Problemi attuali della giustizia arbitrale
1. L’elementare quesito, solo apparentemente provocatorio, da cui può partire una breve riflessione sui problemi attuali della giustizia arbitrale è il seguente: perché mai due soggetti che avrebbero diritto (art. 24 Cost.) di rivolgersi al giudice statuale per dirimere una controversia tra loro insorta, scelgono invece di incaricare di questo compito un arbitro, o perfino un collegio arbitrale, ai quali dovranno poi pagare il giusto e dovuto compenso professionale?
La risposta che si suole dare a tale interrogativo, e che costituisce (o dovrebbe costituire) in fondo la più intima essenza del fenomeno arbitrale, è che quei soggetti, viste le caratteristiche assolutamente peculiari della loro controversia, preferiscono affrontare dei costi aggiuntivi pur di affidarla a giudici privati da loro prescelti, che abbiano però tutte le specifiche competenze professionali, tecniche o scientifiche, necessarie per decidere (proprio) quella controversia. È insomma il profondo rapporto fiduciario che lega le parti agli arbitri l’elemento che più di ogni altro spiega e giustifica l’istituto dell’arbitrato. Che non è però atto di sfiducia verso il giudice togato, necessariamente generalista, soprattutto in un sistema giudiziario come il nostro, così poco propenso a valorizzare la specializzazione degli organi giudiziari[1], ma soltanto l’espressione di un’esigenza dei litiganti, specifica e circoscritta a quella data controversia, di affidarne la decisione a giudici dotati di adeguate (ed elevate) competenze specialistiche ad hoc.
Tale visione dell’arbitrato ne restituisce indubbiamente uno strumento dalla portata operativa assai ristretta e certamente residuale rispetto alla giurisdizione ordinaria. Anzitutto ne rimangono (o dovrebbero rimanere, v. infra n. 2) tendenzialmente escluse le controversie di basso o modesto valore, poiché quand’anche il loro grado di complessità sia tale da giustificare la presenza di un giudice privato dotato di peculiari competenze tecniche, i costi che le parti dovrebbero sostenere per pagare il compenso all’arbitro, o agli arbitri se si è incaricato un collegio, risultano quasi sempre antieconomici se rapportati al valore della controversia. In secondo luogo, rimangono (o dovrebbero rimanere, v. infra n. 2) escluse dal campo d’azione dell’arbitrato le controversie più semplici, o non particolarmente complesse, poiché in esse, com’è naturale che sia, non occorre affidarsi a specifici saperi specialistici per ricevere un’adeguata trattazione e decisione, anche se la materia del contendere è di alto valore economico.
Questa concezione dell’arbitrato, come istituto processuale “di nicchia” riservato ad un numero limitato di controversie, selezionate di fatto in funzione del loro valore e del loro grado di complessità, è quella che ha certamente ispirato la disciplina originaria del nostro codice di rito al momento della sua promulgazione nel 1942 e che, a mio avviso, ne ha continuato a rappresentare l’asse portante quantomeno sino alla riforma del 1983. In quel codice la posizione chiaramente ancillare e subordinata che il legislatore assegnava all’arbitrato rispetto alla giurisdizione statuale, era chiaramente testimoniata, oltre che da una regolamentazione assai scarna e distratta della struttura procedimentale, dal regime di esecutorietà del lodo, il quale nasceva totalmente privo di una propria autonoma efficacia, per acquisire “efficacia di sentenza” (art. 825 cpc) solo in seguito all’omologa del pretore, dopo che gli arbitri (non le parti) lo avevano obbligatoriamente depositato nella cancelleria del giudice competente entro il ristrettissimo termine di cinque giorni dalla sua emanazione. E ciò era stato previsto, non solo in ossequio alla concezione spiccatamente pubblicistica del processo – tipica di un’ideologia autoritaria quale era quella fascista – che, in quanto tale, era assai restia ad ammettere equipollenti alla giurisdizione statuale[2], ma anche perché il legislatore di allora (dietro il quale, per il vero, si celavano alcune più delle più rinomate e fulgide menti processualcivilistiche del secolo scorso) vedeva nell’arbitrato uno strumento del tutto residuale, ed un po’ elitario, destinato ad essere utilizzato in un numero limitatissimo di controversie, e quindi, anche per questo, non meritevole di essere equiparato tout court alla giurisdizione.
Se dall’analisi del dato normativo passiamo all’osservazione della prassi in campo arbitrale, non è difficile accorgersi che per via empirica si perviene alla stessa identica conclusione, tanto con riguardo agli arbitrati ad hoc che con riguardo a quelli cd. amministrati. Basti in proposito osservare che la più grande istituzione arbitrale italiana, ossia la Camera arbitrale nazionale e internazionale di Milano, il cui prestigio è unanimemente riconosciuto anche a livello europeo, arbitra ogni anno un numero di controversie che oscilla, grosso modo, tra le cento e le centocinquanta unità (solo a titolo esemplificativo: 105 nel 2004, 99 nel 2007, 129 nel 2010, 167 nel 2013[3]) e cioè numeri letteralmente irrisori, se confrontati, non dico con quelli del Tribunale di Milano, ma anche con quelli di un qualsiasi piccolo, o piccolissimo, ufficio giudiziario, che spesso introita cento o centocinquanta nuove cause, non in un anno ma in un mese! Negli arbitrati ad hoc non si dispone ovviamente di rilevazioni tanto precise, ma l’esperienza pratica, anche di chi frequenta questa materia con dedizione e professionalità, insegna che le procedure arbitrali degne di questo nome hanno carattere non più che episodico, tanto sul piano quantitativo che, soprattutto, su quello qualitativo (su questo aspetto tornerò tra poco).
Insomma, se si tiene ferma l’idea che l’arbitrato si fonda principalmente sulla fiducia che le parti ripongono nelle competenze specialistiche degli arbitri che si scelgono, e che (solo) in ragione di questo tale stretto rapporto fiduciario sono disposte ad affrontare i maggiori costi che esso comporta rispetto all’agire avanti al giudice togato, è ben difficile discostarsi da una sua configurazione come istituto, non tanto alternativo alla giurisdizione, quanto piuttosto integrativo di essa in quella ristrettissima cerchia di controversie con cui è compatibile.
2. Le cose cambiano, e non poco, se il quesito da cui ho preso avvio viene posto in un contesto di grave crisi della giustizia civile, quale è quello che purtroppo affligge il nostro Paese da molti anni a questa parte. Qui i soggetti di una controversia possono essere indotti ad optare per la via arbitrale, non solo in considerazione del valore e del livello di complessità della loro contesa, ma anche per ottenerne la definizione in tempi rapidi, o quantomeno ragionevoli, visto che l’art. 820 cpc autorizza le parti a fissare un termine per la pronuncia del lodo, ed inoltre prevede che l’emissione del lodo non possa comunque avvenire oltre il termine legale di 240 giorni dall’accettazione dell’incarico arbitrale.
Le parti, cioè, potrebbero essersi risolte a sostenere i costi dell’arbitrato al solo scopo di sottrarsi ai tempi lunghi, e talvolta lunghissimi, della giustizia ordinaria, a prescindere dalla tipologia della controversia che le oppone. Non più quindi un giudice privato scelto in virtù di specifiche competenze professionali, che probabilmente neppure servirebbero, ma un arbitro, o un collegio arbitrale, incaricati soltanto di decidere una controversia ordinaria in tempi più brevi di quelli che ci si potrebbe attendere dal giudice togato.
Questa forzata alterazione degli originari connotati strutturali del nostro istituto, tendente in sostanza ad utilizzarlo, e a ricostruirlo sul piano teorico, al pari di un qualsiasi altro mezzo alternativo di risoluzione delle controversie (Adr), genera, a mio avviso, non tanto una sua positiva evoluzione verso più ampi e proficui orizzonti applicativi, quanto piuttosto una sua impropria deformazione da cui scaturiscono, e qui vengo al tema di questo contributo, molti dei suoi attuali problemi. Caricare surrettiziamente dei costi (spesso non trascurabili) di un arbitrato coloro che ambiscono ad avere una decisone della loro controversia (id est far valere i loro diritti) in tempi ragionevoli, non è solo in contrasto con l’art. 111, comma 2°, Cost., che affida allo Stato il compito di assicurare “la ragionevole durata” dei processi, e forse anche con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost), posto che non tutti possono permettersi di affrontare quei costi, ma è anche assai controproducente per la funzionalità ed effettiva circolazione dell’arbitrato negli ambiti che gli sarebbero propri, come l’esperienza pratica ha oramai dimostrato.
C’è stato un tempo, quando il problema dell’arretrato della giustizia civile cominciava ad incombere in tutta la sua preoccupante dimensione, in cui nei rapporti commerciali si era diffusa la prassi, quasi costante, di inserire indiscriminatamente in tutti i contratti la clausola compromissoria (spesso con formulazioni tutt’altro che ineccepibili sul piano tecnico!), quale che ne fosse il valore, la materia, il livello di complessità negoziale, come se si trattasse di una di clausola di stile capace, da sola, di mettere i contraenti al riparo dal problema delle lungaggini processuali nel caso in cui avessero dovuto affrontare una controversia relativa «all’interpretazione, attuazione, esecuzione»[4] di quel contratto. Si era insomma diffusa l’idea, ed anche un po’ una moda, alimentata ad arte da qualche interessato “promoter”, che l’arbitrato, ad hoc o amministrato che fosse, avrebbe potuto avere il prodigioso, e taumaturgico, effetto di restituire ai cittadini il loro diritto ad un processo in tempi ragionevoli e, di riflesso, anche di produrre il desiderato alleggerimento del sempre più incombente carico giudiziario nel settore civile. Purtroppo però, man mano che nel corso degli anni quelle sconsiderate clausole compromissorie cominciarono ad avere esecuzione, questa speranza si rivelò per quello che in realtà era, e cioè una fragile illusione; poiché se molti si videro costretti a rinunciare alla tutela giurisdizionale dei loro diritti, spaventati dalla sproporzione tra i costi che avrebbero dovuto affrontare per attivare il procedimento arbitrale ed il valore della controversia compromessa in arbitrato (e sovente, nel timore dell’insolvenza del loro ipotetico debitore), altri si imbarcarono in arbitrati che, non di rado, si rivelarono tutt’altro che rapidi ed efficienti strumenti alternativi alla giurisdizione, poiché la scelta degli arbitri cadde, spesso, non su professionisti accuratamente individuati in base alle loro specifiche e comprovate competenze tecniche, ma su soggetti selezionati più genericamente e “a buon mercato” col solo comprensibile intento di fare presto, i quali quindi, alla prova dei fatti, assai di frequente resero ai compromittenti un servizio ben al di sotto delle loro pur legittime aspettative.
Il risultato fu che tanti di coloro che sperimentarono lo strumento arbitrale a causa delle troppe clausole compromissorie messe in circolazione, ne rimasero prevalentemente scottati, o perché la presenza della convenzione arbitrale si tradusse, in pratica, in un surrettizio ed imprevisto azzeramento del loro diritto di azione (gravato da eccesivi oneri economici per essere esercitato in sede arbitrale), o perché l’arbitrato, una volta avviato, diede cattiva o pessima prova di sé, a causa di arbitri inadeguati alla funzione che avevano accettato svolgere, e sfociando così, sovente, in lodi tutt’altro che inattaccabili, dai quali derivarono, com’è naturale, una gran quantità di impugnazioni per nullità ex art. 828 cpc, con buona pace dell’auspicato effetto deflattivo del carico giudiziario in ambito civile.
E così il deleterio dilagare delle clausole compromissorie, anche nei più piccoli ed insignificanti contratti, non solo non ha rappresentato un valido strumento di salvaguardia dei contraenti rispetto al temuto problema dei tempi della giustizia, ma ha anche reso un pessimo servizio al “buon nome” dell’arbitrato - e quindi alle sue possibili potenzialità espansive - ingenerando tra gli operatori economici l’idea (sbagliata) che si tratti di uno strumento inefficiente ed eccessivamente costoso da cui è bene tenersi lontani, quando invece è uno strumento che, se utilizzato correttamente e negli ambiti che gli sono propri, può fornire un ausilio preziosissimo e qualificato per affrontare, però, soltanto una certa, mirata, tipologia del contezioso civile.
Ciò che invece, a mio avviso, non può, e non potrà mai richiedersi all’arbitrato è di convertirsi in un mezzo di risoluzione di massa delle controversie civili alternativo e pienamente surrogabile alla giurisdizione civile – anche al semplice fine di ottenere la decisione della lite in tempi ragionevoli – al pari di quanto giustamente accade con le altre Adr conosciute. È vero che l’arbitrato implica un giudizio ed un processo strutturalmente analoghi a quelli che si compiono avanti il giudice ordinario, ma proprio questa indubbia, e ormai acquisita identità strutturale (sul punto v. meglio infra n. 3), non consente una sovrapposizione, né tanto meno una piena alternatività, sul piano funzionale, giacché quel processo e quel giudizio hanno dei costi che, per essere giustificati, richiedono necessariamente una differenziazione funzionale, un quid pluris, dell’arbitrato rispetto alla giurisdizione ordinaria. Se questa distinzione funzionale viene meno, perché, ad esempio, si va in arbitrato per avere un più rapido equipollente alla giurisdizione in una controversia comune, l’istituto subisce una tale torsione nei suoi connotati essenziali da risultare poi, in concreto, inidoneo allo scopo perseguito. Cosa che invece non avviene con le vere e proprie Adr, poiché esse sono fondate (solo) sulla ricerca di una bonaria composizione della lite, e cioè su un metodo operativo che, nelle sue tante varianti, non solo è meno oneroso economicamente, ma è anche strutturalmente completamente diverso da quello giudiziale (cioè implicante un “giudizio”), e perciò, in quanto tale, consente una piena alternatività funzionale alla giurisdizione[5].
In definitiva, mi pare che l’esagerata diffusione dell’arbitrato determinatasi negli anni trascorsi per le ragioni di cui sopra si è detto, abbia fornito, nella prassi, la più evidente dimostrazione empirica di ciò che a livello teorico era già chiaro ed acquisito da tempo, e cioè che l’arbitrato è, per le sue intrinseche caratteristiche, un possibile, eccellente, strumento integrativo della giurisdizione ordinaria, ma ben difficilmente può surrogarsi totalmente ad essa divenendone un’alternativa in tutta la sua possibile latitudine.
3. Alla tentazione di provare ad incentivare l’arbitrato su vasta scala come se fosse un reale mezzo alterativo alla giurisdizione ha ceduto anche il nostro recente legislatore, illudendosi di poterlo impiegare nella lotta contro i ritardi della giustizia civile, in veste di efficace dispositivo di deflazione dell’abnorme arretrato pendente.
Il terreno per questa discutibile scelta tecnica è stato probabilmente preparato da due differenti, ma convergenti, fattori.
Sul piano della teoria generale, ha indubbiamente influito l’annoso dibattito sulla natura giurisdizionale o negoziale dell’arbitrato che, dopo essersi protratto per decenni in contrapposizioni dogmatiche un po’ sterili, pare ormai essere definitivamente approdato, sia a livello dottrinale[6] che giurisprudenziale[7], alla conclusione che, nell’attuale quadro normativo, non può essere negata la natura giurisdizionale dell’arbitrato, benché esso tragga origine da un atto di autonomia negoziale; e ciò, a mio avviso, per la elementare ragione che il diritto alla tutela giurisdizionale è, come tutti gli altri diritti fondamentali, disponibile nella sua pienezza ed integrità, sicché, quando i compromittenti ne dispongono, devolvendo in arbitrato una controversia, affidano agli arbitri la stessa funzione che avrebbe dovuto esercitare il giudice togato.
Sul piano legislativo, invece, una notevole incidenza è da attribuire alle numerose riforme che hanno investito l’arbitrato nell’ultimo trentennio[8], le quali, pur con un andamento intermittente, incerto e spesso contraddittorio, hanno però seguito una linea di tendenza orientata in modo abbastanza evidente verso l’affrancamento dell’arbitrato rituale dalla subalternità alla potestà giurisdizionale, e verso il contestuale riconoscimento della sua autonoma natura giurisdizionale, culminando con l’introduzione, nel 2006, dell’art. 824-bis cpc, ove oggi è testualmente prescritto che «Salvo quanto disposto dall’articolo 825, il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria».
Ebbene, entrambi questi fattori se per un verso hanno concorso ad accreditare l’idea, giusta, che l’arbitrato, avendo natura giurisdizionale, è perfettamente equiparabile alla giurisdizione ordinaria sotto il profilo strutturale, per altro verso hanno purtroppo anche alimentato l’equivoco che, proprio in virtù di tale piena equiparabilità, l’arbitrato sia anche totalmente surrogabile ed interscambiabile (id est alternativo) con la giurisdizione ordinaria, il che, invece, come già si è visto, non è assolutamente vero, poiché l’arbitrato, per i suoi caratteri intrinseci, è adatto ad assolvere funzioni qualitativamente diverse da quelle assegnate al giudice togato.
Probabilmente fuorviato da questo evidente equivoco concettuale il nostro legislatore, con il recente Dl 132/14 c.d. sulla degiurisdizionalizzazione, convertito in l. 162/14, ha introdotto la possibilità per le parti di un processo pendente, in primo o in secondo grado, di chiederne il trasferimento “in sede arbitrale”, sperando (o forse meglio illudendosi) in questo modo di innescare un benefico travaso di parte del contenzioso civile ordinario verso più rapidi e snelli procedimenti arbitrali.
Più esattamente l’art. 1 del Dl 132, (in apertura di un capo 1° dalla velleitaria intitolazione: «Eliminazione dell’arretrato (sic!) e trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti civili pendenti») prevede che, se la causa verte su diritti disponibili[9], «le parti, con istanza congiunta, possano richiedere di promuovere un procedimento arbitrale a norma delle disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile», nel qual caso «il giudice … dispone la trasmissione del fascicolo al presidente del Consiglio dell’ordine del circondario in cui ha sede il tribunale ovvero la corte di appello per la nomina del collegio arbitrale per le controversie di valore superiore ad euro 100.000 e, ove le parti lo decidano concordemente, di un arbitro per le controversie di valore inferiore ad euro 100.000»; dopodiché «gli arbitri sono individuati, concordemente dalle parti o dal presidente del Consiglio dell’ordine, tra gli avvocati iscritti da almeno cinque anni nell’albo dell’ordine circondariale che non hanno subito negli ultimi cinque anni condanne definitive comportanti la sospensione dall’albo e che, prima della trasmissione del fascicolo, hanno reso una dichiarazione di disponibilità al Consiglio stesso».
Si tratta in sostanza di una vera e propria translatio iudicii in arbitrato, giacché, una volta instaurato il procedimento, «Restano fermi gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda giudiziale e il lodo ha gli stessi effetti della sentenza» (art. 1, comma 3°, Dl 132/14).
Senza voler qui entrare nella miriade di difetti tecnici di un siffatto dispositivo processuale, immediatamente sottolineati dalla dottrina che se ne è occupata[10], agli effetti che qui interessano va invece osservato che questo intervento normativo è palesemente viziato nella sua filosofia di fondo, ancora una volta, da un travisamento dei caratteri salienti ed immodificabili dell’arbitrato, sicché ben difficilmente potrà avere quell’effetto deflattivo del contenzioso civile che il legislatore (un po’ utopicamente) si attende.
In primo luogo si pone il problema del compenso agli arbitri, già sopra indicato come uno dei principali elementi su cui è incardinato il rapporto sinallagmatico nella convenzione d’arbitrato. Non è difficile pronosticare, come la pur breve esperienza applicativa sta già dimostrando, che saranno pochissimi i contendenti che, dopo aver sostenuto le non indifferenti spese di una causa già pendente da anni avanti al giudice ordinario, decidano, concordemente (!!), di devolverla in arbitrato, confidando in una sua celere, ma ancor più costosa, definizione. Una simile aspettativa è a dir poco irrealistica, non solo perché, come tutti sanno, in un giudizio c’è quasi sempre almeno un soggetto che ha interesse a prolungarne i tempi, ma anche perché dopo che il processo statuale ha accumulato un cospicuo ritardo, “le parti”, anche a volerle considerare unitariamente (il che, in realtà, è pura astrazione visto che sono in conflitto tra loro), non hanno più interesse ad affrontare i considerevoli costi aggiuntivi dell’arbitrato per abbreviarne (relativamente) la durata. Né credo ci si possa seriamente aspettare che le cose cambino, se verrà emesso il decreto ministeriale di riduzione dei «parametri relativi ai compensi degli arbitri» previsto dell’art. 1, comma 5°, del Dl 132/14, il cui unico, verosimile, effetto sarà quello di scoraggiare i professionisti più esperti in materia arbitrale, e di attirare verso questo genere di arbitrari solo avvocati con una preparazione più “improvvisata”, a tutto danno, ovviamente, dei pochissimi che sceglieranno questa via[11].
In secondo luogo, va purtroppo notato che la disciplina introdotta dal Dl 132/14 lascia alquanto a desiderare anche se viene valutata nella prospettiva dell’altro attributo essenziale del nostro istituto, ossia, come si è visto sopra, la specializzazione degli arbitri come elemento determinate su cui poggia il rapporto fiduciario con i compromittenti. Aver previsto che la translatio iudicii, e perciò la salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda, possa aversi solo se è nominato come arbitro un avvocato (dalle parti o dal Presidente del suo ordine di appartenenza) è un’opzione normativa nella quale si legge con molta più facilità una comoda concessione alla categoria forense, che non il reale intento di agevolare il ricorso allo strumento arbitrale, giacché, se così fosse, si sarebbe dovuto prevedere che le parti possono, anche qui, scegliersi liberamente i loro arbitri, in funzione delle competenze che gli riconoscono ed a prescindere dall’appartenenza a questa o a quella categoria.
In definitiva, si torna di nuovo alle lineari constatazioni che erano scaturite dal semplice quesito che ho posto all’inizio di queste brevi riflessioni. L’arbitrato, implicando una prestazione professionale per la decisione della controversia, non si presta facilmente a divenire un surrogato della giurisdizione ordinaria a carattere generale, e perciò la sua efficienza entra irrimediabilmente in crisi, non solo quando i privati vi ricorrono per risolvere il problema dei tempi troppo lunghi della giustizia ordinaria (sopra n. 2), ma anche – ancor peggio – quando, allo stesso scopo, vi ricorre il legislatore con norme che, come ora si è visto, ne snaturano a tal punto i caratteri salienti da essere destinate a rimanere inapplicate.
Se queste considerazioni sono corrette, come a me pare che siano, sarebbe probabilmente auspicabile un drastico ripensamento della strada intrapresa, che non giova alla giustizia ordinaria e nuoce alla credibilità complessiva dello strumento arbitrale, piegato a finalità che non gli sono proprie. Al contrario, invece, il nostro legislatore pare deciso ad insistere su questa linea, visto che all’art. 1, n. 2, lett. e) del disegno di legge-delega recentemente approvato dal Consiglio dei ministri per l’ennesima riforma del processo civile (cd. progetto Berruti), si prevede improvvidamente «il potenziamento dell’istituto dell’arbitrato, anche attraverso l’eventuale estensione del meccanismo della translatio judicii ai rapporti tra processo e arbitrato, nonché attraverso la razionalizzazione della disciplina dell’impugnativa del lodo arbitrale».
4. Volendo trarre le fila di quanto si è andati sin qui dicendo, credo si possa conclusivamente osservare che i principali problemi dell’arbitrato, oggi, stanno principalmente nell’uso improprio e debordante che spesso ne viene fatto nelle prassi e nei programmi legislativi. Così, non solo viene snaturata la sua fisonomia giuridica, ma si rischia anche di comprometterne la funzionalità, efficienza ed appetibilità nella sfera d’azione che gli sarebbe propria.
[1] In arg. v. Rordorf, La professionalità dei magistrati: specializzazione e avvicendamento, in Foro it., 2000, V, c. 269 ss.; Pagni, Competenze e specializzazioni, in Tutela dei diritti e sistema ordinamentale, Atti del VI Convegno nazionale della Società italiana degli studiosi del diritto civile, Napoli, 2012, p. 387 ss.; Carpi, La specializzazione del giudice come fattore di efficienza della giustizia civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2013, p. 1009 ss.
[2] Verde, L’arbitrato e la giurisdizione ordinaria, in Diritto dell’arbitrato a cura di Verde, Torino, 2006, p. 164 ss.; se si va più indietro nel tempo può essere interessante ricordare che una voce autorevole come quella di Redenti, Diritto processuale civile, III, Milano, ed. 1954, non solo assegnava all’arbitrato funzione “vicaria di quella giurisdizionale” (p. 460), ma nel ricostruire i rapporti tra parti ed arbitri, rilevava che nell’obbligazione assunta da questi ultimi verso i compromittenti «al carattere di obbligazione iuris civilis, si coordina anzi si sovrappone nello stesso senso un dovere iuris pubblici, che sorge ex lege dal carattere della funzione che gli arbitri assumono» (p. 458); per una ampia e lucida disamina dei rapporti tra arbitrato e giurisdizione statuale nel tempo presente, v. Izzo, La convenzione arbitrale nel processo, Torino, 2013, passim.
[3] Le altre Camere arbitrali istituite presso quasi tutte la Camere di commercio italiane generalmente non superano le poche decine di arbitrati all’anno; sull’arbitrato amministrato, con ampi riferimenti all’esperienza delle Camere arbitrali interne alle Camere di commercio, v. Sali, Arbitrato amministrato, in Digesto civ., [agg. 2007], Torino, I, p. 67 ss.
[4] Questa la tralatizia formula solitamente utilizzata.
[5] Per un ampio panorama ricostruttivo e tecnico sulla conciliazione e sulle Adr v. Cuomo Ulloa, La conciliazione - Modelli di composizione dei conflitti, Padova, 2008, passim.
[6] Di recente, la natura giurisdizionale dell’arbitrato è stata riaffermata, con ampie e convincenti argomentazioni, da Salvaneschi, Arbitrato, in Commentario al cpc a cura di Chiarloni, Bologna, 2014, p. 803 ss.; in precedenza tra i più acuti e fervidi sostenitori di questa tesi v. E. F. Ricci, La «funzione giudicante» degli arbitri e l’efficacia del lodo, in Riv. dir. proc, 2002, p. 351 ss.; tra i pochi che ancora oggi propendono per la natura negoziale natura negoziale dell’arbitrato e del lodo v. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2012, p. 392 ss.
[7] Penso in particolar modo alle due recentissime sentenze della Corte costituzionale (Corte cost., 19 luglio 2013, n. 223, in Foro it., 2013, I, c. 2695 ss., con nota di D’Alessandro, Finalmente! La corte costituzionale sancisce la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda introduttiva nei rapporti tra arbitro e giudice) e delle Sezioni unite (Cass., Sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24153, in Corriere giur., 2014, p. 84 ss., con nota di Verde, Arbitrato e giurisdizione: le sezioni unite tornano all’antico), le quali, dopo molto tergiversare, sembra abbiano ormai definitivamente e convintamente sposato la tesi della natura giurisdizionale tout court dell’arbitrato rituale; in precedenza la giurisprudenza si era tradizionalmente schierata su posizioni opposte, a partire da Cass, sez. un, 3 agosto 2000, n. 527, in Riv. arb., 2000, p. 699 ss., con nota adesiva di Fazzalari, Una svolta attesa in ordine alla “natura” dell’arbitrato.
[8] Mi riferisco, in special modo, alle importanti riforme attuale con cadenza quasi decennale dalle l. 9 febbraio 1983 n. 28 e 5 gennaio 1994 n. 25 e dal Dlgs 2 febbraio 2006, n. 40.
[9] Ora, dopo la legge di conversione, «Tale facoltà è consentita altresì nelle cause vertenti su diritti che abbiano nel contratto collettivo di lavoro la propria fonte esclusiva, quando il contratto stesso abbia previsto e disciplinato la soluzione arbitrale. Per le controversie di valore non superiore a 50.000 euro in materia di responsabilità extracontrattuale o aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, nei casi in cui sia parte del giudizio una pubblica amministrazione, il consenso di questa alla richiesta di promuovere il procedimento arbitrale avanzata dalla sola parte privata si intende in ogni caso prestato, salvo che la pubblica amministrazione esprima il dissenso scritto entro trenta giorni dalla richiesta».
[10] Per tutti, v. Borghesi, La delocalizzazione del contenzioso civile: sulla giustizia sventola bandiera bianca ?, in Judicium.it; Balena, Il trasferimento in sede arbitrale dei giudizi pendenti, in Foro it., 2014, V, c.17 ss.
[11] Ed anche della credibilità dell’arbitrato che rischierà, di nuovo, di dare cattiva prova di sé; sul punto v. sopra n. 2.