Magistratura democratica

Conciliazione e mediazione nel processo di famiglia.
L’esperienza del Tribunale di Milano

di Gloria Servetti e Giuseppe Buffone

La nona sezione del Tribunale di Milano è da sempre un luogo di elaborazione di nuove prassi che talvolta si trasformano in soluzioni normative (si pensi al rinvio in mediazione). Attraverso la bella metafora dell’isola della famiglia nella tempesta del processo e nella quiete della mediazione, gli Autori (presidente e giudice della “nona”) ci accompagnano in un viaggio appassionante attraverso variate esperienze di mediazione dentro e fuori del processo, alla ricerca di soluzioni che guardano allo stesso tempo alla sensibilità della materia e all’efficienza dei risultati.

1. L’isola della famiglia nella tempesta del processo

Quando la famiglia si disgrega e i coniugi/genitori non riescono a risolvere mediante accordo la loro lite, l’«isola delle relazioni familiari», appena lambita dalle onde del mare del diritto[1], viene a trovarsi nella tempesta del processo. Il procedimento civile, che sia governato con eccellente diligenza o meno, resta comunque un processo, pure quando oggetto ne è la famiglia, nella sua dimensione patologica. Anche nel processo di famiglia, come per il procedimento civile in generale, la mediazione si distingue come sistema omeostatico[2], capace di offrire ai litiganti un modo diverso di affrontare i conflitti[3], se possibile trasformandoli[4]. Vista da questo punto di osservazione, la mediazione può arrivare a essere considerata come un segmento preliminare di significativo valore se non francamente necessario, come una fase che precede lo scontro nel processo e prelude all’incontro del giudice con la famiglia. Non ancora numerosi sono i casi in cui la coppia, al momento della sua disgregazione, avverte l’esigenza di intraprendere un percorso di mediazione familiare, spesso anche per non conoscerne a fondo la natura, le modalità e gli scopi: il difetto di adeguata informazione fa sì che non di rado il percorso di mediazione sia erroneamente percepito come una terapia di coppia, diretta più a conservare la sua unità piuttosto che a raggiungere l’obiettivo di una separazione “condivisa” dove ciascuno si riappropria del proprio ruolo e riesce, superando sterili rivendicazioni o anche solo una ormai subentrata incomunicabilità, a porre al centro del progetto di vita futura la genitorialità, riconoscendone il valore del tutto prevalente.

Nelle prassi interne al Tribunale di Milano la mediazione (intesa in senso ampio) è considerata come una delle componenti essenziali e primarie del servizio pubblico che il magistrato eroga ai genitori in crisi. Essa muove da una idea “positiva” e “ottimistica” dei litiganti: visti non già (solo) come parti del processo a cui somministrare le regole del diritto bensì (anche e soprattutto) come individui-soggetti capaci di autodeterminarsi nella selezione delle regole da imporsi per comporre la lite mediante accordo. La giurisprudenza del Tribunale di Milano, in quest’ottica, è restia a “sostituirsi” ai coniugi/genitori nelle scelte che loro la legge riserva e guarda sempre all’accordo dei litiganti come momento fisiologico privilegiato per risolvere il conflitto: quest’ultimo, infatti, non deve essere di per sé temuto o negato, bensì vissuto come occasione, per quanto dolorosa, di trasformazione delle relazioni. Tant’è che, in materia di procedimento ex art. 709-ter cpc, l’orientamento milanese è nel senso che l’ingerenza del giudice nella lite familiare, per potersi considerare legittima e in reale sintonia con gli obiettivi segnati dall’impianto normativo, richiede che il mancato perfezionamento dell’accordo tra i genitori esercenti la responsabilità genitoriale sia accertato come insuperabile e che lo stesso integri, attraverso un significativo blocco delle funzioni decisionali inerenti alla vita del soggetto minore, un consistente pregiudizio dei suoi più pregnanti interessi[5]. Riassumendo la trama dei principi sin qui illustrati, può affermarsi che, nelle liti familiari, il Tribunale di Milano prevede (di fatto) sempre un momento preliminare al processo (vero e proprio) in cui si affida ai coniugi/genitori il compito di risolvere il loro conflitto in via amichevole: non è il Tribunale, al cospetto di un conflitto genitoriale, a decidere “in sostituzione” dei genitori se non nei casi in cui questi ultimi non siano stati capaci di decidere assieme e, comunque, la questione investa aspetti fondamentali per la vita del minore.

In che modo si favorisce l’accordo nelle dinamiche processuali milanesi?

Il terreno della mediazione è coltivato sfruttandone tutte le potenzialità.

2. Il giudice-conciliatore nel processo

Un primo cantiere processuale, in cui alle parti viene offerta una preliminare «area di mediazione», è quello della prima udienza di comparizione personale (l’udienza presidenziale nei procedimenti divorzili e di separazione; la prima udienza camerale in tutti i procedimenti ex art. 737 cpc; l’udienza di prima comparizione delle parti, in tutti gli altri riti: es. art. 269 cpc; art. 250 cc.; art. 316-bis cc, etc.; così anche nei procedimenti aventi ad oggetto le garanzie nei procedimenti di famiglia[6]). In questo caso, la funzione di conciliazione è affidata al magistrato assegnatario del fascicolo che, ovviamente, non agisce, in senso tecnico-giuridico, come mediatore bensì come arbitrum boni viri[7], professionista qualificato che può indicare ai genitori una soluzione equa, nel contemperamento di tutti gli interessi in gioco[8]. È bene insistere nel rimarcare come, in questo caso, il giudice non sia un “mediatore”[9] ma un magistrato che, prima di decidere, sperimenta con le parti un tentativo di conciliazione. Nella giurisprudenza milanese questa fase è particolarmente pregnante poiché caratterizzata dalla “proposta” del giudice, rivolta alle parti (e in genere redatta per iscritto a verbale) ex art. 185-bis cpc[10] (cd. proposta giudiziale). La proposta non è percepita dai litiganti come una “anticipazione” del giudizio per almeno tre ragioni principali: 1) in primo luogo, perché la proposta viene formulata dal giudice istruttore o dal giudice relatore, mentre la decisione è destinata a essere assunta dal Collegio, quindi da un organo giudicante diverso; 2) in secondo luogo, perché la proposta viene formulata in una fase del processo (la prima udienza) ancora embrionale, in cui la piattaforma probatoria deve ancora formarsi e, quindi, lo spettro di cognizione del giudice non è lo stesso su cui poggerà le radici la decisione; 3) in terzo luogo, perché il contenuto della proposta, almeno in larga parte dei casi, non coincide con l’ambito ristretto delle statuizioni che possono essere contenute nella decisione (ad es., nella proposta si propone di trasferire un immobile o costituire un diritto reale limitato, di prevedere un assegno di mantenimento a termine oppure di versarne una frazione in via anticipata e forfetaria: in ogni caso si tratta di questioni che giammai potrebbero trovare spazio nel provvedimento decisorio definitivo del processo)[11]. La figura del giudice - conciliatore ormai costituisce, comunque, l’espressione di una linea legislativa costante[12], nel senso di una più efficace governance giudiziale in cui il magistrato non “osserva” il processo per poi deciderlo, ma lo governa, lo dirige perché lo conosce in tutti i suoi meandri anche inespressi, provando, finché può, a garantire una soluzione amichevole: la decisione “chiude” il conflitto, laddove l’accordo delle parti lo “risolve”.

3. Il giudice-mediatore nel rito partecipativo

Un altro importante contesto processuale in cui alle parti viene offerta una qualificata «area di mediazione», è quello del cd. rito partecipativo. In questo caso, sulla falsariga del modello tedesco[13], le parti vengono convocate dinanzi a un magistrato (onorario) al quale è delegato esclusivamente il compito di portare a termine un tentativo di conciliazione, avvalendosi di tecniche di mediazione adeguate in relazione al caso concreto. In sintesi, il procedimento cd. partecipativo può essere descritto come a seguire[14]. Al termine della relazione affettiva, il genitore presenta la sua domanda contro il partner. Il Tribunale, disposto lo scambio delle difese, valuta se sussistono ostacoli a una fase conciliativa, quali ad esempio patologie, violenze domestiche, limitazioni alla genitorialità preesistenti. In assenza di elementi ostativi a un percorso di conciliazione e mediazione, il Tribunale fissa una udienza “filtro” in cui invita i genitori a comparire dinanzi a un giudice delegato, per verificare la possibilità di una soluzione condivisa: il giudice-mediatore. Il giudice delegato è un magistrato onorario, proveniente dalle fila degli avvocati esperti in diritto di famiglia, con una specializzazione in conflitti familiari e tecniche di mediazione. È, quindi, un giurista esperto nelle dinamiche conflittuali. Collabora con gli avvocati delle parti che, in questa fase, non sono visti come meri titolari dell’interesse parziale oggetto del processo ma come «garanti del cittadino per l’effettività della tutela dei diritti» (art. 2, comma II, legge 31 dicembre 2012 n. 247). Nei primi mesi di sperimentazione, i procedimenti totalmente conciliati sono stati l’80%. Il rito partecipativo si applica solo alle controversie a cui è estranea ogni questione in merito allo status (separazione, divorzio): in una prima fase, è stato applicato solo alle controversie tra genitori di figli nati fuori da matrimonio, ex artt. 316, comma IV, 337-bis cc e ss., in una fase successiva anche ai figli nati da matrimonio, nell’ambito dei procedimenti di revisione ex artt. 337-quinquies cc, 710 cpc, 9 legge divorzio (cd. rito partecipativo bis). In questo contesto, pur sempre processuale, il giudice opera più concretamente come “mediatore”, poiché non può decidere la controversia e nemmeno prende parte al Collegio che poi, in caso di omessa conciliazione, definirà la lite. Durante l’udienza di conciliazione il giudice delegato segue, in genere, questo “schema” di intervento: in primis, verifica se è possibile raccogliere il consenso delle parti per una mediazione familiare: in caso affermativo, rinvia il processo ad altra udienza e rimette le parti dinanzi all’organismo di mediazione familiare da loro scelto in autonomia; se le parti non consentono a un simile percorso tecnico, il giudice-mediatore conduce un tentativo di conciliazione, avvalendosi delle più generiche tecniche di mediazione in suo possesso e formula una proposta conciliativa ex art. 185-bis cpc. Al termine dell’udienza il giudice delegato rimette il fascicolo al Collegio che, in caso di accordo raggiunto, provvederà in conformità, salvo chiarimenti ritenuti necessari e, altrimenti, fisserà nuova udienza dinanzi a sé per la necessaria prosecuzione del processo.

4. Il giudice e la mediazione familiare

Il giudice togato che sperimenta un tentativo di conciliazione e il giudice onorario che conduce una udienza di mediazione non sono ovviamente mediatori familiari. I primi cantieri “processuali” sin qui descritti costituiscono “occasioni di mediazione” (latu sensu intesa) che vengono coltivate “nel processo” da magistrati. Il Tribunale di Milano – accanto a queste risorse endoprocessuali – attinge in modo costante all’istituto della mediazione familiare, riconoscendogli una funzione privilegiata nell’ambito delle misure alternative di risoluzione del conflitto in materia di famiglia. In quest’ottica, il giudice della sezione IX civile quantomeno “informa” sempre i litiganti dell’opportunità e della possibilità di un percorso di mediazione. Quest’onere di “informazione” ha, oggi, trovato un importante riconoscimento legislativo: ove la lite familiare venga risolta mediante negoziazione, nell’accordo gli avvocati devono dare atto di avere «informato le parti della possibilità di esperire la mediazione familiare» (art. 6, comma III, Legge 10 novembre 2014 n. 162, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132)[15]. Giova, però, ricordare i limiti applicativi della mediazione familiare[16]: pur dopo le recenti modifiche apportate al corpus iuris in materia di famiglia (l. n. 219/2012 e Dlgs n. 154/2013), il tentativo di mediazione familiare presuppone, imprescindibilmente, il consenso delle parti (art. 337-octies, comma II, cc); inoltre, ancora oggi e in via prevalente, il percorso di mediazione familiare è offerto a titolo oneroso. Nel Tribunale di Milano un ottimo riscontro, in termini di risultato, perviene dal servizio di mediazione familiare offerto dal “Centro Gea” del Comune di Milano[17]. Il Centro – che ricade nell’ambito degli interventi sociali del Comune di Milano – offre ai residenti qualificati percorsi di mediazione familiare: con l’aiuto di un operatore dotato di specifica formazione, i genitori si incontrano (per un massimo di 10/12 colloqui) per individuare soluzioni e intese soddisfacenti per ciascuno dei partners e, in particolare, per i figli. Tutto ciò in autonomia dall’iter giudiziario e con la garanzia della riservatezza.

5. Il giudice e la mediazione civile

Guardando alle risorse a disposizione delle parti “fuori dal processo”, la Sezione IX civile del Tribunale di Milano non ignora la mediazione civile, introdotta dal Dlgs 4 marzo 2010 n. 28[18]. Si tratta di una ulteriore area di mediazione diversa da quella familiare e differente da quella endoprocessuale che presuppone la disponibilità del “diritto” oggetto del processo (da qui, i ristretti ambiti di applicazione nel diritto di famiglia). Si fa riferimento, in particolare, alla cd. mediazione ex officio, introdotta nell’art. 5 comma II Dlgs 28/2010 dalla legge 9 agosto 2013 n. 98 (di conversione del Dl 21 giugno 2013 n. 69): la novella ha previsto la possibilità per il giudice (anche di appello) di disporre l’esperimento del procedimento di mediazione (cd. mediazione ex officio). Si tratta di un addentellato normativo che inscrive, in seno ai poteri discrezionali del magistrato, una nuova facoltà squisitamente processuale. La nuova cd. «mediazione mediata dal giudice» costituisce una forma di mediazione obbligatoria, in cui la fonte del procedimento mediativo non è la legge ma il provvedimento del giudice. La mediazione delegata dal magistrato è stata qualificata in termini di mediazione obbligatoria anche dalla prima circolare interpretativa del Ministero della Giustizia[19]. Se, dunque, la precedente mediazione su invito del giudice era da inquadrare nell’ambito della mediazione volontaria, la mediazione ex officio va inquadrata nell’ambito della mediazione obbligatoria: mediazione obbligatoria che, peraltro, non è sottoposta al termine di  scadenza di quattro anni istituito dalla riforma (l. 98/2013; v. art. 5, comma I-bis). Che si tratti di una mediazione decisa dal giudicante pare potersi desumere anche dall’art. 17 Dlgs 28/2010 in cui la norma discorre di mediazione «prescritta dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2». In caso di mediazione ex officio, l’esperimento del procedimento di mediazione diventa condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, quindi, successivamente al provvedimento che dispone la mediazione, alla prima udienza utile, il giudice potrà verificare che la condizione sopravvenuta si sia avverata e, in difetto, potrà definire il processo dichiarando l’improcedibilità della domanda (pronuncia che, avendo carattere decisorio, va emessa nel provvedimento conclusivo della lite, quale ad es. la sentenza). Questo istituto consente al giudice di “obbligare” le parti a rivolgersi ai mediatori civili per (almeno) provare a risolvere la loro lite in modo amichevole. È istituto che bene si attanaglia alle liti familiari aventi ad oggetto mere questioni economiche o patrimoniali (es., scioglimento di comunione legale; restituzione di bene; risarcimento del danno, etc.).

6. L’isola delle famiglia nella quiete della mediazione

Quando la famiglia si disgrega e i coniugi/genitori non riescono a risolvere mediante accordo la loro lite, l’«isola delle relazioni familiari», appena lambita dalle onde del mare del diritto, può, quindi, scegliere di attraversare la quiete della mediazione: essa garantisce alle parti un ventaglio copioso di conseguenze positive, quali l’evitare il processo civile, l’ottenere una soluzione più stabile nel tempo, il garantire riservatezza al conflitto coniugale, il salvaguardare la serenità dei figli. Che sia “questa” o “quella” mediazione, l’importante è l’accordo conciliativo raggiunto dai coniugi/genitori, il più prezioso suggello a una relazione che, non più di coppia, si trasforma in una effettiva condivisione della responsabilità genitoriale.

Il Tribunale di Milano – sia consentito l’ossimoro – se può «decide di non decidere», aiutando invece le parti a decidere della loro vita, del loro futuro e di quello dei loro figli: un ausilio e uno sprone alla consapevole crescita personale e alla stabilità di un nuovo contesto relazionale.

[1] Citando Jemolo, la famiglia è «Un’isola che è solo lambita dalle onde del mare del diritto» (A.C. Jemolo, in La famiglia e il diritto, in Ann. fac. giur. Univ. Catania, Jovene, 1949, 57).

[2] Sia consentito citare: Buffone, La mediazione è un sistema omeostatico del processo civile in La Mediazione, 2014,6,6.

[3] Maria Martello meglio di altri rende bene l’idea di questa necessità parlando espressamente di «un nuovo volto della giustizia» (Martello M., La formazione del mediatore, Milano, 2014, 15).

[4] Utilizzando l’efficace espressione di Fragomeni: Fragomeni T., Conflitti istruzioni per l’uso, Milano 2014.

[5] Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 5 dicembre 2012 (Pres. Servetti, est. Blandini).

[6] Sia consentito citare: Servetti, Le garanzie patrimoniali nella famiglia, Giuffré ed., 2013).

[7] L’ordinamento già conosce da data risalente ipotesi legislative in cui è il giudice a svolgere una funzione di conciliatore: v. ad es., art. 145 cc su cui, cfr. Cass. civ., Sez. I, 7 maggio 992, n. 5415 in Vita Notar., 1992.

[8] La “funzione conciliativa” del giudice – visto quale mediatore tipico nel processo – è ben presente in altri Ordinamenti europei che ne hanno rafforzato la portata. Ad esempio, nel codice di procedura civile tedesco (§ 278. Abs 5 ZPO), è previsto un “giudice-conciliatore” («Guterichter») che espleta egli stesso il tentativo di mediazione su processi di colleghi (procedimenti, dunque, dove non deve e non può assumere decisioni)

[9] È la Legge che indica chi e quando sia “mediatore”: v. art. 1, lett. b) del Dlgs 4marzo 2010, n. 28 (definizione di mediatore: “la persona o le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo”).

[10] La Sezione IX civile del Tribunale di Milano ha aderito all’orientamento che giudica applicabile ad ogni controversia la nuova norma (v. Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 26 giugno 2013, pres. Canali, rel. Buffone); peraltro, nel tentativo di conciliazione, ex art. 185-bis cpc, la trattativa viene condotta, se del caso, anche coinvolgendo questioni estranee al processo (cfr. Trib. Milano, sez. IX civ., decreto 14 novembre 2013, pres. rel. N. Dell’Arciprete: in questo caso, i litiganti hanno raggiunto un accordo includendo nel patto la questione della casa in comproprietà che non era oggetto del procedimento). A volte, infatti, la lite davanti al giudice è solo una frazione del conflitto e, per comporlo, è necessario esaminare anche le altre frazioni di litigio (ove possibile).

[11] Anche perché, secondo la giurisprudenza di Milano, «l’art. 40 cpc consente nello stesso processo il cumulo di domande soggette a riti diversi soltanto in ipotesi qualificate di connessione (art. 31, 32, 34, 35 e 36), così escludendo la possibilità di proporre più domande connesse soggettivamente e caratterizzate da riti diversi»; conseguentemente, è esclusa la possibilità del simultaneus processus tra l’azione di separazione o di divorzio e quelle aventi ad oggetto, tra l’altro, la restituzione di beni mobili, il risarcimento del danno, i diritti sulla casa coniugale, etc. (Trib. Milano, sez. IX civ., sentenza 6 marzo 2013, Pres. Manfredini, est. R. Muscio; ancor più recente: Trib. Milano, sez. IX, sentenza 3 luglio 2013, Pres. Canali) essendo queste ultime soggette al rito ordinario, autonome e distinte dalla prima (cfr. ex plurimis, Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2009 n. 11828, Cass. civ., sez. I, 22 ottobre 2004 n. 20638).

[12] V. d.l. 69/2013 conv. in l. 9 agosto 2013 n. 98 che ha introdotto l’art. 185-bis cpc; v. l. 4 novembre 2010 n. 183 che ha modificato l’art. 420 cpc; v. la legge 18 giugno 2009 n. 69 che ha modificato l’art. 92 cpc: in tutti questi casi, rafforzando gli effetti e la portata della “proposta” del giudice.

[13] V. nota n. 8. Secondo l’ordinamento tedesco, per risolvere la controversia in modo amichevole, il Tribunale può rimettere le parti davanti ad un “giudice conciliatore”, il quale non è autorizzato ad assumere alcuna decisione. Il giudice conciliatore è un magistrato dell’ufficio che ha delle specifiche competenze tecniche in materia di mediazione (frutto di corsi di specializzazione e formazione dedicati) e aiuta le parti a trovare da sole, sotto la loro responsabilità, una soluzione ragionevole della lite, mediante accordo. È un giudice neutrale che non può decidere la causa e non può offrire consulenza legale sul caso sottoposto: può solo fare da mediatore e gestire l’udienza di conciliazione, dove devono essere presenti gli avvocati. L’udienza di conciliazione è regolata dal principio della “libertà del metodo” e, dunque, il giudice conciliatore può scegliere egli stesso le tecniche per mediare il conflitto, non esclusa la mediazione civile.

[14] V., al riguardo, Buffone, Servetti, Il rito partecipativo: un invito a «partecipare» per creare legami nuovi piuttosto che distruggere quelli vecchi, in Questione Giustizia on-line; 2014 (13 giugno), www.questionegiustizia.it/articolo/il-rito-partecipativo_un-invito-a-partecipare-per-creare-legami-nuovi-piuttosto-che-distruggere-quelli-vecchi_13-06-2014.php.

[15] Sia consentito richiamare, per un primo commento: Buffone, Processo civile: tutte le novità (d.l. 132/2014 conv. con mod. in l. 162/2014, Giuffré ed., Il Civilista, 2014.

[16] In argomento, v. Aa.Vv. Trattato sulla mediazione familiare (a cura di A. Cagnazzo), Torino, 2012 (Utet Editore).

[17] Su: www.comune.milano.it.

[18] Per un precedente della Sezione che ha applicato l’istituto nel diritto di famiglia, v. Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 29 ottobre 2013 in Guida al Dir., 2013, 46 (gli speciali). Nel caso di specie, si trattava di una controversia in materia di recupero credito promossa dalla madre del minore contro il padre di quest’ultimo.

[19] V. Min. Giustizia, circolare 27 novembre 2013 - Entrata in vigore dell’art. 84 del d.l. 69/2013 come convertito dalla l. 98/2013 recante disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia, che modifica il d.lgs. 28/2010. Primi chiarimenti.