I diritti dell’uomo tra utopia e storia.
Perché può essere utile riflettere sulla storia dei diritti dell’uomo?
Con ampi riferimenti storici e letterari, l’Autore fornisce una lettura colta dei diritti dell’uomo, soffermandosi sull’ambivalenza del relativo concetto, tra visione utopica e proclamazioni solenni in dichiarazioni che ne esprimono il carattere universalistico e mirano anche a proteggere l’individuo dallo Stato e, dall’altro lato, interessi realisticamente concreti protetti dall’ordinamento, segnati dal passaggio dai diritti civili e politici a quelli sociali, dai diritti della seconda generazione a quelli della terza, e sottolineando il ruolo svolto dal pensiero italiano nella nascita del moderno linguaggio dei diritti dell’uomo.
La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne costituzioni è la Dichiarazione de’ diritti dell’uomo. Manca alle antiche costituzioni questa solida ed immutabile base.
Francesco Mario Pagano, Progetto di costituzione della Repubblica napoletana del 1799
Nello Sciocchezzaio Flaubert definiva la Storia una disciplina temibile e pericolosa[1]. Amava dirlo con ironia e sarcasmo, sapendo bene che invece proprio la ricostruzione storica prima ancora che i contributi conoscitivi di altre discipline poteva aiutare non poco a chiarire l’oscurità di questioni intricate e concetti polisemici che tanto affascinavano, e ancora affascinano, l’uomo moderno. In questi ultimi anni il tema dei diritti dell’uomo, al centro di un crescente interesse generale non solo in Italia come fonte di legittimità internazionale e di riforme democratiche, sembra infatti appartenere di diritto alla categoria delle questioni in cui la ricostruzione dell’origine di concetti, idee, pratiche culturali e rappresentazioni promette di essere un’utile da bussola: oggi si tratta, infatti, di orientarsi in una selva oscura di interpretazioni e reinterpretazioni di un linguaggio – quello dei diritti, appunto – obiettivamente difficile da padroneggiare anche per i più esperti. Del resto sin dal 1990, nella sua pionieristica opera L’età dei diritti, Norberto Bobbio, dopo aver esplorato e ricostruito parti essenziali di quel linguaggio settecentesco di matrice illuministica tornato prepotentemente sulla scena mondiale con il secondo dopoguerra, era costretto ad ammettere con rammarico i suoi dubbi e le sue perplessità finali scrivendo con l’abituale franchezza: «Nonostante gli innumerevoli tentativi di analisi definitoria, il linguaggio dei diritti resta molto ambiguo, poco rigoroso e spesso usato retoricamente. Nulla vieta che si usi lo stesso termine per indicare i diritti soltanto proclamati in una dichiarazione anche solenne e quelli effettivamente protetti in un ordinamento giuridico ispirato ai principi del costituzionalismo, con giudici imparziali e varie forme di potere esecutivo delle decisioni dei giudici. Ma tra gli uni e gli altri c’è una bella differenza![2]».
Parole chiare, sacrosante, ma inascoltate. La situazione d’incertezza circa l’uso e talvolta l’abuso del linguaggio dei diritti – esercitato da quanti non distinguono tra il suo impiego giuridico e la sua utilizzazione retorica e politica, tra il diritto rivendicato e quello riconosciuto e protetto dalle leggi – non sembra infatti essere migliorata: anzi assistiamo in questi ultimi anni al progressivo dilatarsi di punti controversi, di contraddizioni apparentemente insanabili nella inevitabile dialettica tra gli stessi diritti, a uno sconcertante proliferare di nuovi diritti che finiscono con il banalizzare e svuotare interamente il carattere emancipatorio di quel linguaggio rendendolo alle volte persino irritante e provocatorio, soprattutto in Italia. In tal senso la richiesta di nuovi diritti in nome e per conto di interessi corporativi, di desideri e di pretese individuali senza alcun afflato universalistico sembra fatta apposta per svuotare di significato gli sforzi di chi invece auspica con passione e generosità l’avvento di una vera età dei diritti per tutti gli esseri umani e in ogni angolo della terra. Così come talvolta inquieta il complesso e controverso percorso per giungere al riconoscimento politico e legislativo di un nuovo diritto, alla sua tutela giuridica da parte dei giudici.
Lucidamente Bobbio aveva previsto gran parte di questi possibili sviluppi negativi sottolineando il carattere naturalmente espansivo della logica stessa dei diritti dell’uomo determinata e caratterizzata dal contesto, dalle sfide storiche che di volta in volta apparivano sulla scena: da qui la sequenza cronologica del passaggio dai diritti civili e politici a quelli sociali, dai diritti della seconda generazione a quelli della terza e così via. Ma quei diritti per essere considerati tali avrebbero dovuto sempre mantenere inalterato il loro carattere universalistico e avere per obiettivo la protezione e l’emancipazione dell’individuo[3].
Quello che Bobbio non aveva invece previsto erano gli sviluppi e le forme che la lotta per i diritti avrebbe assunto ai nostri giorni nel discorso pubblico internazionale. Per quanto riguarda lo scontro politico in Italia, gli sarebbe probabilmente affiorato un sorriso sulle labbra a vedersi arruolato d’autorità per una battaglia anacronistica e confusamente di retroguardia a favore del ritorno ai doveri dell’uomo, alla centralità del loro carattere prescrittivo e di guida nell’agire umano[4]. Quell’antica tesi cara agli stoici, al Cicerone del De Officiis, all’assolutista Samuel Pufendorf, autore nel 1672 di un fortunatissimo manualetto De officio hominis et civis iuxta legem naturalem, ma soprattutto alla reazione termidoriana che nella Costituzione del 1795 pretese d’introdurre sin dal titolo il riferimento ai doveri accanto ai diritti per frenare la Rivoluzione[5], non era certo nelle corde del filosofo neoilluminista torinese. Lo avrebbe invece certamente più appassionato l’apparizione nel 2010 del libro, scritto dal giurista e storico di Harvard Samuel Moyn, The Last Utopia. Human Rights in History.
Al centro di vivaci discussioni, quel testo considera il movimento per i diritti umani qualcosa di assolutamente recente, assai differente e originale rispetto a tutte le idee e ai movimenti del passato. La stessa espressione Human rights (ritenuta generalmente una variante moderna e politicamente corretta del vecchio Rights of Man, o Droits de l’homme, ancora segnato dai settecenteschi pregiudizi di genere, usato dagli illuministi e dai rivoluzionari dell’89[6]) diventa, nelle pagine di Moyn, l’ultima grande utopia emancipatoria inventata dall’umanità. Sul piano linguistico Moyn fa correttamente notare che Human rights ha cominciato a diventare un termine di uso corrente nel mondo anglosassone per poi diffondersi ovunque solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta dello scorso secolo. Lo diffondono nei loro libri destinati a grande successo John Rawls e Ronald Dworkin[7]; ne fanno uso nei documenti ufficiali dell’amministrazione americana, da sinistra, in chiave libertaria, Jimmy Carter, e da destra, in chiave conservatrice, Ronald Reagan. Ma soprattutto dopo la metà degli anni Settanta appaiono sulla scena importanti movimenti internazionali decisi a battersi per l’affermazione dei diritti umani come Human Rights Watch. Secondo Moyn la nuova utopia dei diritti umani non è affatto nata sulla scia dei dibattiti sull’Olocausto o a seguito della Dichiarazione dell’Onu del 1948 come generalmente si ritiene, bensì come risposta all’evidente e progressivo esaurirsi di antiche utopie come ad esempio quella dell’internazionalismo socialista o dei riformatori democratici del capitalismo. Di qui il carattere utopico del tutto originale di quei movimenti in lotta per una nuova moralità del genere umano: la loro vocazione antipolitica, cosmopolita, dichiaratamente contro lo Stato e la nazione, lo statalismo e il nazionalismo dei secoli precedenti colpevoli di aver creato il neocolonialismo e le moderne forme d’imperialismo.
Un punto tanto decisivo quanto assai discutibile a favore della discontinuità nella ricostruzione storica di Moyn sta infatti nel rivendicare all’utopia degli Human rights una profonda differenza: un vero e proprio distacco dal progetto culturale e politico dei Rights of man consacrati nella Dichiarazione del 1789. Laddove i primi traggono la loro essenza dall’essere la fonte di una nuova moralità del genere umano (Burden of Morality è il titolo del capitolo conclusivo del libro), mentre i secondi erano stati programmaticamente pensati per approdare ai diritti di cittadinanza proprio attraverso lo Stato e la nazione, i due ingredienti fondamentali della modernità politica dell’Occidente.
Fautore appassionato del realismo politico e del riconoscimento giuridico dei diritti come strada maestra per la loro protezione, Bobbio non avrebbe probabilmente apprezzato questa funzione solo morale, educativa e retorica dei diritti umani contrapposti ai diritti dell’uomo. Al di là delle conclusioni condivisibili come quelle sul carattere utopico dei movimenti ispirati ai diritti umani e della loro apparizione a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso come Last Utopia, il libro di Moyn avrebbe certamente suscitato il suo sconcerto anche perché esso sconta un forte e inaccettabile debito rispetto alla corretta conoscenza storica degli eventi del passato soprattutto quando contrappone polemicamente Human rights e Rights of man fraintendendo i veri caratteri originali del progetto politico e culturale illuministico
Moyn sembra infatti ignorare gran parte dei risultati degli studi recenti sulle origini settecentesche dei diritti dell’uomo[8]. E in particolare il doppio carattere, allo stesso tempo utopico e realisticamente concreto, del progetto illuministico dei diritti dell’uomo, la sua invenzione e difesa ad oltranza dell’individuo contro lo Stato assoluto e l’Antico regime e poi contro il principio di nazionalità: il suo netto differenziarsi dalle idee e dalle azioni dei rivoluzionari e dei fautori del Terrore com’è facilmente verificabile dall’esperienza tragica di Condorcet morto nelle prigioni giacobine e dalle sue celebri pagine dell’Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain.
In quel libro, testamento e sintesi di un intero secolo di riflessione nonché vero manifesto finale del pensiero politico e sociale illuminista sui diritti, Condorcet spiegava che per definirsi tali i diritti dell’uomo richiedevano la contemporanea presenza di diverse qualità e caratteristiche: 1) devono essere naturalmente inerenti agli esseri umani in quanto tali; 2) devono essere uguali per tutti gli individui, senza alcun tipo di distinzione di nascita, di ceto, di nazionalità, di religione, di genere, di colore della pelle; 3) devono essere universali, cioè validi ovunque in ogni angolo del mondo; 4) occorre, infine, che essi siano considerati inalienabili e imprescrittibili di fronte ad ogni forma di istituzione politica o religiosa[9]. A tal fine egli ingaggiò una dura lotta a favore degli schiavi, dei diritti delle donne e delle minoranze religiose, già prima della Rivoluzione. Sul piano teorico, elaborò una moderna e secolarizzata filosofia della storia di tipo illuministico per spiegare la progressiva emersione di questi diritti dall’oblio attraverso le secolari lotte per la libertà come segno e prova evidente del progresso civile dell’umanità. Condorcet fu tra i primi a trasformare il tradizionale genere utopico elaborato da Tommaso Moro in qualcosa di nuovo a mai pensato sino ad allora cioè l’ucronia: un sogno politico e sociale proiettato non più in uno spazio immaginario, in un luogo inesistente, bensì in un tempo che non esiste, in un sogno futuro da realizzare. Nella X epoca dell’umanità, l’ultima, ancora da venire, egli descriveva in tal senso l’ucronia del trionfo finale dei diritti illuministici in ogni angolo della terra:«Il arrivera donc, ce moment où le soleil n’éclairera plus, sur la terre, que des hommes libres, et ne reconnaissant d’autre maître que la raison; où les tyrans et les esclaves, les prêtres et leurs stupides ou hypocrites instruments n’existeront plus que dans l’histoire et sur les théâtres[10]».
Storicamente nati all’origine come utopica idea morale per difendere l’uomo da se stesso, dalla sua omicida volontà di potenza e di potere in un momento in cui le religioni e i comandamenti di Dio non parevano più in grado di svolgere quella funzione, quei diritti Condorcet li aveva scoperti uno dopo l’altro, secolo dopo secolo come diritti innati all’individuo, obliati nelle lotte dell’uomo per l’emancipazione e il progresso dello spirito umano. Aveva altresì compreso che non bastava enunciarli retoricamente, ma occorreva rivendicarli, praticarli, garantirne finalmente «l’exercice» trasformandoli in «droits politiques» attraverso una Costituzione scritta. Insieme a Thomas Paine, a Gaetano Filangieri e a Francesco Mario Pagano, autore del Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana del 1799, Condorcet fu tra i padri del “costituzionalismo illuministico”, una categoria storiografica ancora troppo poco conosciuta e talvolta erroneamente confusa con il costituzionalismo dei rivoluzionari nei manuali universitari[11]. Un costituzionalismo davvero originale, programmaticamente diverso sia da quello delle comunità d’Antico regime, consuetudinario – che nella concezione machiavelliana di Montesquieu opponeva potere a potere, i corpi intermedi al re –, sia dal costituzionalismo rivoluzionario, dominato dalla volontà generale, dal primato del legislativo e della nuova sovranità nazionale. Al centro del costituzionalismo illuministico stavano invece prima di ogni cosa i diritti dell’uomo consacrati in una solenne Dichiarazione preliminare, la creazione di un conseguente ordinamento giuridico inedito per inverarli come auspicava la nuova monumentale Scienza della legislazione di Filangieri o per proteggerli dalle degenerazioni della sovranità illimitata del legislativo come temeva Pagano, creando a tal proposito per difenderli uno strumento di ingegneria costituzionale come la Magistratura degli efori somigliante alle moderne corti costituzionali.
Storicamente, quella che noi oggi chiamiamo la “politica dei diritti” conobbe nel corso del Settecento strade differenti a seconda dei paesi in cui prese forma[12]. Molto in breve basti dire che quella politica trovò, ad esempio, in Inghilterra la sua mirabile sintesi nei Commentaries on the Law of England (1765-1769) di William Blackstone, dove i diritti erano rivendicati come una conquista storica frutto paziente delle lotte secolari del popolo inglese per la propria libertà ed emancipazione e garantiti dalla consuetudinaria Old Constitution. Più in generale, nel mondo anglosassone e in particolare nell’illuminismo scozzese, attraverso i lavori fondamentali di David Hume e di Adam Smith il linguaggio dei diritti dell’uomo venne politicamente neutralizzato attraverso un processo di legittimazione che lo faceva derivare teoricamente dai doveri di matrice stoica (nella versione duty-based di Pufendorf), dalla legge naturale e dal principio di sociabilità; era poi circoscritto allo spazio della sola giustizia: cioè programmaticamente escluso dalla sfera economica e dai suoi conflitti sociali, dal mercato cui era invece riconosciuta la piena autonomia morale a difesa della proprietà.
Assai differente fu l’interpretazione dei diritti elaborata in Francia nel corso del Settecento dai circoli illuministici. Qui la piena politicizzazione dei diritti, il loro uso nella sfera pubblica, come moderna “formula politica” e strumento retorico di forte mobilitazione e di lotta contro i previlegi e le ingiustizie dell’Antico regime ebbe inizio con l’impegno di Voltaire nel celebre affaire Calas e si sviluppò poi nella battaglia contro la tratta degli schiavi, attraverso le opere letterarie, teatrali, nella vera e propria “messa in scena” della difesa dell’uomo da parte di Rousseau, di Diderot, di Mercier, di Condorcet, o a favore dei diritti delle donne nelle opere teatrali e nella militanza di Olympe de Gouges, autrice di una Dichiarazione dei diritti delle donne ghigliottinata dai giacobini allora impegnati nel Terrore rivoluzionario per la sua contrarietà alla condanna a morte del re.
In Germania, nei territori del Sacro romano impero, la lotta per i diritti dell’uomo da parte di tanti giovani Aufklärer con a capo Schiller, Herder e Goethe, sviluppatasi nel corso della seconda metà del Settecento contro il dispotismo di uno stato assoluto ovunque egemone si concluse con il fallimento della propaganda dei diritti attraverso l’uso delle logge massoniche e in particolare del complotto politico della massoneria settaria di Weishaupt e degli Illuminati di Baviera. Quella sconfitta e la caccia alle streghe che ne seguì, così come gli sviluppi imperialistici della Rivoluzione francese nel segno della Grande Nation, interruppero definitivamente la diffusione e l’approfondimento del linguaggio dei diritti in chiave illuministica e costituzionale favorendone invece lo stravolgimento e la definitiva neutralizzazione politica con la promulgazione del Codice generale prussiano nel 1794. Quel testo – dove i diritti erano certamente enunciati ma in formulazioni giuridiche singolari che negavano il principio di eguaglianza e il loro originario carattere naturale e inalienabile – chiudeva l’intensa stagione cosmopolita e illuministica tedesca; in esso si ribadivano infatti scelte secolari di cultura politica ispirate al Leviatano di Hobbes, secondo cui solo lo Stato, nella sua moderna versione burocratizzata e legislativamente onnipotente, era in grado di generare e tutelare la società civile concedendo i diritti dall’alto ai suoi sudditi, anziché viceversa, come pensavano Locke e i repubblicani del Tardo Illuminismo che premettevano invece sempre l’esistenza dei diritti e della società civile allo Stato e alla sua legittimità.
Con la Rivoluzione francese e il Terrore il progetto illuministico di difendere, emancipare e rendere felice l’uomo attraverso la pratica dei diritti s’interruppe: finì sostanzialmente nell’oblio e in un cono d’ombra storiografico. La storia europea prese indubbiamente un’altra strada ancora tutta da ricostruire dal punto di vista dell’eredità di quel mondo e di quel linguaggio che mirava a proteggere l’individuo di fronte all’emergere dei fondamentalismi religiosi, del nazionalismo e dei fautori dell’onnipotenza dello Stato.
Oggi sappiamo che l’umanesimo illuministico italiano fu tra i protagonisti di quella stagione. Esso diede infatti un formidabile contributo alla nascita del moderno linguaggio dei diritti dell’uomo come limite invalicabile alla sovranità, alla sua controversa costituzionalizzazione e trasformazione in ordinamento giuridico. Senza l’opera di Cesare Beccaria, di Antonio Genovesi, di Gaetano Filangieri e di Mario Pagano l’Occidente sarebbe probabilmente assai diverso[13]. Gli illuministi italiani s’interrogarono a lungo nei loro scritti sulla dialettica tra gli stessi diritti, su come riconoscerli, rivendicarli, esercitarli e infine garantirli scegliendo, com’era nella tradizione politica italiana, la strada maestra del governo delle leggi, del diritto, della garanzia dei giudici a presidio della costituzione e dei diritti, contro la demagogia del primato assoluto della politica di nuovi futuri despoti.
Peccato che proprio quei meriti straordinari, quelle riflessioni così profonde e attuali siano ancora tanto poco conosciute e discusse proprio dal mondo cui erano in primo luogo dirette. Quella originale “cultura dei diritti” dell’Illuminismo italiano risulta infatti ancora del tutto assente dai nostri manuali universitari, financo marginale per non dire inesistente nella formazione dei giuristi italiani chiamati oggi a confrontarsi con un linguaggio che sembra a volte venire dall’esterno, quasi come un corpo estraneo alle nostre autentiche tradizioni giuridiche, fatte ancora soprattutto di codici e di formalismi.
[*] Lo scritto qui pubblicato è frutto di un dialogo tra l’Autore, Vladimiro Zagrebelsky e Pasquale De Sena svoltosi il 29 gennaio 2015, in Roma, nella sede della Fondazione Lelio e Lisli Basso (Isocco) della cui cortese ospitalità si desidera ringraziare la presidente Elena Paciotti (NdR).
[1] Cfr. G. Flaubert, Sciocchezzaio, Dizionario dei luoghi comuni, Catalogo delle idee chic, a c. di L. Caminiti Pennarola, Milano, 1992, n. 875 dove afferma: «Si diffidi principalmente dei libri di storia» (n. 875) e ancora: «L’insegnamento della storia può secondo me presentare inconvenienti e pericoli reali per il professore. Ne presenta anche per gli allievi» (n. 745).
[2] N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, 1990, p. XX.
[3] Cfr. ibid. p. 58 dove Bobbio spiega che «la dottrina dei diritti dell’uomo presuppone una concezione individualistica della società», ribadendo altresì che lo stesso «individualismo è la base filosofica della democrazia: una testa un voto» (p. 60).
[4] Cfr. L. Violante, Il dovere di avere doveri, Torino, 2014, pp. 148 e ss.
[5] Sulla battaglia durante la Rivoluzione per reintrodurre i doveri accanto ai diritti cfr. M Gauchet, La Révolution des droits de l’homme, Paris, 1989, pp. 246 e ss.
[6] . L. Hunt, The French Revolution and Human Rights: A Brief Documentary History, New York, 1996.
[7] Cfr. J. Rawls, A Theory of Justice, Harvard, 1971; R. Dworkin, Taking Rights Seriously, New York, 1977.
[8] Cfr. K. Cmiel, The Recent History of Human Rights, «The American Historical Review», 109 (2004), pp. 117 e ss.; L. Hunt, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo, Roma-Bari, 2010; D. Edelstein, Enlightenment Rights Talk, in «Journal of Modern History», 84, n. 3 (2014), pp. 312 e ss.
[9] Per un quadro generale del tema dei diritti dell’uomo nel Settecento europeo mi sia consentito rinviare al mio libro recente Storia dei diritti dell’uomo. L’Illuminismo e la costruzione del linguaggio politico dei moderni, Roma-Bari, 2014.
[10] Condorcet, Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, Paris, 1988, p. 270.
[11] Cfr. sui caratteri specifici del Costituzionalismo illuministico V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari, 20082; A. Trampus, Storia del costituzionalismo italiano nell’età dei Lumi, Roma-Bari, 2009.
[12] Per l’analisi storica complessiva e analitica rinvio al mio volume, Storia dei diritti dell’uomo cit.
[13] Preziosa e condivisibile risulta in tal senso la messa a punto del dibattito odierno tra sovranità, democrazia, potere giurisdizionale, potere politico e diritti in S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, pp. 55 e ss.