La mediazione nella prospettiva europea
L’articolo muove dalla disciplina europea della mediazione per analizzarne lo stato di attuazione, il successo pratico a livello internazionale, le possibili linee di evoluzione e le prospettive culturali di una giustizia integrata tra livello giudiziario e strumenti alternativi di risoluzione delle controversie cui dovrebbe tendersi.
1. La mediazione in Europa nel quadro degli strumenti di accesso alla giustizia
Parlare delle prospettive della mediazione in Europa significa innanzitutto parlare del presente, e chiedersi, prima di ogni altra cosa, se esiste oggi una mediazione “europea”, con una sua specifica fisionomia, e non solo una legislazione dell’Unione europea sulla mediazione.
Significa chiedersi, in altri termini, quale nozione di mediazione sia oggi diffusa nei Paesi europei, anche in quelli che non fanno parte dell’Unione, e se una simile nozione, se pure esiste, presenti una sua originalità, rispetto al modello americano al quale si sono ispirate, ed in gran parte si ispirano ancora, le esperienze del nostro continente.
Ancora: significa chiedersi, da un lato, se questa “idea” della mediazione sia un concetto sufficientemente condiviso nei suoi caratteri fondamentali e nelle sue finalità, e se ed in che modo, dall’altro lato, questa idea abbia trovato una pratica realizzazione nella realtà dei Paesi europei, dopo 20 anni di discussioni e di elaborazioni.
Ma significa anche, necessariamente, parlare di rapporti tra la mediazione, e più in generale tra i metodi e meccanismi Adr, ed i sistemi giudiziari dei Paesi europei.
Intendo dire, insomma, che occorre rimanere saldamente ancorati al presente ed alla realtà, se vogliamo formulare ipotesi di sviluppo realistiche, e non solo affascinanti o suggestive.
Per questo, mi pare necessario partire dal quadro tracciato dall’Unione europea con la direttiva 2008/52, e dai caratteri originari della mediazione “europea”, per cercare di verificarne il grado di sviluppo.
La direttiva 2008/52/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008 «relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale» che l’Italia ha attuato in tempi rapidissimi, con la legge delega 69/2009 e con il DLgs 28/2010, ha rappresentato il punto di arrivo di un processo lungo e complesso, che ha preso l’avvio, come ricorda il punto 2 del “considerando”, dal Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999, sviluppandosi poi negli anni, nel quadro delle iniziative comunitarie in materia di accesso alla giustizia – settore nel quale deve quindi essere inquadrata la materia della mediazione, e più in generale dell’Adr, dal punto di vista della normativa comunitaria –, iniziative che si sono articolate in numerosi interventi della Commissione e del Parlamento, a partire dal 1998.
Credo che questo dato sia importante in sè, sul piano dell’inquadramento dell’istituto, e delle conseguenze che ne derivano, perché fin dall’inizio caratterizza la mediazione, sul piano del diritto positivo comunitario, come uno dei mezzi di attuazione del sistema di giustizia, e non come uno strumento di risoluzione contrapposto al sistema di giustizia, anche se distinto dai rimedi giurisdizionali.
Questo dato, invece, – seppure storicamente già presente, naturalmente nelle forme proprie di quei contesti storici, nella tradizione dei sistemi di giustizia europei dei secoli scorsi, e seppure sia stato richiamato, anche in riferimento al nostro ordinamento attuale, dalla più recente pubblicistica costituzionale in materia (Mirabelli) – è largamente trascurato, specie nella realtà italiana, dove la mediazione è stata a lungo, ed in parte è ancora, considerata come un rimedio di serie B, che trova una sua giustificazione, anche quando si riconosca (come peraltro molti negano), che ne abbia una, solo se ed in quanto la giustizia civile non funzioni adeguatamente, e solo se ed in quanto riesca a ridurre in modo significativo il numero delle nuove cause civili. Altrimenti, si intende, non ce ne sarebbe bisogno, ed anzi potrebbe costituire un ostacolo all’esercizio dei diritti o, peggio ancora, una forma di privatizzazione della giustizia, anche se non è chiaro cosa si intenda per privatizzazione, o quantomeno in che modo la mediazione introdurrebbe elementi di privatizzazione innovativi, riducendo lo spazio della giurisdizione, visto che la risoluzione della controversia non avviene con una decisione, ma con la conclusione di un contratto.
Di questa caratterizzazione, proprio la Direttiva europea fornisce invece immediatamente, all’articolo 1, una conferma molto significativa sul piano del diritto positivo, anch’essa largamente trascurata, individuando quale obbiettivo della mediazione quello di facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la loro composizione amichevole, «garantendo un’equilibrata relazione tra il numero delle mediazioni ed il procedimento giudiziario (balanced relationship between the number of mediations and trials)», un obbiettivo che attribuisce quindi pari dignità allo strumento non giudiziario.
Si tratta di una previsione che non solo possiede uno specifico rilievo sul piano dell’inquadramento sistematico dell’Adr, ma che potrebbe giustificare, in futuro, anche la previsione (non necessariamente vincolante, per gli Stati membri, ma non per questo meno significativa) di standard minimi di realizzazione.
2. La Direttiva Eu 2008/52 e il suo stato di attuazione
La Direttiva del 2008 rappresenta il punto di arrivo di un cammino tutt’altro che lineare, che ha incontrato molti ostacoli ed ha richiesto numerosi compromessi, come appare dalla semplice comparazione della Direttiva 2008/52 con il primo progetto in materia (La proposta 2004/0251 di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio), a partire dalla stessa determinazione dell’ambito di applicazione, che, significativamente, non era neppure limitato alle controversie transnazionali.
Il processo legislativo europeo, nella materia della mediazione, in effetti, registra fin dall’inizio un contrasto di fondo, ma si potrebbe dire un conflitto, in qualche caso, che si è incentrato e si incentra ancora, nel panorama dell’Europa comunitaria (e non solo), sulle stesse caratteristiche, e sull’estensione, dell’intervento legislativo, contrapponendo i sostenitori di una concezione della mediazione intesa come una procedura strutturata in senso formale, e regolamentata in modo articolato e dettagliato, anche sul piano procedurale, sul modello di un procedimento giudiziario (come è avvenuto in particolare nel nostro Paese, ma anche, ad esempio, in Slovenia ed Austria) ai fautori di una visione della mediazione come procedimento aperto ed informale, la cui strutturazione, termine del resto usato, ma senza specificazioni, dalla stessa direttiva nella definizione della mediazione, non è di carattere “procedurale”, ma funzionale, e come tale deve essere affidata caso per caso alle parti ed al mediatore.
Come chiarisce il secondo comma dell’articolo 1, la direttiva si applica alle controversie transfrontaliere, una limitazione che si collega all’ articolo 67 del Trattato, in riferimento agli articoli 65 e 61, che richiama espressamente «le misure della cooperazione giudiziaria in materia civile che presenti implicazioni transfrontaliere».
Questa limitazione, tuttavia, non è stata di ostacolo, in quasi tutti i Paesi membri, all’estensione alle mediazioni interne della legislazione nazionale applicativa dei principi della direttiva (come la stessa auspica, al punto 8 del considerando che precede il testo, affermando che «nulla dovrebbe vietare agli Stati membri di applicare tali disposizioni anche ai procedimenti di mediazione interni»).
Oggi, tutti i Paesi membri hanno una legislazione applicativa della direttiva, talvolta, come nel caso già citato dell’Italia, o dell’Austria e della Slovenia, molto dettagliata, ed in altri casi molto meno ampia, o addirittura limitata alla disciplina delle controversie transnazionali in senso stretto, come il Regno Unito (nel quale, peraltro, in particolare in Inghilterra, al di fuori delle previsioni sulla mediazione transnazionale, contenute nelle Cpr, la disciplina della mediazione e dell’Adr è contenuta in testi formalmente privi del valore di legge, ma ai quali la giurisprudenza della stessa Court of Appeal fa riferimento, in particolare l’Adr Handbook del 2013).
Se passiamo, però, dall’inquadramento di carattere generale dell’iniziativa europea alle sue realizzazioni pratiche, dobbiamo chiederci quale sia oggi, dopo 6 anni dall’approvazione della Direttiva, lo stato della mediazione in Europa, in termini di diffusione, e di livello di accettazione da parte del ceto forense e dei sistemi giudiziari.
Rispondere a queste domande basandoci su elementi statistici oggettivi è praticamente impossibile, perché i dati sulla pratica della mediazione sono molto limitati, e, quando disponibili, riferiti a singole materie o singole istituzioni dei vari Paesi, e non sempre univocamente apprezzabili, in termini di omogeneità, tanto che possiamo senz’altro affermare che solo in Italia, nel panorama europeo, e forse addirittura mondiale, è previsto dalla legge un sistema centralizzato di raccolta dei dati, affidato al Ministero della giustizia, potenzialmente in grado di fornire una fotografia completa del fenomeno, almeno per quanto riguarda la mediazione accreditata, cosi come prevista nel nostro ordinamento.
Non è un caso, del resto, che sia così difficile non solo avere a disposizione dati di una qualche rilevanza sulla mediazione, ed anzi che una simile raccolta di dati non sia neppure prevista, in molti Paesi, così che una ricerca in materia che voglia cogliere aspetti generali del fenomeno, deve essere necessariamente affidata alla tecnica del sondaggio. Del resto, le stesse considerazioni si possono fare per gli Stati Uniti, a partire dalla più nota ricerca americana degli anni ‘90, quella realizzata dalla Rand Corporation (che si espresse peraltro in modo scettico sui risultati fino ad allora raggiunti dalla mediation).
La mediazione infatti privilegia la riservatezza, anche a prescindere dalle previsioni di legge, e si può ritenere certo che, in qualunque contesto nazionale, esista da molti anni, non pubblicizzata né documentata, accanto a quella più antica dell’arbitrato, anche una pratica diffusa della mediazione, o di altri strumenti di Adr, come il Mini Trial o l’Early Neutral Evaluation, che riguarda controversie di elevato ammontare economico, una pratica che non è particolarmente influenzata dalle vicende dello sviluppo del movimento della mediazione, e della mediazione civile e commerciale per così dire di massa.
Un altro elemento da tenere presente, poi, per una corretta lettura dei dati, è rappresentato dal fatto che, in molti Paesi, quando ci si riferisce al movimento della mediazione ed alla sua diffusione, ci si riferisce anche alla mediazione familiare, che invece, nella realtà italiana, ha avuto uno sviluppo in parte indipendente da quella civile, e tende ad essere sempre considerata a parte, nell’ambito delle stime sulla diffusione quantitativa dell’istituto, come avviene, almeno in parte, anche per le controversie di lavoro.
3. Un risultato importante: una cultura comune della mediazione
Ho parlato volutamente di movimento (the Adr Movement, secondo la definizione tradizionale) per indicare un primo traguardo, fortemente positivo, a mio giudizio, già raggiunto a seguito della diffusione della mediazione, vale a dire quello dellarealizzazione di una cultura comune della mediazione.
Quelli della mediazione e più in generale dell’Adr, sono ormai, infatti, temi sui quali si può discutere in qualsiasi parte di Europa con la certezza di venire compresi, ed anzi si può dire che i problemi fondamentali oggetto di discussione siano sempre gli stessi, anche nei diversi contesti nazionali, dall’alternativa obbligatorietà-facoltatività a quella della mediazione precedente alla causa-mediazione ordinata dal giudice, dal tema dell’assistenza difensiva a quello dei requisiti della formazione dei mediatori, e così via.
La mediazione, insomma, parla ormai un linguaggio comune, che utilizza generalmente l’inglese, ed in particolare la terminologia Usa, un linguaggio, pertanto, nel quale le parole hanno lo stesso significato per tutti, senza bisogno di traduzione, almeno nella maggior parte dei casi, e permette a chiunque di capire e farsi capire, quando parla con interlocutori che operano nell’ambiente della mediazione. È questo un risultato di grande rilievo, che meriterebbe di essere analizzato anche sul piano della sociologia del diritto.
Nella materia dell’Adr, ed in particolare della mediazione, ci troviamo insomma in presenza di nozioni “comuni”, che non richiedono pertanto una comparazione, e che possono dare vita, se già non lo hanno fatto, ad un diritto “comune” della mediazione, almeno in relazione ad alcuni elementi fondamentali, anche se, naturalmente, le singole realtà nazionali possiedono la propria individualità, ed anche se il panorama della mediazione (ma in modo trasversale, nell’ambito di tutti i Paesi), come è giusto che sia, presenta una vasta articolazione di scuole di pensiero, più o meno orientate all’approccio umanistico, o psicologico, o invece a quello giuridico, talvolta in modo più ideologico, altre volte in modo più concreto e pragmatico.
Non è certamente un successo da poco, anche se spesso si tende a darlo per scontato, se facciamo il paragone con le difficoltà che si incontrano, sul piano terminologico, nella comparazione in altri settori del diritto.
4. La pratica della mediazione. Tentativi di analisi quantitativa
Ma, se da questo piano, quello culturale, appunto, passiamo a quello della pratica della mediazione, dobbiamo prendere atto di una diffusione ancora limitata, sul piano quantitativo, almeno a quanto è possibile ricavare dai dati disponibili in base alle poche ricerche di carattere generale esistenti, come già accennato.
La più recente (2014), realizzata su impulso del Parlamento Europeo (Directorate General for internal policies) denominata «Rebooting Mediation Directive: Assessing the limited impact of its implementation and proposing measures to increase the number of Mediations in the Eu», condotta attraverso un’ampia consultazione di esperti ed operatori dei singoli Stati membri nel campo della mediazione, rivela fin dal suo titolo, l’approccio realistico al problema, e la finalità non solo ricognitiva, per lo scopo esplicito di incrementare la pratica della mediazione in Europa, ritenuta evidentemente deficitaria.
Una simile riflessione è certamente indispensabile, non solo e non tanto per verificare la validità della mediazione come strumento di risoluzione delle controversie, che non mi sembra corretto misurare dal successo quantitativo, ma soprattutto per capire meglio come se ne possa favorire una diffusione che venga incontro alle necessità dei cittadini europei, tenendo conto dell’esperienza concreta.
Il primo e più significativo risultato che emerge dalla ricerca – che, per quanto, come già detto, non abbia il carattere dell’oggettività statistica sul piano numerico, per eccesso o per difetto, appare certamente attendibile nella sostanza delle dimensioni e delle proporzioni del fenomeno – è proprio quello che riguarda il numero delle mediazioni, o, più esattamente, delle istanze di mediazione.
A prescindere da quelle commerciali o finanziarie di valore molto elevato che, come ho già osservato, rimangono spesso nell’ombra, si può affermare che solo in Italia si sia raggiunto (e si tratta, in questo caso, di un dato confermato dalle rilevazioni ministeriali) il livello di centinaia di migliaia annue (vicino a 200.000) nel periodo di massima diffusione seguito all’entrata in vigore, nel 2011, delle norme sul tentativo obbligatorio.
I Paesi che seguono immediatamente in questa rilevazione, Germania, Olanda e Uk, infatti, non superano la fascia compresa tra 10.000 e 20.000 (quella che in Italia si era raggiunta, stando alle statistiche pubblicate dall’Unioncamere e dall’Isdaci nei suoi rapporti annuali, nel periodo immediatamente precedente l’entrata in vigore delle norme sul tentativo obbligatorio di mediazione).
Si scende poi alla fascia compresa tra 5.000 e 10.000 per Ungheria e Polonia, mentre Francia, Belgio e Slovenia non vanno oltre quella 2.000-5.000.
Tutti gli altri Paesi conoscono uno sviluppo della mediazione ancora minore, compreso nella fascia tra 500 e 2.000 per quanto riguarda Austria, Danimarca, Irlanda, Romania, Slovacchia e Spagna, e addirittura al di sotto di 500 nei rimanenti Paesi dell’Unione, che ne rappresentano il 46%, vale a dire Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Grecia, Lituania, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Portogallo e Svezia.
Naturalmente, nella comparazione, e nell’interpretazione dei dati, si devono sempre tenere presenti le dimensioni della popolazione e le diverse situazioni nazionali, sul piano economico e su quello del funzionamento del sistema giudiziario, un’analisi, questa, molto importante e sofisticata, che non è possibile sviluppare in questo intervento e che sarebbe invece fondamentale, per meglio identificare i fattori che influiscono maggiormente, in senso positivo o negativo, sullo sviluppo della mediazione.
Ma già il dato numerico appare importante, almeno nel suo significato complessivo.
Si può’ ragionevolmente affermare, in sostanza, che, almeno fino ad oggi, senza l’introduzione di meccanismi di obbligatorietà, il numero delle istanze di mediazione non è cresciuto in modo significativo, anche se non può’ essere sottovalutato il livello quantitativo comunque raggiunto in paesi come Slovenia, Danimarca, Slovacchia e come la stessa Olanda, in relazione alle dimensioni delle rispettive popolazioni e del loro contenzioso giudiziario, pur essendo Paesi che non hanno introdotto meccanismi di obbligatorietà.
Anche il livello di Balanced Relationship è da ritenere molto basso, e tutt’altro che soddisfacente, attestandosi la percentuale delle mediazioni, secondo le stime della stessa ricerca, attorno all’1% del contenzioso giudiziario.
Naturalmente occorrerebbe approfondire il significato ed il peso stesso della previsione di un tentativo obbligatorio di mediazione o di una partecipazione obbligatoria ad una sessione informativa nelle diverse realtà nazionali, anche in relazione al costo delle controversie giudiziarie ed alle conseguenze in termini di spesa, così come esaminare in che modo, come si ipotizza nella ricerca citata, l’introduzione di meccanismi di obbligatorietà comporti un aumento non solo delle mediazioni “obbligatorie”, ma anche di quelle volontarie, come effetto di trascinamento.
Penso tuttavia, che, sulla base di questi dati, sarebbe sbagliato, come è invece già avvenuto più’ volte anche a proposito dello sviluppo della mediazione in Italia, parlare senza mezzi termini ed in modo ultimativo di fallimento della mediazione.
Prima di tutto, anche stando al solo dato numerico, non si può dimenticare che in molte realtà nazionali la mediazione era totalmente sconosciuta fino a pochi anni fa, e che la stessa ampiezza di diffusione geografica raggiunta si può ritenere già in sé un successo non indifferente, mentre il raggiungimento di elevati livelli di utilizzazione, anche nella più favorevole delle ipotesi, richiederà certamente tempi medio-lunghi.
In realtà, come si può constatare proprio dai giudizi critici, invariabilmente pessimistici (e definitivi, malgrado il poco tempo trascorso) appena ricordati, si tratta di giudizi che si fondano su un presupposto molto discutibile, e cioè che la mediazione “funziona” se riduce sensibilmente, ed immediatamente, il numero delle nuove cause civili, senza neppure riflettere sulle implicazioni da trarre da un eventuale rapido e consistente calo delle nuove controversie giudiziarie, anche qualora una simile ipotesi si verificasse, e di un accentuato favore per la mediazione, potendo tali sviluppi essere l’effetto della rinuncia a far valere i propri diritti in giudizio per il costo troppo elevato del processo, un risultato che, a mio giudizio, sarebbe tutt’altro che positivo, malgrado l’apparenza, e che del resto potrebbe verificarsi in futuro anche a prescindere dal “successo” della mediazione, secondo una tendenza che comincia a manifestarsi anche nel nostro Paese, specie in un periodo di crisi economica.
Da questo punto di vista, sarebbe interessante studiare a fondo l’esempio che vede forse il maggior successo mondiale della mediazione, almeno rispetto all’obbiettivo della riduzione del numero delle cause, quello dell’Argentina, che in 15 anni ha raggiunto una percentuale molto alta di successo della mediazione in relazione al numero delle cause iscritte, e che vede adesso l’adesione convinta della classe forense.
Ma analoghe realtà sono diffuse ormai in Perù, Colombia, Bolivia, Costa Rica, Honduras, Venezuela, mentre in Uruguay è la stessa Costituzione a prevedere l’obbligo del tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità, anche se generalmente svolto dal giudice.
5. Prospettive future in un contesto di complessiva qualità della giustizia
A mio giudizio, invece, il successo della mediazione, in Italia ed in Europa, si deve misurare non solo in termini di diffusione quantitativa, in sé considerata, ma soprattutto in termini di riconoscimento della sua piena cittadinanza nell’ambito della risoluzione delle controversie, e della sua scelta oculata ed equilibrata, in base all’esistenza di adeguati presupposti, una scelta che dovrebbe essere effettuata anche in un contesto di buon funzionamento del sistema giudiziario. Questo, a mio giudizio, sarebbe il vero successo della mediazione.
Certamente, un adeguato livello di utilizzazione della mediazione, e di altri strumenti di definizione delle controversie, decisori, come l’arbitrato, e non decisori, come la mediazione, è da ritenere un obbiettivo strategico, nel medio-lungo periodo, e corrisponde del resto ad una tendenza che, seppure oggi appena percettibile, in alcuni sistemi (ma molto più diffusa negli Stati Uniti, in Inghilterra ed in area Commonwealth) è probabilmente destinata ad espandersi notevolmente.
Da questo punto di vista l’introduzione di meccanismi di obbligatorietà, come avvenuto in Italia, può avere indubbiamente una notevole efficacia nel promuovere l’uso della mediazione, e, prima di tutto, nel farla conoscere ai cittadini ed agli stessi avvocati, come dimostra la nostra esperienza, considerando anche la previsione di assistenza legale obbligatoria (che ha un equivalente solo nell’ordinamento greco).
La ricerca qui citata evidenzia, peraltro, lo scarso favore per l’obbligatorietà nell’opinione degli esperti e degli operatori degli altri Paesi europei consultati (in nessuno dei quali esiste un equivalente della disciplina italiana), prevalendo invece largamente la preferenza per quella che viene denominata come mitigated mandatory mediation, una obbligatorietà attenuata, per così dire, nella quale si richieda alle parti solo di comparire dinanzi ad un mediatore per esaminare la possibilità di iniziare una vera e propria mediazione, come nel modello italiano attuale, che prevede il “primo incontro”, benché, come è noto, una parte della giurisprudenza ritenga improprio distinguere una prima fase di “studio” per così dire, da quella dell’inizio di un vero e proprio tentativo di mediazione, e neghi che la nostra previsione di legge possa essere così interpretata.
Credo che proprio questa sia la prospettiva più realistica e più “virtuosa” della mediazione europea, una prospettiva strettamente connessa a quella dello sviluppo di sistemi integrati di risoluzione delle controversie, e che, necessariamente, per questo motivo, richiede ai giudici di svolgere un ruolo decisivo.
Osservando ciò che avviene negli altri Paesi, infatti, si può constatare che, al di là delle differenze esistenti in molti campi, ed in relazione a singoli aspetti della disciplina, come nel caso dei requisiti di formazione dei mediatori e del loro accreditamento, il tema che riveste un’importanza cruciale è infatti costituito dal riferimento al ruolo centrale delreferral giudiziario, vincolante o meno che sia per le parti.
Si tratta di un dato tanto più significativo in quanto prescinde dalla stessa distinzione tra sistemi di civil law e di common law, come dimostra l’esperienza dell’Inghilterra, dove, sia pure dopo un serrato dibattito, si sono sviluppate, in alcune Corti, competenti per materie e ritenute particolarmente adatte allo scopo (come la Tcc, l’Employment Tribunal e le Family Courts) esperienze di mandatory consideration to mediation.
La funzione del referralgiudiziario non sembra peraltro da ritenere collegata solo alla sua pure importante efficacia legittimante data dall’intervento del giudice, in relazione ad uno strumento altrimenti poco conosciuto dal cittadino e poco valutato da gran parte dell’avvocatura, in termini di affidabilità ed utilità, ma è destinata ad avere un’efficacia significativa sullo stesso successo della mediazione, che, anche partendo dal punto di vista puramente quantitativo, deve essere misurato dal numero degli accordi raggiunti in relazione alle mediazioni realmente iniziate e non dal numero delle istanze, a prescindere quindi dalle mediazioni realmente svoltesi.
L’ordine del giudice, basato su una valutazione concreta del singolo caso, e quindi su una selezione in concreto, appare destinato ad ottenere risultati migliori, rispetto ad una forma di obbligatorietà generalizzata, ed in ogni caso ad essere accettato più facilmente, come uno sviluppo fisiologico dello stesso procedimento giudiziario, e non come un’alternativa in senso stretto.
Ma questa connotazione integrativa della mediazione potrebbe condurre, come qualche esperienza europea e non solo europea lascia ipotizzare, anche ad uno sviluppo ulteriore, nel senso di una integrazione interna allo stesso procedimento, ai fini della decisione, che potrà combinare una valutazione consultiva del Giudice, come nella “proposta” prevista dall’articolo 185-bis del nostro cpc, o nell’assessment praticato dal giudice inglese in alcune Corti, con l’invio delle parti in mediazione, o potrà anche combinare la decisione con sentenza su alcune questioni con la risoluzione in Adr, con la mediazione o l’arbitrato, su altre.
Sono scenari tutt’altro che fantascientifici ed in parte già in corso di sviluppo, e non riguardano solo la mediazione, ma, più in generale, una nuova modulazione della risposta giudiziaria al contenzioso, una tendenza che si fonda su esigenze oggettive, e che, seppure destinata a manifestarsi in modo differenziato nei vari Paesi, non potrà comunque essere ignorata.