La mediazione in appello
Il modello italiano di mediazione delegata dalla Corte di appello, risultante dalle modifiche introdotte recentemente al Dlgs n. 28/2010 e dalle misure tendenti a favorire il trasferimento, ad istanza di parte, delle cause pendenti davanti agli arbitri, ipotizza un uso degli strumenti alternativi di definizione delle controversie per lo smaltimento del pesante arretrato accumulatosi nel secondo grado di giudizio principalmente per effetto della riforma del giudice unico di primo grado. L’esperienza degli altri Paesi, tuttavia, dimostra che, per funzionare come strumento di deflazione, l’Adr postula un processo civile tanto efficiente e rapido da scoraggiare il ricorso al giudice a scopi meramente dilatori e favorire l’accordo tra le parti.
Così com’è congegnata, dunque, la mediazione «forzata» in appello è destinata ad operare solo in un numero assai limitato di casi e rischia di ripetere, alimentando un contenzioso «di ritorno», l’esperienza delle note sezioni-stralcio istituite nei tribunali nel 1997.
1. Introduzione: la mediazione come strumento ibrido di deflazione dei processi
I sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, contrariamente a quanto indurrebbero a credere le recenti modifiche del Dlgs n. 28/2010, presuppongono un buon funzionamento della giustizia civile poiché solo la prospettiva di una tutela giurisdizionale efficiente può scoraggiare strategia difensive volte all’abuso del processo[1].
Gli interventi volti ad introdurre anche nel nostro Paese strumenti di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali perseguono, invece, lo scopo dichiarato[2] di porre rimedio alla durata insopportabile dei giudizi civili, disincentivando il ricorso al giudice attraverso la previsione di modelli extragiudiziali di composizione delle controversie.
Il modello italiano delineato dalla legge delega (e dai tre successivi interventi legislativi del 2010, del 2013 e, da ultimo, del 2014[3]), è dunque un modello ibrido che, partendo dalla legge n. 69 del 2009, che ha fissato le linee guida per la riforma del processo civile, si affida alla mediazione (o al respingimento del contenzioso[4] al di fuori della giurisdizione) per recuperare efficienza attraverso una più razionale distribuzione della domanda di giustizia. Un mezzo di deflazione che, nella particolare realtà italiana, sembra muovere dalla constatazione che il processo, così com’è, non è più in grado di comporre in tempi utili le controversie e, in ultima analisi, di soddisfare le esigenze dei cittadini[5].
2. Lo stato disastroso delle corti di appello
Com’è noto, (e come puntualmente riportato nell’ultima relazione sull’amministrazione della giustizia del primo presidente della Corte di cassazione[6]), il giudizio d’appello ha pagato il prezzo più alto, in termini di accumulazione di processi arretrati, per la realizzazione della riforma del giudice unico di primo grado.
La soppressione delle preture, e anche la scadente qualità di molte decisioni delle sezioni stralcio istituite per lo «smaltimento» delle cause pendenti al 30 aprile 1995[7], hanno riversato sulle corti di appello una crescente quantità di impugnazioni, col risultato di estendere la durata dei processi (di molto) oltre i limiti della ragionevole durata del processo.
I dati, recentemente pubblicati dal Ministero della giustizia in occasione di un censimento speciale della giustizia civile[8], sono di per sé eloquenti.
Al 30 giugno 2013 erano pendenti, davanti alle corti di appello italiane, 412.699 processi, a fronte di una capacità di definizione, registrata dalla media del triennio precedente, pari a poco più di 155.000 cause l’anno.
Ciò significa che, come scrive il capo del dipartimento dell’organizzazione giudiziaria nel suo rapporto, occorrerebbero circa tre anni di lavoro, bloccando le future sopravvenienze (ed è evidentemente un’ipotesi fuori dal reale), per esaurire l’intero arretrato; con buona pace, in ogni caso, del termine biennale imposto dalla legge Pinto per la definizione di questo tipo di cause.
S’è detto che il carico di lavoro delle corti di appello si è di molto incrementato, soprattutto per gli effetti perversi della riforma del giudice unico di primo grado[9]. Ma il fatto singolare è che, secondo i dati del Ministero della giustizia, il 68% degli appelli si conclude con il rigetto dell’impugnazione e con la conferma della sentenza di primo grado; il che, com’è stato efficacemente osservato, equivale a dire «che in oltre i due terzi dei casi, il giudice lavora a vuoto, rispondendo ad una domanda di giustizia che, per lo più, non aveva ragione di essere»[10].
Le cause di questo disastro sono numerose e non si fermano alla riforma del giudice unico. Basti pensare alla mancata revisione delle circoscrizioni giudiziarie, al costo, relativamente basso, rispetto agli altri paesi europei, dell’accesso alla giustizia civile anche per cause di modesta importanza, e, soprattutto, al numero dei professionisti abilitati al patrocinio in giudizio che, secondo molti commentatori, costituisce (unito al regime di concorrenza cui i professionisti erano costretti, sino pochi anni fa, dal basso livello dei compensi) uno dei principali fattori di moltiplicazione delle cause anche nelle giurisdizioni superiori[11].
La legge 18 giugno 2009, n. 69, da cui si origina anche la delega legislativa sulla mediazione, ha inteso contrastare il fenomeno dell’abuso del processo con un nuovo regime delle spese processuali e della lite temeraria, modificando gli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile e ha dato inizio, come troppo spesso avviene nel nostro Paese, ad una serie di occasionali aggiustamenti legislativi diretti (per la parte che qui interessa) a migliorare «l’efficienza delle impugnazioni».
Vanno letti in questo contesto, ad esempio, la modifica dell’articolo 351 c.p.c. volta a consentire, sulla scorta di numerose sentenze di merito che rivendicavano l’uso di questo strumento anche per l’appello (prima, tra queste, la Corte di appello di Roma), la definizione della causa ai sensi dell’articolo 281/sexies, con immediata lettura in udienza del dispositivo e della motivazione della sentenza (introdotta dall’articolo 27 della legge n. 183/2011), oltre all’introduzione, con la legge n. 134/2012 (che ha convertito il decreto legge n. 83/2012) del cosiddetto «filtro» costituito dalla ordinanza di inammissibilità per gli appelli che non hanno una ragionevole probabilità di essere accolti.
Si tratta di un istituto analogo a quello introdotto, nel 2009, dall’articolo 360/bis cpc secondo cui, quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte, ovvero quando la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo è «manifestamente infondata», il ricorso è dichiarato inammissibile.
A ben vedere, i due strumenti processuali di recente introduzione non hanno in comune soltanto l’uso improprio della sanzione processuale dell’inammissibilità per rigettare un’impugnazione infondata. V’è infatti la speranza, che è forse il principale dato comune ai due istituti, di poter ridurre apprezzabilmente la durata del giudizio favorendo l’immediata definizione delle impugnazioni palesemente infondate.
L’articolo 348/ter cpc, al fine evidente di favorire l’utilizzo del «filtro» in funzione di deflazione del carico degli appelli, prevede, inoltre, che l’ordinanza sia «succintamente motivata», anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati negli atti di causa e con riferimento precedenti conformi; così autorizzando, par di capire, anche una riduzione ai minimi termini dell’obbligo di motivazione.
Per completare il quadro, occorre far cenno alle modifiche dell’art. 342 cpc introdotte dalla legge n. 134 del 2012 che, recependo un consolidato orientamento della Corte di cassazione (cristallizzato nella fondamentale sentenza Cass. sez. un. n.16/2000), impone oggi all’appellante di indicare, a pena d’inammissibilità e in ossequio al cd.«principio di specificità», le parti del provvedimento che si intende appellare, le modifiche richieste, le circostanze da cui deriva la violazione di legge e la loro rilevanza a ai fini della decisione impugnata[12].
Le recenti riforme del processo, dunque, hanno in comune lo scopo di ridurre, entro i limiti imposti dal principio di ragionevole durata del processo, i tempi di definizione dei procedimenti di secondo grado favorendo l’esame preliminare di tutte le cause sul ruolo (con una radicale inversione di tendenza dell’attuale organizzazione delle udienze) e l’immediata definizione delle impugnazioni che si presentano, in sostanza, come manifestamente infondate[13].
In questo contesto si pongono le norme che consentono al giudice o alle parti di attivare il procedimento di mediazione anche nel corso del giudizio di appello.
3. La mediazione «forzata» in appello
Com’è noto, la reintroduzione, con legge non delegata, della mediazione come condizione di procedibilità (ad opera del decreto-legge n. 69 del 2013) ha fatto seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 5 del Dlgs n. 23/2010 (e delle disposizioni connesse) pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza 24 ottobre 2012 n. 272[14]. Con l’occasione sono state tuttavia apportate numerose modifiche, tra cui l’introduzione della mediazione prescritta dal giudice anche in appello, la riduzione della durata del procedimento a tre mesi e, complessivamente, un significativo restringimento dell’area per materia dell’obbligatorietà ex lege bilanciato dalla valorizzazione della mediazione c.d. demandata[15].
L’art. 5 del Dlgs n. 28/2010 (così come modificato dall’art. 84 della legge n. 98/2013) prevede ora, per il giudizio di secondo grado, la facoltà del collegio, prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni (o prima dell’udienza di discussione nelle cause trattate col rito speciale locatizio), di invitare le parti a presentare domanda di mediazione entro un termine prefissato. L’invito, che può riguardare solo le cause indicate dal comma 1/bis[16], dev’essere preceduto da una generale valutazione «della natura della causa, dello stato dell’istruzione e del comportamento delle parti», che dovrebbe indurre il giudice a pronosticare favorevolmente la possibilità di definire la causa con un accordo guidato dal mediatore.
Il procedimento di mediazione, peraltro, non può durare più di tre mesi e non soggiace alla sospensione dei termini in periodo feriale.
In sostanza, la Corte di appello, disponendo l’avvio del procedimento di mediazione, deve avvisare le parti che, per effetto della disposizione contenuta nell’articolo 5, comma 2, del Dlgs n. 23/2010, la procedura «è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello» e che, a norma dell’art. 5 comma 2/bis, «la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». Deve, quindi, assegnare il termine di quindici giorni (art. 5, comma 1/bis, settimo periodo) per la presentazione della domanda e fissare una nuova udienza per la riassunzione del processo al termine della procedura (non prima, dunque, di quattro mesi e quindici giorni dalla notifica dell’ordinanza, considerato che la fissazione della prima riunione può avvenire entro un mese dalla domanda). Sembra opportuno, inoltre, che col provvedimento che assegna il termine, il giudice dia anche gli avvisi relativi alla competenza territoriale dell’organismo di mediazione (che deve trovarsi nel luogo in cui si trovai giudice territorialmente competente per la controversia, ex art. 4, comma I).
Alla ripresa del processo, dunque, la corte di appello potrà valutare come argomento di prova (art. 8, comma 4/bis) la mancata partecipazione della parte, senza giustificato motivo, alla prima riunione e, in caso di soccombenza, condannarla al versamento all’erario di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio, analogamente a quanto previsto, per gli appelli respinti integralmente, dichiarati inammissibili o improcedibili, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228 (che ha modificato l’art. 13 del dpr 30 maggio 2002, n. 115[17]).
4. Induzione all’accordo e sistema sanzionatorio
Le sanzioni processuali previste per la mancata collaborazione della parte al tentativo di conciliazione stragiudiziale costituiscono un ibrido difficilmente riconducibile alle tradizionali categorie dei doveri di lealtà e di probità della parte o della responsabilità processuale, posto che si tratta, a ben vedere, di riflessi processuali di comportamenti assunti dalle parti al di fuori del processo[18]; a meno che non si voglia considerare la mediazione «forzata» come una sorta di incidente processuale, una parte eventuale del processo tendente a favorire una definizione stragiudiziale della lite.
Lo «stato dell’istruzione», in appello, corrisponde, di norma ad una causa perfettamente istruita nel primo grado e destinata, per questo, ad esaurirsi nella prima udienza, dopo la verifica della corretta instaurazione del contraddittorio. Sono infatti assai rari i casi in cui il giudice d’appello può disporre l’assunzione di una nuova prova (nei limiti oggi consentiti dall’art. 345 cpc), ammettere una prova richiesta ritualmente in primo grado e non ammessa erroneamente dal giudice, ovvero disporre la rinnovazione, totale o parziale, della prova assunta in primo grado.
Il caso più comune è costituito della rinnovazione della consulenza tecnica espletata in primo grado, sempre che l’accertamento sia stato richiesto con uno specifico motivo di impugnazione.
Si tratta di casi assai limitati, nei quali non è dato comprendere, prescindendo dalle peculiarità del singolo caso, se sia più conveniente, per una più rapida definizione del giudizio, dopo la necessaria rinnovazione della consulenza tecnica, delegare alle parti la mediazione o invitarle a precisare subito le conclusioni, considerato che il parere acquisito con la nuova ctu dovrebbe avere carattere, come si usa dire, dirimente.
Infine, poiché è la legge a stabilire le materie in cui è ammessa la mediazione, resta alquanto fumoso il riferimento alla «natura della causa» che dovrebbe ispirare la decisione di un tentativo di composizione conciliativa «forzosa» da parte del giudice; così come il riferimento generico al «comportamento delle parti», che sono pur sempre libere, quando abbiano manifestato l’intenzione di accordarsi tra loro per por fine alla lite, di abbandonare il processo.
5. La «migrazione» dell’appello davanti agli arbitri e la cd. «degiurisdizionalizzazione»
Analoghe considerazioni devono farsi per le disposizioni relative al trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti civili pendenti in grado di appello, introdotte dal decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, (come convertito dalla legge n. 162/2014), ove si prevede, per le cause che non abbiano ad oggetto diritti indisponibili (e che non vertano in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale[19]), e prima che la causa sia passata in decisione (il che avviene, com’è noto, all’udienza di precisazione delle conclusioni[20]), la facoltà per le parti, con istanza congiunta, di richiedere «un procedimento arbitrale rituale a norma delle disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile».
Il giudice, rilevata la sussistenza delle condizioni di legge, deve qui disporre la trasmissione del fascicolo al presidente del consiglio dell’ordine per la nomina del collegio arbitrale, composto tra gli avvocati disponibili, iscritti all’albo da almeno cinque anni; sicché il procedimento «prosegue davanti agli arbitri» (art. 1, comma 3), fermi restando, analogamente a quanto avviene nelle ipotesi conseguenti a declaratoria di incompetenza[21], gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda giudiziale.
Dopodiché, se il lodo non viene pronunciato entro centoventi giorni dall’accettazione della nomina del collegio arbitrale, il processo dev’essere riassunto entro il termine perentorio dei successivi sessanta giorni, a pena di estinzione del procedimento e del conseguente passaggio in giudicato, a norma dell’art. 338 cpc, della sentenza impugnata.
La differenza, rispetto all’ipotesi dell’abbandono della causa e alla proposizione di un’autonoma domanda di arbitrato, sta nel fatto che, in questo caso, la questione portata alla cognizione degli arbitri è esattamente quella pendente davanti al giudice, con le preclusioni e le decadenza già maturate; ma non si vede perché la parte che ha proposto (in ipotesi) l’appello confidando nei tempi lunghi della giustizia debba trovare conveniente l’abbandono della causa dilatoria così abilmente coltivata per definirla, d’accordo con la controparte, nel giro di pochi mesi davanti agli arbitri, affrontando nuove spese e nuove incognite sull’esito della lite. Così come non è affatto chiaro il motivo per cui il legislatore ritiene che la parte che interesse ad una più rapida definizione della lite possa trovare l’accordo per il trasferimento in sede arbitrale della causa con la parte portatrice, quasi sempre, di un opposto interesse.
Si tratta, in ogni caso, di ipotesi teoriche e di portata pratica pressoché nulla. Cosicché le cause in appello trasferite dai giudici agli arbitri (ma lo stesso vale per la cd. «negoziazione assistita» fra avvocati) «saranno una goccia nel mare, operando e potendo operare solo su base volontaria e cioè sull’accordo fra le parti in lite e con ulteriori oneri economici per entrambe; accordo che, verosimilmente, non vi sarà pressoché mai e non potrà neppure essere indotto dalla garbata minaccia «altrimenti precisazione delle conclusioni a fra tre anni» visto che — a parte l’inverecondo effetto in termini di immagine — questa minaccia è di regola tale per una ma non per entrambe le parti»[22].
6. Brevi considerazioni finali
Di fronte alla prospettiva di portare una lite pendente da sette o otto anni al di fuori del processo, bisognerebbe anche porsi la domanda (che pochi sembrano porsi in questo momento) di come queste cause saranno decise.
Alcune materie, come la responsabilità professionale medica, lo scioglimento della comunione ereditaria, i contratti bancari e assicurativi, richiedono non solo particolari competenze, ma anche una particolare esperienza affinata in anni di pratica giudiziaria; e l’idea che, una volta intrapresa la via giurisdizionale, una risposta alla domanda di tutela legale possa essere offerta, con la stessa credibilità, dal mediatore o dall’arbitro, «come se ogni possibile soluzione si equivalesse purché sia data una risposta, alternativa a quella giurisdizionale, alla domanda di tutela legale»[23] equivale, nei fatti, all’idea sostenuta in passato dai fautori delle sezioni-stralcio, unanimemente considerate all’origine della marea di impugnazioni che hanno contribuito allo sfascio delle corti di appello.
Non è detto, dunque, che il processo, una volta uscito dalla Corte di appello per essere definito dagli arbitri, non rientri nuovamente nella stessa Corte attraverso l’impugnazione per nullità del lodo ex art. 829 cpc. Così come non è detto che un accordo «forzato» con l’aiuto del mediatore non sia fautore di ulteriore contenzioso tra le parti aventi ad oggetto l’interpretazione o l’esecuzione delle clausole dell’accordo transattivo.
I mezzi alternativi di risoluzione delle controversie non sono, infatti, realmente alternativi alla tutela giurisdizionale dello Stato; e non solo perché non possono riguardare diritti indisponibili o hanno bisogno, per l’esecuzione o per i provvedimenti cautelari, dell’intervento del giudice.
Per funzionare come sistemi di deflazione, prima dell’inizio del processo e della pronuncia di una sentenza di primo grado e non durante il processo, essi richiedono una giustizia civile tanto efficiente da rendere sconveniente il ricorso al giudice almeno per una delle parti (quella che ha torto) e assolutamente sconsigliabile un’impugnazione della transazione o del lodo a scopo meramente dilatorio.
Una giustizia civile, dunque, ove i giudici professionali siano in numero proporzionato alla domanda di giustizia ed adeguatamente assistiti, i ruoli del personale ausiliario e le sedi di lavoro siano adeguati, gli uffici dotati di strutture materiali e di impianti tecnologici efficienti e non obsoleti e le Adr si pongano, infine, come valore aggiunto e non come improprio strumento deflattivo che rischia di generare altro contenzioso, perpetuando quell’eterogenesi dei fini che ha sin qui caratterizzato un decennio di occasionali e disorganici interventi legislativi sul processo civile.
[1] D. Dalfino, Mediazione, conciliazione e rapporti col processo, in Foro it. 2010, V, 101. Nello stesso senso, R. Caponi, La giustizia civile alla prova della mediazione, ibidem, 89 e M.Gradi, Inefficienza della giustizia civile e «fuga dal processo» in Judicium.it, 2014, XII, pag. 7 e ss.
[2] Come si legge nella relazione illustrativa che accompagna il decreto legislativo n. 28/2010 e nella scheda di sintesi dei lavori parlamentari della XVI legislatura pubblicato sul sito istituzionale della Camera dei deputati e dedicato all’attuazione della delega contenuta nell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (www.camera.it/camera/browse/561?appro=588&Decreto+legislativo+28%2F2010+-+Mediazione+civile+e+commerciale).
[3] Si fa qui riferimento al decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito con motivazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, espressamente intitolato a «Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile».
[4] Secondo l’efficace espressione coniata da B. Capponi in Respingimento del contenzioso, degiurisdizionalizzazione, prospettive in tempi di crisi, in Questione Giustizia on line, 10.10.2014, www.questionegiustizia.it/articolo/respingimento-del-contenzioso_degiurisdizionalizzazione_prospettive-in-tempi-di-crisi_10-10-2014.php.
[5] Secondo Neil Andrews (I metodi alternativi di risoluzione delle controversie in Inghilterra, ne L’altra giustizia, a cura di V. Varano, Giuffré, Milano, 2007, I), «La mediazione non opera come un mero strumento al servizio della transazione, bensì come un’alternativa all’avvio o alla conclusione di un processo dinanzi alle corti ordinarie o ai tribunals. La principale conclusione è che occorre riconoscere come, laddove sia appropriata, la mediazione rappresenti la cosa migliore dopo il pane a fette, senza che per questo sia stato eliminato il pranzo a tre portate (processo dinanzi alle country courts), né tantomeno il banchetto di cinque portate (processo dinanzi alla High Court). Il successo di questo metodo, soprattutto nella soluzione di controversie in materia commerciale, nasce dal fatto che «…la mediazione è volta permettere alle parti l’individuazione di un terreno comune. Al contrario, il processo le induce a ostentare un atteggiamento antagonistico (adversarial) che può impedire il negoziato. È noto come processo incoraggi le parti a sottolineare rigidamente le differenze fra le rispettive posizioni […] In realtà anche le parti della controversia apparentemente più esasperata spesso bramano la possibilità di negoziare una transazione e “porre fine all’incubo”» (pag. 9 e ss.) In generale, sui metodi negoziali di composizione delle controversie, e sul multidoor system di matrice nordamericana, si rimanda, per brevità, a M. Cappelletti, Accesso alla giustizia: conclusione di un progetto internazionale di ricerca giuridico-sociologica, in Foro it. 1979, V, 54.
[6] Letta il 23 gennaio 2015 nella cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario e reperibile sul sito istituzionale della Corte di cassazione all’indirizzo www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Relazione_amministrazione_Giustizia_2014_del_Primo_Presidente_Giorgio_Santacroce.pdf.
[7] Scrive a questo proposito B. Capponi (Respingimento del contenzioso, cit.) «Nel 1997 abbiamo già fatto l’esperienza delle sezioni-stralcio, sempre a fini di smaltimento dell’arretrato. Ogni sezione dei tribunali civili è stata duplicata da una sezione bis, col compito di occuparsi soltanto del contenzioso pendente. L’esperienza non ha dato frutti troppo positivi (la qualità delle sentenze rese dalle sezioni-stralcio è spesso stata pessima), e non ha impedito il formarsi di un nuovo arretrato. La mia impressione è che il vizio principale di tale misura emergenziale sia stato quello legato al reclutamento: si sono privilegiati soggetti con una vita lavorativa alle spalle, che hanno visto in quella funzione un terminale premiale. In tal modo questi soggetti – al di là dei personali meriti o demeriti – sono stati nominati necrofori non solo dell’arretrato, ma anche di loro stessi.»
[8] Si tratta del rapporto contenente la «Analisi delle pendenze e dell’anzianità di iscrizione degli affari civili» curato dalla direzione generale di statistica del Ministero, pubblicato il 14 novembre 2014 e reperibile all’indirizzo www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_9_10_1.wp?previsiousPage=mg_2_9_10.
[9] Secondo G. Monteleone, La crisi dell’appello civile ed il dissesto delle corti di appello, in Judicium.it 2013 «Prima di questa disastrosa riforma gli appelli erano suddivisi tra i Tribunali e le Corti: l’appello contro le sentenze dei Pretori era rivolto al Tribunale, sia nelle cause ordinarie che in quelle di lavoro; quello avverso le sentenze dei Tribunali alle Corti. Soppresse le Preture ed istituito il Tribunale giudice unico, tutti gli appelli sono andati a finire in Corte, donde il loro collasso, essendo rimaste immutate nel numero e nella composizione. Ricordo perfettamente che, a detta dei sostenitori dell’introduzione del giudice unico di primo grado, questa misura avrebbe dovuto risolvere la crisi della giustizia civile ripetendo a sessanta anni di distanza argomenti (del tutto inconsistenti) di solmiana memoria…».
[10] M. Di Marzio, L’appello civile dopo la riforma, Giuffré, Milano, 2013, 4 e ss.
[11] In Francia, secondo l’ultimo rapporto Cepej, vi sono 56.176 avvocati (in rapporto di 8 per ogni giudice) mentre in Italia gli avvocati sono 226.202, con un rapporto di 35 a 1. Secondo M. Di Marzio (L’appello civile, cit., I.1, 7 e ss.) un numero così elevato di professionisti abilitati «…comporta l’ineluttabile creazione di una sorta di proletariato giudiziario, pronto ad abbassare i compensi pur di accaparrarsi qualche causa e vincerla con ogni mezzo; e non è il caso, qui, di soffermarsi sulla miope scelta, attuata attraverso il «Decreto Bersani» prima e il «Decreto Crescitalia» poi, di modificare la disciplina dei compensi di avvocato in modo da ridurne tendenzialmente l’entità e di trasformare tali professionisti in imprenditori di se stessi, mediante l’impiego del patto di quota lite».
[12] La norma, peraltro, recepisce il consolidato orientamento della Corte di cassazione, secondo cui l’onere della specificazione dei motivi di appello non può ritenersi assolto mediante la mera riproposizione della domanda (o dell’eccezione decisa in senso sfavorevole dal giudice di primo grado) poiché i motivi di gravame, per essere idonei a contrastare la motivazione della sentenza impugnata, devono accompagnare la parte volitiva, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, con una parte argomentati che contrasti e confuti le ragioni addotte dal primo giudice (così, ad esempio, Così, oltre a Cass., sez. un., n. 16/2000 cit., le conformi Cass. n. 7849/2001; Cass. n. 10401/2001; Cass. n. 15558/2005; Cass. n. 6630/2006).
[13] Come ha scritto il primo presidente della Corte di cassazione, nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, «…L’appello non può rimanere un mezzo di impugnazione a critica libera finalizzato a un totale riesame della controversia. La giustizia, per essere tale, richiede una procedura che consenta di “raffinare” le decisioni e non di agevolare una moltiplicazione, tendenzialmente indefinita, dei giudizi».
[14] La declaratoria d’illegittimità è avvenuta per eccesso rispetto alla delega contenuta nell’articolo 60 della legge 18 marzo 2009 n. 69 poiché la cd. mediazione obbligatoria delineava, a parere della Corte, «un istituto a carattere generale, destinato ad operare per un numero consistente di controversie, in relazione alle quali, però, […], il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione non trova alcun ancoraggio nella legge delega».
[15] Come si legge nella relazione illustrativa pubblicata sul sito istituzionale del Governo italiano all’indirizzo www.governo.it/backoffice/allegati/71696-8767.pdf.
[16] È possibile la mediazione delegata, come indicate dall’art. 5, comma 1/bis, del Dlgs n. 28/2010 solo nelle controversie in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.
[17] Secondo il comma 4/bis dell’art. 8, introdotto dalla legge n. 98/2013, Il giudice «condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio». La condanna, analogamente a quanto dispone l’art. 13 del dPR 115/2002, dovrebbe pertanto essere pronunciata col provvedimento che chiude il processo.
[18] Sul punto, M. Bove, La mancata comparizione innanzi al mediatore in Judicium.it, 2010, pag. 5 e ss.
[19] Ma il trasferimento della causa davanti agli arbitri è consentita anche «nelle cause vertenti su diritti che abbiano nel contratto collettivo di lavoro la propria fonte esclusiva, quando il contratto stesso abbia previsto e disciplinato la soluzione arbitrale» secondo le modifiche introdotte all’art. 1 dalla legge di conversione.
[20] Poiché è questo il momento che scandisce la separazione tra fase istruttoria e fase decisoria, secondo Cass. sez. 6, n. 22737/2012 (ord.) e le conformi Cass. sez. un. n. 2576/2012 (ord.), sez. un. n. 25256/2009 e sez. un. n. 87/2000.
[21] Si fa riferimento alla nota sentenza 12 marzo 2007, n.77 (in Gu 1a s.s. 14/03/2007, n.11) con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione. Sulla translatio judicii per difetto di giurisdizione si veda la nota Cass. sez. un. n. 4109/2007. Amplius, in dottrina, A. Panzarola, “Translatio judicii” e dichiarazione di difetto di giurisdizione in Martino (a cura di) La giurisdizione nell’esperienza giurisprudenziale contemporanea, Giuffré, Milano, 2008, 183 e ss. nonché C. Asprella, La translatio judicii, Giuffré, Milano, 2010.
[22] A. Briguglio, L’ottimistico decreto-legge sulla «degiurisdizionalizzazione» ed il trasferimento in arbitrato delle cause civili, in Rivista dell’arbitrato, fasc. 3, 2014, pag. 633.
[23] B. Capponi, Respingimento del contenzioso, cit., pag. 3.