Corte costituzionale e sovranità
L’Autore nel disegnare il percorso del mutamento subito dal diritto internazionale, attraverso le pronunce delle Corti internazionali e nelle decisioni della nostra Corte di cassazione, ripercorre le tracce della “rivoluzione mondiale†identificata nel passaggio dalla sovranità degli Stati alla ‘‘sovranita dei valori’’ e, considerata la sentenza della Corte internazionale sui crimini nazisti una battuta di arresto, iscrive invece nel sentiero principale la pronuncia n. 238/2014 della Corte costituzionale.
1. Una “rivoluzione mondiale”
Nel 1947, Vittorio Emanuele Orlando, ponendosi dal punto di vista del giurista di fronte alle novità intervenute negli assetti planetari e nelle relative regole, non esitava a parlare di “rivoluzione mondiale” ed a chiedersi se una tale rivoluzione avrebbe messo capo ad un unico Stato dominante ovvero ad una rete o associazione di Stati[1]. Quale che sia la risposta che oggi si ritenga di dare ad un tale interrogativo[2], l’intuizione racchiusa nella formula “rivoluzione mondiale” si conferma, a distanza di oltre mezzo secolo, incontestabilmente esatta nel suo nucleo essenziale: i mutamenti istituzionali e culturali portati dalla conclusione del secondo conflitto mondiale hanno inciso in profondità sul paradigma stesso del diritto, oltre che sugli assetti di potere e nell’immaginario collettivo.
È, infatti, affermazione oggi autorevolmente sostenuta, anche se non universalmente accettata, che, con la Carta delle Nazioni unite, si sia verificata una rivoluzione copernicana nell’ordinamento internazionale, in quanto di esso sono venuti a far parte, come “ius cogens”, tre valori, tra loro intimamente connessi, costituiti dalla pace, dai diritti umani e dall’autodeterminazione dei popoli[3].Grazie a questa rivoluzione, il paradigma del diritto internazionale ha subito un mutamento: la sovrana eguaglianza degli Stati sul piano internazionale, pur riaffermata dalla Carta delle Nu ( art. 2/1), non consente più allo Stato di comportarsi, come per il passato, senz’alcun altro limite che quelli derivanti dai patti che lo Stato stesso abbia sottoscritto: esso non è più libero di ricorrere alla minaccia o peggio all’impiego della forza nei confronti degli altri Stati; di sottoporre a dominio coloniale altri popoli; d’istituire un regime razzista o d’apartheid; di violare i diritti fondamentali della persona umana, sia questa un cittadino o uno straniero.
2. Il mascheramento del processo
Cade qui acconcia una digressione che può aiutare a comprendere come, per alcuni decenni, la cultura giuridica, e quella dei giudici in particolare, non abbiano colto le novità che si andavano accumulando a partire dalla fondamentale rottura del 1945.
Se si guarda, infatti, allo stato del mondo ed al sentire dell’opinione pubblica internazionale, oltre che alle elaborazioni in senso lato culturali (ivi comprese quelle giuridiche e le idee che i giuristi si fanno del diritto), dei primi lustri del dopoguerra, sarà giocoforza concludere che i tre valori, che la Carta delle Nazioni unite avrebbe immesso nell’ordinamento giuridico internazionale (ancora presenti all’indomani della guerra nel processo costituente che interessò alcuni grandi Paesi, tra i quali il nostro), siano rimasti, per circa 15-20 anni, per così dire sottotraccia; e, soprattutto, come sia rimasto del tutto in ombra il nesso che li lega.
Forse, l’unico valore veramente sentito nei primi anni che seguirono il 1945 era quello della pace, perché troppo bruciante era stato il vissuto della guerra, delle sue devastazioni, dei suoi orrori; troppo lancinante lo shock determinato dai terribili effetti dell’arma atomica e delle sue, per l’innanzi inimmaginabili, conseguenze. Troppo forte era stato il timore (che quest’arma aveva reso tremendamente concreto) che la guerra avrebbe potuto significare la distruzione totale dei contendenti e la fine della civiltà, del processo d’incivilimento. Ma proprio perché basato su questi fondamenti, il valore della pace era sentito e declinato in forma negativa e impoverita, privo di nessi con gli altri valori: come terrore della guerra e, in particolare, della guerra atomica. La rapida acquisizione dell’arma nucleare da parte dell’Unione sovietica e la guerra fredda offrirono al valore della pace l’angusta e tuttavia, nei suoi limiti, efficace dimensione dell’equilibrio del terrore. Tanto bastò perché le grandi potenze prestassero omaggio ufficiale al principio che vieta l’uso della forza nelle relazioni internazionali e si astenessero dal proclamare il diritto di fare la guerra, che oggi invece capita di sentir proclamare, anche se le guerre si susseguirono fuori dall’Occidente e dai Paesi del blocco dell’Est.
Per quanto riguarda il principio di autodeterminazione e di pari dignità dei popoli, è innegabile che gli imperi coloniali non scomparvero all’indomani del 1945 (la stessa Dichiarazione del 1948, com’è stato osservato, in qualche modo li presuppone) e che, per l’eliminazione di alcuni di questi, furono necessarie guerre sanguinose (Indocina, Algeria, etc.). Solo nel 1960, con la Risoluzione n. 1514, il diritto dei popoli a non essere sottoposti a un regime coloniale, ad un’occupazione straniera o ad un regime di apartheid fu solennemente proclamato e ritenuto parte integrante del cd. ius cogens di diritto internazionale.
Per quanto riguarda infine la Dichiarazione universale, che del valore di ius cogens dei diritti umani dovrebbe rappresentare l’esplicitazione e la sistemazione, nello stesso suo Preambolo si dice che essa rappresenta un ideale cui tutti i popoli devono tendere; il che non implica necessariamente – come pure a lungo è stato ritenuto – che la Dichiarazione non abbia vigore giuridico, ben potendo quella formula – tra l’altro contenuta nel Preambolo, ove nei documenti internazionali si mescolano proposizioni giuridiche e voti politici – esprimere l’auspicio che le norme cogenti di seguito poste potessero acquistare un tale grado di effettività da realizzare l’ideale cui tende la Carta delle Nu e la stessa Dichiarazione.
Comunque, basta rivolgere uno sguardo alla dottrina per trovare, ancora alla metà degli anni sessanta, la (sociologicamente) esatta affermazione che le disposizioni della Dichiarazione «hanno un valore ben più programmatico e morale che specificamente giuridico»[4].
Solo a partire dalla metà degli anni ottanta, anche sulla scorta di pronunce giudiziarie sia della Corte internazionale di giustizia (con l’importante sentenza sul problema degli ostaggi americani in Iran, ove si afferma la tesi che esiste, come parte integrante del diritto internazionale vincolante per tutti, un deposito di principi che si può trarre dalla Dichiarazione universale del 1948,[5]), sia di Corti supreme occidentali (con la storica pronuncia della Corte di cassazione francese, a metà degli anni ottanta, a proposito dell’affare Barbie),[6] si può dire che sia stata accettata l’opinione che, almeno per una serie di disposizioni relative a diritti fondamentali, le norme della Dichiarazione facciano parte del diritto internazionale generale come diritto consuetudinario in cui tutti i Paesi si riconoscono.
3. I mutamenti nel paradigma del diritto e la parabola della sovranità
Se si guarda oggi al processo aperto dalla Carta delle Nazioni unite, sembra lecito affermare che, malgrado gli innumerevoli fattori di crisi con i quali il paradigma di diritto internazionale disegnato nella Carta ha dovuto confrontarsi, quel paradigma risulta oggi ampiamente confortato, non soltanto dalla messe di strumenti internazionali frattanto intervenuti in attuazione della Carta ma, anche dalla cultura dei giuristi. Ciò fonda l’affermazione di Luigi Ferrajoli secondo cui «quel contratto sociale internazionale, storico e non metaforico, che» con gli strumenti già ricordati «viene stipulato, pone. termine al vecchio modello delle relazioni internazionali basato su trattati bilaterali che si era affermato tre secoli prima, con la pace di Westfalia… E vale ad assoggettare tutti gli Stati, quale pactum subiectionis e non solo associationis, ad un ordinamento sopranazionale la cui ragione sociale può ben identificarsi con la garanzia universale della pace e dei diritti umani»[7].
Ovviamente, l’Autore di queste impegnative affermazioni è ben consapevole della crisi di effettività che corrode il patto e che rischia di oltrepassare quei livelli d’ineffettività fisiologici, propri di ogni ordinamento e segnatamente di ordinamenti complessi ispirati al paradigma della democrazia costituzionale: ma tale crisi di effettività – Egli avverte – sino a quando non sia superato il punto di rottura, non dispensa il giurista dal ricostruire il nuovo paradigma del diritto imposto dall’avvento, sul piano interno, dello Stato costituzionale di diritto e, sul piano internazionale, del «contratto sociale internazionale».
Questo doppio mutamento di paradigma si realizza, per il nostro Paese, simultaneamente, all’indomani della seconda guerra mondiale, attraverso, da un lato, l’adozione di una Costituzione rigida e, dall’altro, la soggezione dello Stato ad un ordinamento sopranazionale inteso alla protezione dei tre valori dei quali sopra si è detto.
L’uno e l’altro mutamento producono un’erosione della sovranità: sul piano interno, il sovrano, e cioè nelle democrazie il popolo, non dispone più, nel porre le leggi, di una libertà illimitata poiché deve rispettare i limiti e i vincoli posti dalla Costituzione, segnatamente a tutela dei diritti fondamentali della persona; ma neanche sul piano esterno, ove nel XIX secolo e nei primi decenni del XX si riteneva che lo Stato – pur vincolato al proprio interno al rispetto dei diritti umani – godesse di una libertà assoluta, l’agire dello Stato risulta libero da vincoli. Una categoria fondativa della modernità giuridica, la sovranità, nel cui ambito si radicano storicamente acquisizioni democratiche fondamentali come la sovranità popolare e grazie alla quale il diritto ha potuto affrancarsi dalla teologia ed il positivismo giuridico ha potuto celebrare i propri fasti, entra così in crisi. Ciò determina problemi teorici inediti e alimenta divisioni profonde tra i giuristi[8] .
4. Il giudice italiano e la “rivoluzione mondiale”
Per i giudici italiani, in particolare della Corte di cassazione, il mutamento di paradigma introdotto dalla “rivoluzione mondiale” sembra definitivamente acquisito solo qualche anno dopo l’inizio di questo secolo. Illuminante al riguardo può essere il raffronto tra due pronunce delle sezioni unite civili della Corte, succedutesi a distanza di pochi anni l’una dall’altra: nell’ordinanza 5 giugno 2002 n. 8157, infatti, le sezioni unite affermavano che gli atti compiuti dallo Stato nella conduzione di ostilità belliche si sottraggono ad ogni sindacato giurisdizionale, costituendo espressione di una funzione di “indirizzo politico”, rispetto alla quale «non è configurabile una situazione d’interesse protetta a che gli atti in cui tale funzione si manifesta assumano o meno un determinato contenuto». In applicazione di tale principio, le sezioni unite dichiaravano il difetto di giurisdizione in ordine ad una domanda di danni avanzata nei confronti dello Stato italiano per la morte di alcuni civili a seguito del bombardamento aereo dell’edificio della televisione jugoslava, da parte di aerei della Nato, il 23 aprile 1999. In altre parole: a fronte della conduzione della guerra, i diritti fondamentali della persona, pur se dichiarati inviolabili, degradano ad interessi di mero fatto, senza che sia neanche necessario indagare se la guerra della cui conduzione si tratta sia o meno di difesa e se la conduzione della guerra sia stata o meno rispettosa delle norme dello ius in bello. Peraltro, a meno di due anni di distanza da tale pronuncia, le stesse sezioni unite civili, chiamate a pronunciarsi su un ricorso proposto – da cittadino italiano, che richiedeva alla Repubblica federale tedesca il risarcimento dei danni subiti a seguito di deportazione e adibizione a lavori forzati nel corso della seconda guerra mondiale – avverso sentenza della corte d’appello che, confermando la pronuncia di primo grado, aveva negato la giurisdizione, accoglievano il ricorso ed affermavano la giurisdizione sulla domanda. In motivazione, questa seconda pronuncia delle sezioni unite si confronta esplicitamente con le argomentazioni della precedente ordinanza rilevando, «da un lato, che l’insindacabilità delle modalità di svolgimento delle attività di suprema direzione della cosa pubblica non è d’ostacolo all’accertamento degli eventuali reati commessi nel corso del loro esercizio, e delle conseguenti responsabilità sia sul piano penale che su quello civile; dall’altro, che, in forza del principio di adattamento sancito dall’art. 10 primo comma della nostra Carta costituzionale, le norme di diritto internazionale “generalmente riconosciute” che tutelano la dignità e la libertà della persona umana come valori fondamentali e configurano come “crimini internazionali” i comportamenti che più gravemente attentano all’integrità di tali valori, sono divenute “automaticamente” parte integrante del nostro ordinamento e sono pertanto pienamente idonee ad assumere il ruolo di parametro dell’ingiustizia del danno causato da un fatto doloso o colposo altrui». La sentenza prosegue, ad ulteriore sostegno del proprio assunto, con un’ampia ricognizione dei tratti distintivi della “rivoluzione mondiale”, sulla quale peraltro non è il caso d’indugiare, bastando qui rilevare che, al di là delle innegabili differenze storiche correnti tra le fattispecie oggetto delle due pronunce, ciò che rileva è il diverso approccio al fenomeno guerra, e cioè all’esercizio della sovranità ed al concetto stesso di questa.
L’impostazione di sezioni unite n. 5044/2004 segna una svolta definitiva nella giurisprudenza della Corte di cassazione italiana, come conferma una serie di pronunce emesse nel 2008 (v. per tutte sezioni unite n. 14202/2008) su altrettanti regolamenti di giurisdizione sollevati in cause civili intentate contro il governo tedesco da lavoratori (o loro eredi ) deportati durante il secondo conflitto mondiale.
In tali sentenze, le sezioni unite riprendono il nucleo essenziale della sentenza n. 5044 del 2004, disattendendo tutti gli argomenti portati dal governo tedesco con argomentazioni fondate anche sui testi fondativi della comunità internazionale quale regolata dopo il 1945 (Statuto Nu; Accordo di Londra sul tribunale di Norimberga; risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nu; Statuto corte penale internazionale).
Le sezioni unite, riprendendo e facendo proprio il nucleo di sez. un. n. 5044 del 2004, lucidamente confermano il principio della sovrana eguaglianza degli Stati, che fonda l’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione civile per gli atti dal medesimo compiuti iure imperii (tra i quali innegabilmente rientrano anche quelli relativi alla conduzione delle attività belliche), ma ne affermano la coesistenza con altro parallelo principio di portata generale per cui i crimini internazionali «minacciano l’umanità intera e minano le fondamenta stesse della coesistenza dei popoli». Rilevano, poi, l’antinomia tra i due principi — i quali risultano entrambi recepiti dal nostro ordinamento per effetto dell’art. 10 della Costituzione — e affermano che tale antinomia non può altrimenti risolversi che sul piano sistematico dando la prevalenza al principio di rango più elevato. Per concludere — nell’esplicitata consapevolezza di contribuire «all’emersione di una regola conformativa dell’immunità dello stato estero» sulla scia di sez. un. n. 5044 del 2004, che «il rispetto dei diritti inviolabili della persona ha assunto, anche nell’ordinamento internazionale, il ruolo di principio fondamentale, per il suo contenuto assiologico di meta-valore», si da prevalere su ogni altro principio o regola.
Dunque, le più recenti e mature elaborazioni della giurisprudenza della Corte di cassazione italiana, sembrano giustificare l’affermazione che il ‘‘sovrano’’ cede il passo alla ‘‘sovranità dei valori’’[9].
5. Una battuta d’arresto?
La tormentata vicenda dei rapporti tra giurisdizione e guerra e, più in generale, tra “sovranità dei valori” e “sovranità degli Stati” non ha tuttavia raggiunto, con la giurisprudenza inaugurata da sez. un., n. 5044 del 2004, il suo approdo definitivo nel nostro ordinamento, ad onta del fatto che tale giurisprudenza sia stata sempre confermata, come si è visto, dalle pronunce successive e risulti ripresa e fatta propria anche dalla cassazione penale[10] che ha rigettato il ricorso proposto dalla Repubblica federale di Germania avverso la sentenza di App. mil. Roma, 18 dicembre 2007, Milde (che l’aveva condannata, quale responsabile civile, nel processo a carico del responsabile delle stragi di Civitella, Cornia e S.Pancrazio del 29 giugno 1944, al risarcimento dei danni subiti dalle parti civili).
In effetti, la Repubblica federale di Germania adiva, il 23 dicembre 2008, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja (Cig), chiedendo fosse accertato che l’Italia, attraverso le pronunce dei propri organi giurisdizionali nella materia in esame, aveva violato la norma di diritto internazionale relativa all’immunità degli Stati stranieri. Con decisione del 3 febbraio 2012, la Cig dichiarava l’Italia responsabile di violazione dell’obbligo di rispetto dell’immunità riconosciuta allo Stato tedesco dal diritto internazionale, per aver consentito che, nei confronti dello stesso, avessero corso delle azioni civili fondate sulla violazione del diritto umanitario, e dichiarava la Repubblica italiana tenuta, attraverso la promulgazione di apposita legge o in qualsiasi altro modo, a privare d’effetto le decisioni dei propri organi giurisdizionali che violino l’immunità della Repubblica tedesca.
Non è questa la sede per ripercorrere le diffuse argomentazioni della Cig[11]. Ci si limiterà ad alcuni essenziali rilievi: il primo è che il ‘‘processo rivoluzionario”, avviato con la Carta dell’Onu ed i processi di Norimberga e Tokio, subisce con questa pronuncia una battuta d’arresto. Non a caso nei primi commenti, citati alla nota n. 11, l’espressione «occasione mancata» è ricorrente. Ma in un faticoso e tormentato processo di ridimensionamento di regole secolari, relative ai rapporti tra gli Stati, e di conformazione di tali regole ai nuovi valori sui quali la comunità internazionale si è solennemente impegnata a fondare la propria convivenza, una «occasione mancata» equivale ad un passo indietro, che non arresta il processo ma lo rende più difficile e faticoso. Soprattutto quando il “passo indietro” riguarda una categoria fondamentale del vecchio ordine, la sovranità, ed il suo rapporto con una categoria fondamentale del nuovo ordine: i diritti fondamentali della persona umana.
Ed a tal ultimo proposito, cade acconcio il secondo rilievo: la Cig ha concentrato il proprio esame, essenzialmente, sulla rassegna della giurisprudenza delle Corti nazionali per escludere l’esistenza di una regola di attenuazione dell’immunità, ma ha evitato di affrontare il nodo, lucidamente messo in luce dalla giurisprudenza delle nostre sezioni unite civili, rappresentato dalla coesistenza nel diritto internazionale generale di due valori antinomici e dalla conseguente necessità, ai fini della correttezza del procedimento logico-interpretativo, di sciogliere tale antinomia dando la prevalenza al valore di rango più elevato. Per evitare tale scoglio, essa — pur senza negare il valore dei diritti fondamentali o affermare che esso cede di fronte al valore della sovranità statuale — ha adottato un espediente consistente nell’affermare che «la questione dell’immunità, essendo di carattere procedurale e preliminare, dev’esser tenuta del tutto distinta dal merito della controversia rispetto alla quale il problema dell’immunità si pone», per tale via oscurando la distinzione — tra individuazione della materia del contendere, ai fini della giurisdizione, e merito — senza la quale non sarebbe possibile nemmeno distinguere gli atti iure imperii da quelli iure gestionis.
6.Il travaglio dei giudici italiani
La sentenza della Cig non può non incidere sulle acquisizioni raggiunte dai giudici italiani a proposito dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione. Ed infatti, le sezioni unite civili della cassazione, investite, pochi mesi dopo, di un regolamento di giurisdizione in una causa di risarcimento danni, intentata da erede di una vittima delle Fosse Ardeatine contro la Repubblica federale tedesca, «pur esprimendo perplessità sulle argomentazioni adottate dalla Corte internazionale di giustizia…, hanno ritenuto che la tesi inaugurata da Cass. n.5044/2004… non è stata convalidata dalla comunità internazionale, di cui la Corte internazionale di giustizia è massima espressione» (così la motivazione della pronuncia) ed hanno di conseguenza dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione sulla domanda. Sempre in motivazione e ad ulteriore conferma della decisione, le stesse sezioni unite non mancavano di rilevare che, tra la data di deliberazione della decisione (20.11.2012) e quella della stesura della motivazione (la decisione risulta pubblicata il 21.2.2013), era intervenuta la legge 14 gennaio 2013 n. 5 il cui art. 3 imponeva, nel caso di specie, di dichiarare il difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del processo. Pochi mesi dopo, tale ultima disposizione era posta, come unica ratio decidendi, a fondamento di altra pronuncia delle sezioni unite che ribadiva il difetto assoluto di giurisdizione dello Stato italiano in causa intentata contro la Repubblica federale tedesca da vittima di deportazione subita nel 1944.(sez. un. n. 1136/2014).
Il tenore delle decisioni sopra ricordate pareva tale da far considerare chiusa, per un non trascurabile lasso di tempo, la questione. E tuttavia, nello stesso periodo di tempo segnato da quelle decisioni, la magistratura di merito sollevava questione di costituzionalità sia dell’art. 3 della legge n.5/2013, sia dell’art. 1 della legge n. 848/1957 nella parte in cui obbliga il giudice nazionale ad adeguarsi alla pronuncia della Cig, sia della norma «prodotta nel nostro ordinamento mediante il recepimento» della consuetudine internazionale accertata dalla Cig nella sentenza del 3.2.2012, nella parte in cui nega la giurisdizione, nelle azioni risarcitorie per danni da crimini di guerra commessi, almeno in parte nello Stato del giudice adito, iure imperii dal Terzo Reich (cfr. Trib. Firenze, ordinanze nn. 83, 84 e 113 del 2014, nonché ordinanza n. 235 del 29.1. 2014).
Con sentenza del 22.10.2014 (Pres. ed est. Tesauro) , pubblicata in Gazzetta ufficiale il 29 ottobre successivo, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale sia dell’art. 1 l. n. 848/1957 nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Cig del 3.2.2012, che gli impone di negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona; sia dell’art. 3 della legge n.5/2013. Mentre ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale della norma «prodotta nel nostro ordinamento mediante il recepimento, ai sensi dell’art. 10 primo comma Cost.», della norma consuetudinaria di diritto internazionale sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati: in motivazione si chiarisce che il recepimento della norma consuetudinaria in virtù dell’art. 10/1 Cost. avviene solo se tale norma – o per la parte di tale norma che – non contrasti con principi fondamentali della Costituzione e i diritti inviolabili dalla stessa garantiti, con la conseguenza inevitabile che, nella parte confliggente con detti principi e diritti (come, nella specie, la parte che nega la giurisdizione nelle azioni risarcitorie per danni provocati da crimini di guerra o contro l’umanità), la norma non entra nell’ordinamento e non v’è luogo dunque a pronunciarsi su di essa.
7. Un contributo all’emersione di una regola “conformativa” dell’immunità?
Come osserva E. Lamarque in questo stesso numero di Questione Giustizia, la sentenza della Corte costituzionale «ha fatto letteralmente il giro del mondo» ed ha sollevato critiche e commenti, destinati a moltiplicarsi ed articolarsi. La stessa autrice, del resto, non risparmia critiche alla decisione e giudica probabile che «i clamorosi difetti di rigidità» della pronuncia possano essere emendati in futuro dai giudici ordinari o dalla stessa Corte costituzionale e – in quest’ultimo caso – vede possibile una risposta positiva all’interrogativo che dà il titolo a questo paragrafo.
Mi riesce difficile pronunciarmi su tale previsione.
Più diffuse e puntuali le critiche rivolte alla sentenza, sempre in questo numero, da M. Luciani.
Ad alcune di esse vorrei riservare qualche breve considerazione, cominciando da quella che riguarda l’oggetto del controllo di costituzionalità, che – secondo Luciani – presuppone un atto normativo, ossia una legge o un decreto-legge. I dati testuali confermano tale assunto, tuttavia a me sembra che, a fronte dell’alternativa consistente nel lasciare nel nostro ordinamento una norma in contrasto con i principi fondamentali dello stesso, il superamento del dato letterale sia preferibile e giustificato. Né il rilievo che la consuetudine internazionale non appartenga al nostro ordinamento mi pare cogliere nel segno, posto che lo scrutinio riguarda – secondo l’originale impostazione della Corte – la consuetudine ai fini della determinazione del contenuto normativo cui dare ingresso nel nostro ordinamento: si tratterebbe, cioè, di un controllo volto a stabilire se quella consuetudine e quanto di essa possa entrare a far parte dell’ordinamento giuridico italiano: un controllo di frontiera, potrebbe dirsi. Ma se così è, il problema è se la Costituzione assegni un siffatto compito alla Corte costituzionale. Ed è su questa originale costruzione che s’innesta un ulteriore e, a mio avviso, ancora più intricato problema: un tale controllo “frontaliero” può risolversi negativamente (come nel caso in esame) ed in tale ipotesi la questione si rivelerà infondata (come, ancora, nel caso in esame) ovvero si risolve positivamente ed anche in tal caso la questione dovrà essere dichiarata infondata: v’è allora da chiedersi se sia ammissibile una questione di costituzionalità destinata in ogni caso ad esser dichiarata infondata.
Tralascio le ulteriori critiche di Luciani, tutte segnate a mio avviso da una forte sottovalutazione del rilevo che assume anche sul piano del diritto internazionale il valore della persona e della sua dignità, e concludo osservando che l’emersione di una regola conformativa dell’immunità in tanto sarà possibile in quanto la difesa della persona e dei suoi diritti fondamentali sia avvertita non come difesa di un orizzonte statale, id est particolaristico, quanto piuttosto come difesa di una preziosa acquisizione di valore comune da parte di ciascun popolo e ciascun ordinamento, idonea a consentire il passaggio dalla antica sovranità degli Stati (superiorem non recognoscentes) alla ben diversa sovranità di ciascuna persona intesa come inviolabilità – da parte di chiunque – dei suoi diritti fondamentali.
[1] V.E Orlando, La rivoluzione mondiale ed il diritto, in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi Rossi, Giuffré, Milano 1952, pp- 777/778.
[2] Secondo S. Cassese, Universalità del diritto, Editoriale Scientifica, Napoli 2005, p. 37, L’interrogativo «ha trovato una risposta ambigua: ci sono al tempo stesso globalizzazione e americanizzazione».
[3] V. al riguardo, tra le opere più recenti, L. Ferrajoli, Principia iuris, vol 2, Teoria della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 486 e ss., ove si dà conto anche della letteratura sul tema.
[4] G. Sperduti, voce Diritti Umani, in Enciclopedia del diritto, Giuffré, Milano 1964.
[5] La sentenza può leggersi in Recueil des arrêts de la Cour internationale de Justice, 1980,42 ss.
[6] Corte di cassazione criminale francese 20.12.1985, Imputato Barbie, in JPC, 1986, II, 20655.
[7] L. Ferrajoli, op. cit. loc. cit., 491.
[8] V. per tutti, come espressioni rigorosamente argomentate delle opposte posizioni, M. Luciani, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Riv. Dir. Cost., n.1/1996, 124 ss.; Id. Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giur. Cost., 2006, 1643 e ss.; G. Silvestri, La parabola della sovranità. Ascesa declino e trasfigurazione di un concetto, in Riv. Dir. Cost., n.1/1996, 3 e ss.; Id., Verso uno ius commune europeo dei diritti fondamentali, in Quaderni costituzionali, n. 1/2006, 7 e ss.
[9] L’espressione è di G. Silvestri, La parabola della sovranità, cit., 70.
[10] Cass. sez. I, 21.ottobre 2008, n.1072, Repubblica federale di Germania e Milde.
[11] Sulla quale i primi commenti da parte di giuristi, apparsi sulla grande stampa, sono stati critici: cfr. V. Zagrebelsky, L’occasione perduta, su la Stampa, 4 febbraio 2012; F. Pocar, La sentenza dell’Aja non convince, su Il Sole 24 ore, 5 febbraio 2012. Così come sono stati critici i commenti degli internazionalisti: cfr. B. Conforti, The judgement of International Court of justice on the immunity of foreign States: a missed opportunity, in The Italian Yearbook of International law, vol. XXI, 2011; G. Turatto, Riflessioni in margine alla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012 sulle immunità giurisdizionali degli Stati, Roma, ed. ANRP, 2012.