «cristallizza la figura dell’avvocato implicando competenza, aggiornamento, internazionalità», «affida nuovi ruoli» coinvolgendo questa professione in ambiti sempre più estesi... che postulano una preparazione tecnica da acquisirsi mediante l’aggiornamento costante la specializzazione, l’approfondimento culturale, l’esperienza, il confronto e la cooperazione con le altre professioni[14],mentre il nuovo codice deontologico, 31.01.2014 pubblicato su Gu il 16.10.2014 oltre a tipizzare gli illeciti disciplinari prevede per l’avvocato obblighi di diligenza (qualità della prestazione) e competenza, aggiornamento e formazione continua.

5c) Il processo telematico

L’introduzione del processo telematico (L. 114/2014) presenta la necessità per il legale di lavorare sul web, utilizzare i software operativi, trasformare gli atti in files Pdf (consapevole della differenza tra formati “immagine” e formati “testo”) apporre firme digitali con l’inserimento della smart card nella porta Usb dalla propria postazione per poi trasmettere al sistema nelle strutture e linguaggi compatibili, depositare tramite il Poa prescelto, consultare il Pst per verificare il provvedimento, il legale del 2015 può rendere nota la sua attività tramite siti internet previa comunicazione dell’Ordine, colloquia con controparti e clienti, e talora anche con i giudici con mail, acquisisce, in sostanza un linguaggio diverso e impara a interagire con strumenti diversi di cui deve munirsi e su cui ogni studio deve investire, in termini di risorse e competenze.

5d) La legge sulla negoziazione assistita

Ma il più radicale ampliamento del ruolo dell’avvocato è sancito dalla L. 162/2014 che prevede il passaggio in arbitrato delle cause pendenti (art. 1) e la negoziazione assistita (art. 2-11) con particolare riferimento ai procedimenti di separazione e divorzio.

L’avvocatura, tramite il Cnf ha espresso una valutazione favorevole all’introduzione dei nuovi istituti, che si uniscono e rafforzano il sistema delle Adr e si basano sulla competenza e professionalità specifica degli avvocati nel praticare e promuovere la “cultura” della conciliazione tra le parti come modalità più adeguata a ottenere giustizia sostanziale.

Nel rimandare agli altri saggi raccolti in questo stesso numero della Rivista per i contenuti della nuova normativa, preme rilevare come alcuni aspetti critici rischiano di compromettere l’adesione a cambiamenti significativi:

«1. La formazione professionale

I nuovi legali sono formati in università che considerano opzionale la formazione in materia di negoziazione[15] o l’affidano a corsi post laurea.

Ci si chiede da più parti[16] come incida, in termini di costi e tempi, oltre che di investimento intellettuale, la formazione dei professionisti già operativi in settori della negoziazione e della mediazione.

Il mantenimento della qualifica di “mediatore” richiede infatti la frequenza obbligatoria di corsi a pagamento, così come la negoziazione e il processo telematico richiedono competenze e strumenti diversi su cui investire in termini di tempo e risorse.ma soprattutto in disponibilità personale a mettersi in gioco su aree e con regole e linguaggi diversi dal noto.

Preme rilevare che per la negoziazione assistita le disposizioni cruciali ripropongono elementi del diritto collaborativo (penso anzitutto all’impegno di «cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati», ma anche al tempo concordato per l’espletamento della procedura e, alla tutela della riservatezza) con le stesse preoccupazioni emerse in sede di approfondimento in Italia del conflitto potenziale tra dovere di lealtà e dovere di riservatezza per l’avvocato negoziatore (l’esempio più banale: devo per lealtà comunicare al creditore, mia controparte, ogni elemento patrimoniale su cui può fondare le sue garanzie di adempimento?).

Mentre nel diritto collaborativo gli avvocati NON possono assistere i propri clienti in caso di mancato accordo, la normativa della L. 162/2014 prevede solamente il divieto per gli avvocati e le parti di utilizzare delle dichiarazioni rese o delle informazioni acquisite in negoziazione.

Oltre al prerequisito della formazione professionale, due aspetti della nuova normativa appaiono particolarmente critici per chi esercita la professione forense.

2. Divieto di compenso per chi assiste i soggetti non abbienti

L’art. 3 co. 6 prevede che NON è dovuto compenso dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

A questo proposito ci si richiama a quanto chiaramente e compiutamente affermato da M.G. Civinini[17] circa la necessità del gratuito patrocinio in ogni caso di rappresentanza obbligatoria, come nel caso in questione, per il rispetto della convenzione europea dei diritti dell’uomo: «In Anghel c. Italia, 25 giugno 2013, afferma la Corte: “51.Non esiste un obbligo ai sensi della Convenzione di rendere disponibile il gratuito patrocinio per tutte le cause (controversie) in materia civile, giacché esiste una chiara distinzione tra la formulazione dell’articolo 6 § 3 (c), che garantisce il diritto di essere assistito gratuitamente nel procedimento penale se ricorrono determinate condizioni, e quello dell’articolo 6 § 1, che non menziona in alcun modo l’assistenza legale (si veda Del Sol c. Francia, n.46800/99, §21, Cedu 2002-II). Tuttavia, nonostante l’assenza di tale clausola per le cause civili, l’articolo 6 § 1 può talvolta obbligare lo Stato ad accordare l’assistenza di un avvocato, laddove tale assistenza si dimostri indispensabile per garantire l’effettivo accesso a un tribunale perché la rappresentanza legale è resa obbligatoria, come richiesto dal diritto nazionale di alcuni Stati contraenti in vari tipi di controversie oppure perché la procedura o la causa sono particolarmente complesse (si veda Airey c. Irlanda, 9 ottobre 1979, § 26, Serie A n. 32). Nel sottrarsi all’obbligo di accordare alle parti il gratuito patrocinio nelle cause civili, laddove ciò sia previsto dal diritto interno, lo Stato deve dare prova di diligenza, assicurando a dette parti il pieno ed effettivo godimento dei diritti tutelati dall’articolo 6 (si vedano, inter alia, Staroszczyk c.Polonia, n.59519/00, §129, 22 marzo 2007; Siałkowska c.Polonia, n.8932/05, §107, 22marzo 2007; e Bąkowska c. Polonia, n. 33539/02, § 46, 12gennaio 2010)».

3. Sanzioni amministrative per gli avvocati

L’art. 6, IV co. Prevede una sanzione amministrativa per il legale che ritardi oltre 10gg il deposito dell’accordo di negoziazione in materia di famiglia all’Ufficio di stato civile.

Una norma che “sorprende e intimorisce”[18] per l’esosità degli importi (da euro 5000,00 a euro 50.000,00) per un adempimento formale che oggi non ha né termine né sanzioni».

6. … piste di riflessione ...

Alla luce di questa rapida ricostruzione dei cambiamenti intervenuti negli ultimi 35 anni, mi sembra che la definizione di avvocato da cui sono partita (un attore individualista sulla scena della giustizia che si intrometteva tra le parti interessate, in genere sprovviste di informazione giuridica, e i giudici al fine di chiarire la situazione e di far scaturire dal contrasto dei fatti e delle idee la verità che poi doveva essere consacrata nelle sentenze sulla base delle norme generali e astratte della giustizia cieca. Doti fondamentali: «una cultura generale e specifica, attitudine alla logica e all’oratoria, probità e correttezza», eccellente solista ma poco propenso a confondere la propria voce all’interno della orchestra) appaia assolutamente inadeguata all’attività che svolgiamo quotidianamente.

Oggi abbiamo attrici e attori, cui è sempre più richiesto di essere capaci di lavorare in squadra, con clienti sempre più informati dei contenuti diffusi sul web, da sostenere nella pretesa di giustizia attraverso le diverse opzioni possibili, considerando col massimo rispetto l’ambito giurisdizionale cui demandare solo le questioni più importanti, per affrontare in sede di mediazione o negoziazione tutte le altre, che coinvolgono interessi, relazioni, legami con competenza non solo giuridica e telematica, ma relazionali su questioni che richiedono uno sguardo più vicino, attento e accurato della “giustizia cieca”.

Se restano, ed anzi si accentuano, come doti la probità e correttezza, si aggiungono alla cultura generale e specifica e all’attitudine alla logica e alla oratoria, la conoscenza delle tecniche e la consapevolezza del ruolo del negoziatore, la conoscenza informatica, la capacità di passare dall’individualismo al gioco di squadra. La capacità di sintesi quando ci si rivolge ai giudici[19].

In questa prospettiva la “degiurisdizionalizzazione” del processo, non è “esternalizzazione” o “ privatizzazione” della giustizia, ma l’apertura a strumenti che si affiancano alla giurisdizione per consentire maggiore e migliore soddisfazione alla stessa sete di giustizia, che continuiamo a considerare degna di ascolto e risposta.

Le Adr divengono quindi occasioni per riservare la giurisdizione ai casi in cui è richiesta la sua efficacia, e l’avvocatura, in prima battuta, in sede di primo luogo di accoglienza e ascolto della domanda di giustizia, è chiamata a individuare gli strumenti più idonei a realizzarla con professionalità e competenza.

In particolare, ma non solo nella materia di famiglia è esperienza consolidata che dove le parti trovano ascolto delle loro ragioni, anche emotive, hanno poi maggiore possibilità di negoziare nel proprio vantaggio gli aspetti da regolamentare giuridicamente.

Ciascuno di noi ha visto procedimenti sorti e nutriti dall’accanimento di chi ha sentito tradita la sua fiducia e distrutto un progetto di vita, risolversi poi in buoni accordi quando la parte riesce a distaccarsi dalla sofferenza patita e a concentrare le sue energie sulla possibile ricostruzione.

Viene però richiesto all’avvocato di fare un passo avanti di affrontare gli aspetti ulteriori alla sua formazione e, oltre all’informazione più accurata e approfondita sulle questioni di diritto, riconoscere e dare al cliente l’indicazione degli aspetti diversi da affrontare, sia sul piano relazionale che fiscale avvalendosi nel caso di altri consulenti.

Si supera quindi la soddisfazione, che nella lettura tradizionale si limita a soluzione del problema, chiusura del contenzioso, transazione con reciproche concessioni che quindi impoveriscono il soggetto.

Una soddisfazione più piena si raggiunge infatti quando la persona sente ascoltate, valorizzate le sue ragioni sia per gli aspetti relazionali, che per quelli economicofinanziari, con un accordo giuridicamente valido e stabile, in tempi ravvicinati e con costi contenuti.

Ecco quindi la necessità di integrare le diverse competenze relazionali, economica e giuridica, per fornire al soggetto interessato oltre a un contesto di informazione completa, sul piano giuridico un inquadramento globale della questione.

Il legale che assiste il cliente in questo percorso negoziale è richiesta una professionalità particolare, che coniuga competenze giuridiche, in termini di approfondimento di informazione e formazione, idoneità personale ad affrontare il percorso stragiudiziale coniugando capacità relazionale di empatia col cliente con i propri consulenti e con le controparti.

In questo quadro l’integrazione dei soggetti apre a un servizio più ampio e allargato, dove la capacità di gestione creativa del conflitto da parte degli altri è una risorsa di cui avvalersi.

In questo senso la modalità non contenziosa di affrontare il conflitto, può essere uno strumento efficace di trovare regole adatte, tenendo conto degli aspetti di benessere economico, relazionale, di stabilità degli accordi che premono a tutti i soggetti interessati.

Una prospettiva che si fonda sulla fiducia nella capacità delle parti di risolvere la crisi, proprio perché i più competenti sulle loro questioni e interessati a che le soluzioni siano valide.

In ogni caso da queste procedure si esce tutti diversi e più consapevoli, sia i clienti che i professionisti.

Primo fu fra tutti Gandhi ad affermare: «Mi resi conto che la vera funzione dell’avvocato è di unire parti che si sono disunite; la lezione s’impresse così indelebilmente in me che occupai gran parte del tempo per ottenere compromessi privati in centinaia di casi. Non ci persi nulla, neppure denaro, certamente non l’anima. Io sono un avvocato».

[1] L’ingresso delle donne in magistratura risale, come noto al 1963 (L. 66/63), con accessi modesti nel primo periodo (4-5% a concorso per aumentare progressivamente negli anni ‘70 e ‘80 fino all’impennata del 58% nel 2009 (nel 2013 il 46% dei magistrati sono donne) (cfr. Scheda tematica: Donne e magistratura in Italia. Time for equality Dossier: la magistratura sotto la lente di genere). Nel 1981 le donne iscritte all’albo degli avvocati superavano appena il 6%, dopo un decennio si arrivava al 20%, per arrivare al 40% nel 2005 e superare oggi (58%) i colleghi nelle fasce d’età infra 29 e 56,2% nella fascia d’età 30—34 anni (cfr. Intervento avvocato Sabina Giunta www.csm.it/PariOpportunita/pages/giunta.html).

[2] Cfr. voce Avvocatura, in Enciclopedia Italiana www.treccani.it di C. A. Cobianchi, V. Arangio Ruiz, P. Biondi e C. Marcucci, Pratica collaborativa: possibili consensi e prevedibili resistenze nella realtà italiana www.diritto-collaborativo.it.

[3] Cfr. Questa Repubblica, Le Monnier.

[4] Cfr. Guido Alpa, La durata del processo di I e II grado dal 2005 al 2014 è aumentata di circa 2 anni, i costi di accesso sono lievitati del 55,62% in primo grado, del 119,15% in appello e del 182,67% in cassazione http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/01/23/giustizia-alpa-tempi-dei-processi-aumentati-di-2-anni-e-costi-alle-stelle/262244.

[5] Cfr. Antonella Faucci, Abbecedario del diritto sul lavoro. Dalla Costituzione, indietro e in avanti in Come un paesaggio, Iacobelli Editore 2013.

[6] Cfr. G. Costantino, Riflessioni sulla Giustizia (in) civile (1995-2010), Torino 2011.

[7] Elisabeth H. Wolgast, The Grammar of Justice, Cornell University 1987 pubblicato in Italia nel 1994 da Editori Riuniti.

[8] Cfr. Stefano Rodotà, La vita e le regole, Feltrinelli 2006, p 246.

[9] Cfr. Carlo Maria Martini, Gustavo Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Einaudi, 2003.

[10] Cfr. Come un paesaggio, Iacobelli, 2013 cit. Libreria delle Donne di Milano, Non credere di avere diritti, Rosemberg & Seller, 1987.

[11] Cfr. Gustavo Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, 1992.

[12] Cfr. Guido Alpa, Quotidiano del Diritto, 09.10.2014.

[13] Cfr. Guido Alpa, loc. ult. cit.

[14] Cfr. Guido Alpa, Quotidiano del Diritto, 09.10.2014.

[15] Cfr. Università di Firenze, Università di Pisa, Università Bocconi, Università Luiss.

[16] Cfr. Avvocato: oneri, responsabilità e compensi alla luce del Dl 132/2014. www.altalex.com.

[17] Cfr. M.G. Civinini, Questioni controverse in materia di mediazione, in Questione Giustizia on line, www.questionegiustizia.it/articolo/questioni-controverse-in-materia-di-mediazione_15-05-2014.php.

[18] Cfr. Laura Biarella, Avvocato: oneri, responsabilità e compensi, Altalex 14.10.20414.

[19] Cfr. Cass. 191/2006 e Cass. 20589/2014.