Essere arbitro: le sfide di un ruolo in crescita
Muovendo dall’assunto che il ruolo di arbitro sia in crescita, l’articolo ne analizza alcuni profili problematici, costituenti vere sfide per chi intende misurarsi con questa funzione: ragionevolezza dei costi, competenza e serietà , deontologia, indipendenza dalla parte che ha effettuato la nomina.
1. Il titolo assegnatomi per questo breve contributo, che volentieri redigo on demand, dà per scontato che il ruolo di arbitro sia “in crescita”; e che dunque sia in crescita lo spazio che l’arbitrato occupa nel panorama della giurisdizione. Ma non diamo nulla per pregiudizialmente scontato; e dunque in via preliminare domandiamoci: siamo sicuri che sia così? e se è così, in che senso lo è?
Ci si può interrogare prima di tutto se sia così sul piano empirico: nella complessiva realtà effettuale delle liti affidate alla giurisdizione, la tendenza è verso più arbitrati o verso meno arbitrati? Nell’indisponibilità (non so se in generale, certamente per quanto mi riguarda) di statistiche complete e affidabili, rivolgiamoci a un osservatorio che può considerarsi abbastanza significativo ancorché rappresentati un campione limitato: la Camera arbitrale di Milano, senza dubbio la maggiore istituzione dedita ad amministrare arbitrati nel nostro paese.
Ebbene, i dati della Camera parlano di una tendenza all’aumento - non travolgente, ma neppure insignificante – del numero degli arbitrati aperti di anno in anno: stabile intorno al centinaio nella prima parte degli anni 2000 (95 nel 2003, 105 nel 2004, 99 nel 2005, 102 nel 2006, 99 nel 2007), questo numero prende a salire nel 2008 (118 nuovi arbitrati) per poi accentuare notevolmente il suo trend di crescita (153 nel 2009, 129 nel 2010, 130 nel 2011, 138 nel 2012) e toccare il suo picco nel 2013 – ultimo anno disponibile, non essendo ancora elaborato il consuntivo del 2014 – con 167 nuovi arbitrati.
E sul piano normativo? Ovvero: nelle scelte del legislatore di questi ultimi anni si legge un atteggiamento di favor o piuttosto di distacco e cautela, se non di sospetto e avversione, verso questo strumento di definizione delle controversie? I segnali vanno in direzione tendenzialmente positiva.
Per cominciare, la riforma del 2006 (Dlgs n. 20/2006) ha senza dubbio rinvigorito il meccanismo arbitrale: ampliando l’area della sua possibile operatività, garantendo una maggiore forza e stabilità dei suoi risultati. È vero che in un settore specifico ma molto rilevante, come quello delle controversie di cui sia parte una pubblica amministrazione, negli anni scorsi si sono registrate, per una certa fase, tendenze limitative o addirittura preclusive del ricorso alla giustizia arbitrale: ma le tendenze sono ben presto rientrate, in pro del riconoscimento di una generale praticabilità dell’arbitrato anche in quell’ambito.
E alla fine dell’anno scorso un segno ancora più forte viene dal decreto legge n. 132/2014, convertito nella legge n. 162/2014, con la previsione di una generalizzata possibilità di translatio dei processi pendenti dai giudici ordinari, originariamente aditi, ad arbitri. È chiaro che il senso del provvedimento va ravvisato non tanto in una qualche ritenuta superiorità della giustizia arbitrale su quella togata, quanto - per chiara indicazione del suo stesso titolo: «Misure urgenti… per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile»- nell’ennesimo disperato escamotage con cui ci si studia (o ci si illude) di decongestionare i ruoli della giustizia ordinaria: i collegi arbitrali come novelle “sezioni stralcio”! E tuttavia la norma (quale ne sia la ratio congiunturale, quali ne siano le prospettive di reale successo) obiettivamente suona valorizzazione e incentivazione dell’arbitrato come sede privilegiata di risoluzione delle controversie civili.
2. Acquisito che il ruolo di arbitro può effettivamente considerarsi un ruolo in crescita, quali sfide attendono dunque chi aspiri a giocarlo da protagonista?
La metto in negativo. Le sfide consistono essenzialmente nel superare tutta una serie di abiti mentali e soprattutto di atteggiamenti pratici, che in base alla mia esperienza caratterizzano spesso, magari in modo inconsapevole, l’attività di arbitro.
Esse si collocano su diversi terreni, e mi sembra di poterne indicare tre: il terreno della ragionevolezza economica; il terreno della serietà professionale; il terreno della correttezza deontologica.
3. Trovo che non di rado gli arbitri autodeterminino i propri compensi a livelli esagerati, eccedenti ogni ragionevole proporzione con la quantità e la qualità dell’impegno profuso nella funzione, e non giustificabili neppure con il valore per avventura molto ingente della controversia.
Questo non va bene: perché da un lato disincentiva il più ampio ricorso allo strumento arbitrale, e dall’altro tende a confinarlo in un’area di privilegio economico facendone – in contrasto con il principio di equal access to justice – un lusso che solo pochi selezionati litiganti possono permettersi. In breve: fa dell’arbitrato un mezzo di giustizia poco popolare, e molto elitario.
Né sembra avere gran pregio il modo in cui gli arbitri talora provano a giustificare questa prassi di onorari “stellari” (specie ove chiesti per buona porzione già in limine litis, a titolo di acconto): quando, chiusi in camera di consiglio, si dicono fra loro che sparare in anticipo una richiesta economica “impressionante” ha un benefico effetto di deterrenza, capace di disincentivare le parti dal proseguire la lite, e indurle a una conciliazione che eviti loro ulteriori e più ingenti esborsi.
In questa prospettiva, trovo apprezzabile il calmiere introdotto dalla nuova tariffa professionale forense (Dm Giustizia n. 55/2014), che fissa i parametri per il calcolo degli onorari arbitrali su livelli che, soprattutto per gli arbitrati di valore economico molto alto, risultano più moderati di quelli della tariffa previgente. È vero che quei parametri non hanno valore cogente, operando solo quali criteri per la liquidazione giudiziale dei compensi in mancanza di diverso patto fra gli interessati, liberi di derogarvi; ma sono pur sempre una guideline molto significativa.
4. Sul terreno della serietà professionale, la sfida degli arbitri è offrire un servizio adeguato alle parti che quel servizio sono chiamate a pagare. Questo significa essenzialmente: operare in modo che la procedura (non solo garantisca un lodo giusto, ma ancor prima, e a prescindere dai contenuti della decisione) si svolga con il massimo di economicità in termini sia di tempo sia di risorse.
Nella mia esperienza registro che talora questi obiettivi sono pregiudicati da una certa “pigrizia” degli arbitri.
Una situazione ideal-tipica in cui un siffatto non commendevole atteggiamento può emergere (e che più di una volta, nella mia pratica arbitrale, ho visto emergere) è quella in cui l’attore in responsabilità chiede un risarcimento per la cui liquidazione fa istanza di Ctu a supporto del quantum esposto, mentre il convenuto oppone eccezioni tese a negare la propria responsabilità e il diritto di controparte ad alcun risarcimento. Una regola ovvia di razionalità ed economicità del giudizio imporrebbe che prima di disporre Ctu per il quantum almeno si delibi la fondatezza nell’an della pretesa azionata: ma ciò implicherebbe accollarsi da subito il peso del decidere, e a tal fine affrontare da subito il peso di studiare le carte dell’arbitrato, spesso così voluminose e complesse. Arbitri non del tutto solerti preferiscono magari allontanare per intanto da sé questi pesi, spostandoli per quanto possibile in avanti. Il mezzo di questo differimento è a portata di mano: si dispone la Ctu ancorché “al buio”, per lucrare i mesi della sua durata come “tempo morto” nel quale –mentre il consulente di ufficio lavora – gli arbitri possono esonerarsi da pensare all’arbitrato.
Con evidenti rischi di pregiudizio per gli obiettivi di rapidità ed economicità della procedura arbitrale. Perché solo ex post - dopo che finalmente gli arbitri avranno studiato i fondamenti del diritto fatto valere dall’attore e le eccezioni sollevate a contrasto dal convenuto, e si saranno così fatti un’idea circa l’an della pretesa azionata – si saprà se la Ctu nel frattempo espletata risulterà utile o inutile.
Se gli arbitri accerteranno che la pretesa è fondata nell’an, la scommessa della Ctu disposta al buio risulterà vinta, perché i tempi e i costi della stessa avranno utilità. Ma se al contrario si constaterà che qualche eccezione del convenuto (il cui approfondimento si è preferito rinviare) merita accoglimento e annichilisce la pretesa risarcitoria, ecco che la Ctu si rivelerà un esercizio futile, e la relativa scommessa sarà persa: con posta, però, a carico non degli arbitri ma delle parti, che subiranno tempi di decisione inutilmente più lunghi e costi del giudizio (il compenso del consulente d’ufficio e dei consulenti di parte) inutilmente più gravosi del necessario.
Con un rischio ulteriore e ancora più grave: introdurre un fattore di “pre-giudizio” - e quindi di distorsione del giudizio –, suscettibile di propiziare una decisione ingiusta.
Constatata ex post (per la finalmente accertata infondatezza dell’an della pretesa) l’inutilità della Ctu precedentemente disposta al buio sul quantum, gli arbitri si accorgono di avere perso la scommessa (a carico delle parti, come si è detto), e si sentono comprensibilmente imbarazzati. È possibile, forse è anche umano, che cerchino in qualche modo di non apparire, agli occhi delle parti, come professionisti che poco professionalmente hanno loro inflitto tempi e costi ingiustificati. Come? Il modo più semplice per legittimare una Ctu sul quantum che per la sua inutilità non si sarebbe dovuta disporre è accogliere (almeno in qualche misura) una pretesa risarcitoria che si sarebbe dovuta respingere per infondatezza nell’an.
Per giustificare una decisione istruttoria (prematura e poi rivelatasi) sbagliata – o meglio, per mascherarne l’incongruità - si rende una decisione ingiusta nel merito. Cosa c’è di peggio, dal punto di vista della serietà professionale?
Sempre sul terreno della serietà professionale, poi, è del tutto evidente come sia da stigmatizzare il costume – cui talora indulgono alcuni presidenti di collegio arbitrale, vuoi perché pigri vuoi perché troppo indaffarati – di non scrivere personalmente il lodo, delegandone occultamente la stesura a qualche collaboratore (spesso coincidente con il segretario della procedura).
5. La terza sfida – la più delicata e cruciale – si misura sul terreno della correttezza deontogica, e può riassumersi in una sola parola: indipendenza dell’arbitro.
L’indipendenza dell’arbitro prende rilievo già nel momento in cui egli riceve la nomina e decide se accettarla o meno. Non deve accettarla, se sussistono fattori che pregiudichino la sua indipendenza dalle parti: in concreto, fattori (esterni al merito della controversia) che lo portino a essere più vicino alle ragioni e agli interessi di una parte che a quelli dell’altra. E infatti la formula corretta è: «arbitro designato dalla parte». Non è appropriato dire «arbitro di parte» se non mettendo “di parte” fra virgolette (come nel seguito si farà), a indicare che si tratta di formula non rigorosa, che si usa solo per comodo di brevità.
Per identificare le ragioni di pregiudizio all’indipendenza dell’arbitro non c’è bisogno di lavorare troppo di fantasia: sono fattori codificati dall’ordinamento, che ha provveduto a definirli via via in un crescendo di rigore.
Il rigore si è progressivamente accentuato a livello legislativo, con il variare della norma sulle cause di ricusazione dell’arbitro (che riflettono specularmente le cause in presenza delle quali l’arbitro dovrebbe astenersi dall’accettare la nomina): il vecchio art. 815 cpc rinviava pari pari alle cause di astensione/ricusazione del giudice togato (art. 51 cpc); il vigente art. 815 cpc (novellato con la riforma del 2006) si affranca da questa relatio, disegnando i motivi di ricusazione (= astensione) dell’arbitro in modo autonomo, e in termini più ampi di quelli che valgono per il giudice. Significativo nel nuovo testo non è tanto l’elenco delle cause analiticamente tipizzate, quanto la clausola generale del n. 5, che in una logica di atipicità indica adesso come ragione di ricusazione/astensione dell’arbitro tutti i possibili «rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettono l’indipendenza».
Ma se nel quadro dell’ordinamento si considera anche una fonte di soft law come il nuovo recentissimo Codice deontologico forense (approvato dal Consiglio nazionale forense ai sensi della legge n. 247/2012, pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 241 del 16 ottobre 2014 e operativo dal 15 dicembre 2014), si registra un sovrappiù di rigore. L’art. 55.I-II del Codice deontologico non si limita infatti a rinviare alla cause di astensione ex art. 815 cpc, ma ne impone anche un’altra, non contemplata dal codice di rito: l’esistenza di rapporti professionali con una delle parti, intrattenuti nei due anni precedenti o direttamente dal professionista designato arbitro o anche da altro professionista con lui associato. Inoltre «l’avvocato deve comunicare per iscritto alle parti ogni ulteriore circostanza di fatto e ogni rapporto con i difensori che possano incidere sulla sua indipendenza, al fine di ottenere il consenso delle parti stesse all’espletamento dell’incarico».
È evidente che una previsione come quest’ultima suggerisce di guardare con scarsissima simpatia alla pratica dei “giri” arbitrali, entro cui si procede sistematicamente a designazioni “incrociate” o “alternate” o “reciproche” fra colleghi in stretta relazione professionale fra loro, secondo la logica di un implicito sinallagma: quando io mi occupo, da difensore, di una lite da devolvere in arbitrato, designo te arbitro, sul presupposto che quando all’inverso sarai tu a difendere un tuo cliente in una controversia affidata a giudizio arbitrale indicherai come arbitro me…
E allora si può ben dire che la sfida dell’indipendenza, a livello di accettazione dell’incarico arbitrale, è tutto sommato facile da raccogliere e non richiede particolari sforzi di fantasia: basterebbe la ragionevole osservanza delle regole scritte, nero su bianco, negli articoli di legge e nelle norme di deontologia professionale.
6. Ma la sfida dell’indipendenza si misura anche (e soprattutto) a un altro livello: quello che riguarda la condotta dell’arbitro durante lo svolgimento del giudizio arbitrale.
Qui si tratta di cogliere e “gestire” l’insopprimibile ambiguità della funzione di arbitro: che da un lato è funzione di giudicante, come tale vincolato a un dovere di terzietà/indipendenza rispetto alle parti in lite; ma dall’altro condizionato dalla genesi della funzione, che rimonta all’investitura compiuta da una delle parti in lite. E, sulla scorta di questa consapevolezza, si tratta di essere realisti e rigorosi al tempo stesso.
Certo, l’arbitro è un giudice, tenuto per questo all’imparzialità; ma non può pretendersi che egli dimentichi (perché equivarrebbe a pretendere di fargli dimenticare un dato di realtà) che egli assume quel ruolo perché incaricato da X, in una lite contro Y sulla quale egli giudicherà. E questo dato, se non intacca l’indipendenza dell’arbitro, quanto meno la colora in modo peculiare, e in termini peculiari definisce le modalità della sua condotta.
È in definitiva questione di misura, di soglia.
Realismo impone di considerare normale - e impedisce di ritenere censurabile - che nella valutazione dei termini della controversia l’arbitro sia “naturalmente” più sensibile alle ragioni e agli argomenti fatti valere dalla parte che lo ha designato, piuttosto che a quelli di controparte; e che nelle relative discussioni in camera di consiglio sia “naturalmente” più portato a valorizzare i primi rispetto ai secondi.
Ma rigore impone di fissare limiti appropriati a questo tendenziale favor verso la parte designante: limiti capaci di contenerlo nei confini di un atteggiamento garbatamente sussurrato, impedendogli di diventare presa di posizione urlata con spudoratezza.
Che triste degradazione del proprio ruolo, nella condotta di quegli arbitri che agiscono come veri e propri avvocati difensori della parte che li ha nominati, affiancando o addirittura surrogando i difensori formalmente in mandato! E dimenticandosi di essere, in quel giudizio, pur sempre e primariamente giudici. Un atteggiamento censurabile quando si manifesta nelle discussioni in camera di consiglio; ancora più censurabile quando si spinge a suggerire ai difensori della parte designante strategie e argomenti difensivi, o addirittura a visionare preventivamente le difese, per suggerire integrazioni o ricalibrature.
Per non dire di quegli arbitri che non si fanno scrupolo di rivelare ai difensori della parte designante le dinamiche interne delle camere di consiglio già svolte, e di concertare con essi gli atteggiamenti da tenere – nell’interesse di quella parte – nelle camere di consiglio successive.
Identificare – per evitarle – le condotte arbitrali avverse al valore dell’indipendenza, è qualcosa che interroga primariamente la coscienza etica dell’arbitro. E infatti mentre il sistema abbonda, come si è visto, di norme finalizzate a garantire l’indipendenza dell’arbitro in sede di assunzione dell’incarico, esso si mostra reticente o addirittura silente riguardo ai modi per presidiare l’indipendenza dell’arbitro in sede di svolgimento dell’incarico stesso. Ma penso che per la coscienza etica degli arbitri questo non sia, in definitiva, un esercizio troppo difficile: pur in assenza di puntuali previsioni normative, la soglia che separa il “si può fare” dal “non si deve fare” in questa materia si delinea per lo più con chiarezza e immediatezza, in una sorta di “precomprensione”. Come diceva quel vecchio giudice inglese: «io non saprei definire cosa è un ‘atto immorale’; ma se ne vedo uno lo riconosco subito!».
7. Rispetto agli esempi di malpractice nello svolgimento del ruolo arbitrale stigmatizzati sopra, sarei meno severo con altre pratiche abbastanza diffuse, che pure – a voler essere assolutamente rigorosi – potrebbero considerarsi non del tutto in linea con il ruolo di un giudicante. Alludo alle pratiche per cui alla decisione finale, sancita nel lodo, spesso si arriva percorrendo un itinerario in qualche misura “negoziale” o se si vuole “mediatorio” o perfino “transattivo”.
Mettiamoci intanto dal punto di vista del presidente terzo arbitro, investito del suo ruolo non dalla scelta unilaterale dell’una o dell’altra parte, ma generalmente dalla scelta consensuale dei due arbitri “di parte”. Questa origine esalta la sua posizione di terzietà: ma terzietà non significa totale autoreferenzialità o addirittura solipsismo. È giusto e doveroso che egli si formi in autonomia un’opinione circa il peso e il valore rispettivi delle ragioni fatte valere dalle parti in lite. E tuttavia è anche giusto che questa autonoma opinione egli misuri con le idee e le posizioni portate alla sua attenzione dall’uno e dall’altro dei due arbitri designati dalle parti; anzi, che costruisca la propria posizione a partire da quelle rappresentategli dai due arbitri “di parte”, assumendole tendenzialmente come le linee che definiscono il perimetro della decisione da costruire.
Immaginiamo – con ipotesi certo di scuola, rarissima a presentarsi nella pratica – che i due arbitri “di parte” convergano circa le linee della possibile decisione sulla lite. Ebbene, sarebbe singolare se il terzo arbitro pensasse di disattendere la loro posizione comune insistendo su una propria divergente posizione (che lo farebbe finire, paradossalmente, in minoranza…). Salvi casi estremi e improbabili di sua conclamata impresentabilità, l’adesione del terzo arbitro a siffatta posizione comune non dovrebbe censurarsi come abdicazione pilatesca dal proprio ruolo decisorio, ma al contrario apprezzarsi come ragionevole ed equilibrata interpretazione di quel ruolo.
Ma questa è appunto un’ipotesi di scuola. Quello che normalmente accade nella realtà è che gli arbitri “di parte” prospettino al terzo arbitro posizioni largamente divergenti circa la distribuzione della ragione e del torto fra le parti in lite. Quando è così, naturalmente non va escluso che all’interno del perimetro tracciato da quelle divergenti prospettazioni la posizione del terzo arbitro si definisca in adesione totale alle tesi dell’uno, in totale contrasto con la tesi dell’altro. E questo accadrà – dovrà accadere – quando sia conclamatamente o anche solo ragionevolmente chiaro che tutta la ragione sta da una parte, e tutto il torto dall’altra.
Ma l’esperienza insegna che nel gran numero dei casi la vicenda litigiosa presenta elementi di incertezza e margini di opinabilità, di fronte ai quali l’attribuzione delle ragioni e dei torti è tutt’altro che chiara e semplice. In casi del genere, non trovo scandaloso che il terzo arbitro costruisca la propria – decisiva – posizione anche secondo una logica in qualche senso “compromissoria”. Lo potrà fare decidendo solitariamente in termini che – ferma la sostenibilità tecnica delle soluzioni adottate – assestino la definizione della controversia su una ragionevole e giusta bilancia delle ragioni contrapposte. Ma potrà anche – e ancor meglio – farlo dispiegando in camera di consiglio una sorta di moral suasion verso i suoi colleghi di collegio: ad esempio verificando la disponibilità dell’uno ad abbandonare qualche punto della propria posizione, a fronte della disponibilità dell’altro a “concedere” qualcosa su altri punti, da lui fino a quel momento tenuti fermi. Sempre, naturalmente, sul presupposto che la soluzione di compromesso in tal modo raggiunta sia assolutamente decente sul piano tecnico-giuridico.
Se le cose vanno così, il lodo sarà all’unanimità; e sarà un lodo in qualche modo garantito come “giusto” dal fatto stesso di meritare il consenso di entrambi i confliggenti punti di vista della lite, che i due arbitri “di parte” realisticamente impersonano. Se invece il consenso di tutti in camera di consiglio non si formerà, il lodo sarà a maggioranza; e la sua qualità di lodo “giusto” sarà garantita – nella logica delle decisioni collegiali – dal fatto di riflettere, appunto, l’opinione maggioritaria.
In una siffatta ricerca “transattiva” del consenso sulla decisione finale, non ci trovo niente di male neppure se ci si mette nella prospettiva dei due arbitri “di parte”, che agendo in questo modo non tradiscono nessuna componente della “doppia anima” connaturata alla loro ambigua funzione. Salvano l’anima di mandatari della parte che li ha designati, perché accettano e condividono una decisione comune sul presupposto che si tratti di situazione “accettabile” – nelle circostanze di quel giudizio – per la parte designante. E salvano l’anima di giudici: perché in definitiva concorrono a formare un giudizio che non è “di parte” proprio in quanto scaturisce dall’interazione di punti di vista divergenti, finalmente ridotti a sintesi condivisa.
E del resto: forse che non possono immaginarsi dinamiche simili nelle decisioni degli stessi collegi di giudici togati? È forse così peregrino pensare che la comune decisione finale, unitariamente intestata all’intero Tribunale o all’intera Corte di appello o di cassazione, possa talora (e magari spesso) scaturire da onesti “compromessi” negoziati in camera di consiglio fra i giudici che compongono il collegio, inizialmente portatori di posizioni divaricate?
Non riesco a demonizzare un siffatto modus operandi degli arbitri e degli stessi giudici: non per cinismo, e neanche solo per nudo realismo; bensì perché lo considero un modus operandi in definitiva funzionale (nella misura delle imperfette cose umane) a risultati di giustizia.