Il passaggio alla sede arbitrale dei giudizi pendenti
L’articolo offre un’analisi approfondita delle molte questioni poste dal nuovo arbitrato deflattivo o di prosecuzione e dall’arbitrato sostitutivo dell’appello; attraverso la disanima delle opzioni dottrinali ad oggi formulate, si prospettano soluzioni possibili soffermandosi in particolare su ambito di operatività dell’istituto, natura sostitutiva della convenzione arbitrale dell’istanza comune delle parti, scelta dell’arbitro e limitazione della libertà delle parti.
Premessa
A meno di tre mesi dalle modifiche in tema di «digitalizzazione della giustizia», introdotte con il Dl 24.6.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, si è registrato un ulteriore intervento sulla disciplina del processo civile diretto a “semplificare”, “accelerare” e “degiurisdizionalizzare” l’amministrazione della giustizia: il fine – per il tramite di mere modifiche alle regole del processo – è un miglioramento dell’efficienza del sistema processuale, da tempo in grave crisi.
Il riferimento è al Dl. 12 settembre 2014, n. 134, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, che, attraverso il perseguimento di quell’obbiettivo, si propone, altresì, molto più ambiziosamente, di «definire l’arretrato».
Questa volta il legislatore del decreto, oltre alla consueta dose (ormai quasi annuale) di riforme procedurali, ha voluto riproporre nell’ordinamento processuale civile italiano strumenti – il ricorso all’arbitrato ed alla conciliazione – in una versione, se non del tutto nuova, certamente molto particolare, nel senso che oggi la soluzione stragiudiziale delle controversie non è stata incentivata semplicemente migliorando o rendendo più efficienti gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento (come è avvenuto con la riforma dell’arbitrato del 2006 o con il Dlgs 4 marzo 2010, n. 28, in tema di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali), ma si è cercato di creare un ponte che consenta di travasare le cause dalla sede pubblica a quella privata quasi senza soluzione di continuità.
Si è pensato, cioè, di risolvere il problema dell’enorme arretrato che incombe sulla giurisdizione senza aumentare gli organici o – per usare la formula d’ordinanza – «senza spese a carico dello Stato», comportandosi, cioè, «come quegli imprenditori che esternalizzano le loro lavorazioni per contenere i costi e per evitare nuove assunzioni[1]»: si è evitato di arruolare – come fatto in altre occasioni – giudici onorari, meno costosi di quelli di professione, ma pur sempre da remunerare, e si è optato per un sistema che scarica il costo degli smaltitori dell’arretrato (arbitri e negoziatori) sulle parti.
In definitiva, la particolarità di tale operazione è che, a parte alcuni interventi sulla disciplina del processo civile, si mira all’autocomposizione preventiva delle liti, attraverso il nuovo istituto della negoziazione assistita da un avvocato e si favorisce la definizione dei giudizi pendenti con il ricorso allo strumento arbitrale.
Ed è proprio all’analisi di quest’ultima misura (come disciplinata dall’art. 1 del citato Dl n. 134 del 2014 e dalla sua legge di conversione) che intendono riferirsi le pagine che seguono, senza, peraltro, alcuna velleità di fornire certezze, mirandosi, molto più semplicemente, ad apprestare una sorta di sintesi degli aspetti più interessanti dei contributi finora pubblicati sul medesimo argomento.
1.L’ambito di applicabilità dell’arbitrato cd. “deflattivo” o “di prosecuzione”
L’arbitrato evocato dal legislatore del 2014 come mezzo più rapido di risoluzione delle liticivilistiche, nonché come strumento deputato alla più celere «definizione dell’arretrato in materia di processo civile» , si rivela, in realtà, un istituto tutt’altro che nuovo, tanto più che l’art. 1, primo comma, del Dl n. 132 del 2014, come risultante dalla sua conversione per effetto della legge n. 162 del 2014[2], richiama espressamente la disciplina di cui agli artt. 806 e ss. cpc.
Si è in presenza, invero, del già noto mezzo di risoluzione delle controversie civili cui le parti possono ricorrere in alternativa o in deroga rispetto alla giurisdizione (rectius: alla funzione giurisdizionale del giudice statale) al fine di ottenere un provvedimento, denominato “lodo”, che in luogo della sentenza produca i medesimi effetti di quest’ultima, eccezion fatta per l’efficacia cosiddetta esecutiva (in tal senso, con espressione in effetti inutilmente ripetitiva, se non tautologica rispetto all’art. 824 bis cpc, si pronuncia l’art. 1, terzo comma, del Dl n. 132 del 2014).
Identici, quindi, ne sono i presupposti di operatività: a) l’esistenza di una controversia civile riguardante diritti disponibili, ossia suscettibili di divenire oggetto di transazione, trasferimento, rinuncia, alienazione, etc. (la lettera della legge, conformemente a quanto disposto in altri testi normativi[3] e soprattutto nell’art. 806, primo comma, cpc, prevede che si tratti di questioni involgenti diritti non indisponibili); b) la scelta libera e non coercibile dei soggetti parti del rapporto controverso di deferire ad arbitri la soluzione della lite che li riguarda. A tal proposito la riforma del 2014 stabilisce che «le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale a norma delle disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile». Una siffatta istanza congiunta ha, pertanto, il sapore, se non la sostanza, di un vero e proprio patto compromissorio “postumo” in virtù del quale i contendenti esprimono favore ad una soluzione della lite in forma arbitrale, nonostante la pendenza della medesima in sede contenziosa giudiziale[4].
La scelta arbitrale a mezzo di istanza rivolta al giudice, anziché delle classiche ipotesi del compromesso tout court o della clausola compromissoria, non deve scandalizzare[5], considerato che l’ordinamento conosce e legittima ipotesi “eterodosse” rispetto a quelle di cui agli artt. 806 e ss. cpc poco sopra ricordate, quali, ad esempio, quelle implicite o indirette conseguenti all’adesione da parte di individui o persone giuridiche a gruppi sociali ristretti ed ai loro statuti e regolamenti interni, laddove questi atti prevedano una giustizia domestica o un’autodichia che si sviluppi nelle forme dell’arbitrato rituale o libero: è questo il caso degli atleti o delle associazioni e società sportive che mediante tesseramento o affiliazione accettano l’ingresso nel micro-ordinamento giuridico dello Sport e tacitamente il proprio assoggettamento alla giustizia interna, esercitata in buona parte attraverso l’istituto arbitrale.
In tal senso non deve, quindi, stupire neppure il consenso presuntivo alla soluzione per arbitri che l’ordinamento giuridico stabilisce per le proprie istituzioni con riferimento a particolari controversie sorte in determinate materie e per determinati valori: recita, infatti, l’art. 1, primo comma, del Dl n. 132 del 2014 che «per le controversie di valore non superiore a 50.000 euro in materia di responsabilità extracontrattuale o aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, nei casi in cui sia parte del giudizio una pubblica amministrazione, il consenso di questa alla richiesta di promuovere il procedimento arbitrale avanzata dalla sola parte privata si intende in ogni caso prestato, salvo che la pubblica amministrazione esprima il dissenso scritto entro trenta giorni dalla richiesta». La presunzione de qua, come appare evidente, non pregiudica la libertà di scelta della Pa parte della controversia, né impone per questa una forma di arbitrato obbligatorio, come tale illegittimo e suscettibile di espunzione dal sistema processuale civile, poiché l’articolazione dello Stato interessata alla querelle potrà pur sempre manifestare il proprio dissenso in forma scritta ed entro trenta giorni dalla richiesta di controparte.
La menzionata disposizione prevede, dunque, che nelle cause civili pendenti, innanzi al Tribunale o in grado di appello, al momento della sua entrata in vigore (13.9.2014)[6] ed aventi ad oggetto diritti disponibili, le parti, con istanza congiunta, possano chiedere il “trasferimento” del giudizio dinanzi ad un collegio arbitrale (per le controversie di valore superiore ad € 100.000,00), o ad un arbitro unico (per le liti inferiori al suddetto valore e sempre che le parti siano d’accordo sul punto, altrimenti necessitando, anche in tal caso, il collegio arbitrale). La norma, invero, precisa che «il procedimento prosegue davanti agli arbitri», prevedendo che «restano fermi gli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale».
Questa singolare forma di translatio judicii impropria[7] ha tratto indubbiamente ispirazione dalla possibilità di passaggio, ormai riconosciuta per effetto dell’intervento additivo della Corte costituzionale[8], fra giurisdizione statale e giurisdizione arbitrale, in caso di accoglimento dell’exceptio compromissi ai sensi dell’art. 819 ter cpc, oppure di declinatoria della “competenza” degli arbitri: in tali ipotesi è, infatti, adesso possibile la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda erroneamente proposta davanti al giudice statale o arbitrale privo di potestas judicandi, in ragione dell’esistenza o meno di una valida ed efficace convenzione di arbitrato.
La nuova disposizione di cui all’art. 1 del menzionato decreto introduce una nuova e singolare ipotesi di “comunicazione” fra giudizio statale ed arbitrato, che opera, però, qualora il processo davanti al giudice togato sia pendente alla data di entrata in vigore della norma predetta, vuoi davanti al Tribunale, vuoi dinanzi al giudice di appello, nel qual caso, appunto, per comune volontà dei litiganti, è possibile proseguire il giudizio davanti agli arbitri.
Si è, dunque, in presenza di una vera e propria prosecuzione del processo, con espressa salvezza degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda giudiziale[9].
In forza del rinvio al titolo VIII dell’ultimo libro del codice di rito, l’arbitrato introdotto dal Dl n. 132 del 2014 – è d’obbligo tenerlo sempre a mente – sarà disciplinato dagli art. 806 e ss. cpc, salve le inevitabili deroghe imposte dallo stesso Dl.
Qualche dubbio è sorto quanto alla possibilità di intendere l’espressione del legislatore relativa alle «cause civili dinanzi al tribunale o in grado d’appello»come riferita all’organo giurisdizionale o al grado di giudizio: in altri termini, non risulta chiaro se la legge consenta il ricorso all’arbitrato “deflattivo” o “di prosecuzione” solo per le cause pendenti davanti al Tribunale ed alla Corte di appello oppure a tutte le cause di primo e di secondo grado.
Il dubbio non è facilmente risolvibile atteso che la norma in commento ha scelto di fare diretto riferimento all’organo giudiziale per indicare le cause di primo grado ed al grado di giudizio per indicare le controversie già decise dal giudice di prime cure.
La soluzione del nodo interpretativo de quo non è fatto di poca importanza, in quanto funzionale a comprendere se l’opzione arbitrale a lite pendente possa essere esercitata anche dinanzi all’Ufficio del giudice di pace per il primo grado e dinanzi al Tribunale in funzione di giudice dell’appello per il secondo.
La disposizione per come concepita sembra comunque fare intendere che l’istanza congiunta ai fini arbitrali potrebbe essere diretta nel primo grado di giudizio soltanto al Tribunale, mentre nel secondo grado, indipendentemente dalla natura dell’organo giurisdizionale adito per l’impugnazione, al giudice codicisticamente competente a decidere il giudizio di appello[10].
In attesa della parola della giurisprudenza, pertanto, vanno escluse dall’ambito di applicabilità della norma in esame le controversie pendenti innanzi ai Giudici di pace e quelle innanzi alla Corte di appello in unico grado.
Il testo normativo, poi, non dice espressamente se sarà possibile utilizzare la nuova disciplina anche per le controversie pendenti dinanzi alle Sezioni specializzate del tribunale[11].
Benché non sussistano particolari ragioni per negare astrattamente l’utilizzabilità del nuovo istituto nei processi pendenti dinanzi a tali organi (tanto più che una larga gamma dei procedimenti di loro competenza vertono su diritti disponibili delle parti), merita, però di essere evidenziato che: a) le sezioni specializzate costituiscono uffici distinti dal tribunale ordinario (tra di essi configurandosi rapporti di competenza e non di semplice distribuzione del carico di lavoro) ed il testo dell’art. 1 in esame parla esclusivamente di tribunale; b) nelle cause societarie di competenza della sezione per le imprese, il meccanismo previsto dal Dl n. 132 del 2014 rischierebbe di vanificare la disciplina dettata in tema di clausola compromissoria statutaria (ex art. 34, del Dlgs n. 17 gennaio 2003, n. 5, introducibile negli statuti di società non quotate solo a maggioranza qualificata dei due terzi e con la possibilità dei soci dissenzienti di recedere dalla società); c) nelle cause di competenza della sezione agraria sussiste il problema della particolare composizione non solo del tribunale, ma anche della corte d’appello, sicché – com’è stato acutamente sottolineato – non esiste alcuna norma che consenta di far convergere le impugnazioni del lodo alla sezione specializzata agraria della corte d’appello[12].
In forza di tali argomentazioni, quindi, e pur nella consapevolezza che adducere inconveniens non est solvere argomentum, parte della dottrina[13] sembra cautamente orientata per l’esclusione dell’applicabilità dell’istituto deflattivo al contenzioso pendente dinanzi alle sezioni specializzate, nonostante l’oggetto del contendere possa rientrare pienamente nella disponibilità delle parti.
Non pare abbia, invece, rilevanza – ai fini dell’arbitrabilità delle controversie pendenti dinanzi alla giustizia statale – il rito di trattazione.
Potranno trasmigrare, dunque, dinanzi all’arbitro o al collegio arbitrale sia le cause trattate con il rito ordinario, sia quelle soggette ad un rito speciale.
Giacché, tuttavia, la giustizia arbitrale può fornire solo un surrogato della tutela di cognizione piena, e poiché agli arbitri (salvo il caso di sospensione dell’efficacia delle delibere societarie di cui all’art. 35, quinto comma, del Dlgs n. 5 del 2003) è fatto divieto – perché privi di imperium – di assumere misure cautelari (art. 818 cpc), non sarà mai possibile invocare l’applicazione del nuovo strumento nel corso di un procedimento cautelare.
Per la medesima ragione gli arbitri non possono surrogarsi alla magistratura in attività di giurisdizione volontaria[14] (nelle quali, peraltro, sovente è prevista anche la partecipazione del pubblico ministero) o adottare provvedimenti interdittali a tutela di situazioni possessorie.
Più dubbia è la soluzione per processi quali quello sommario di cognizione (art. 702-bis cpc) o quello monitorio.
In entrambi, infatti, ci si è chiesto[15] se non ci sia un qualche elemento di incompatibilità.
Il primo, invero, non sembrerebbe rientrare tra le procedure malate cui deve essere somministrata la terapia dell’outsourcing, ma dovrebbe essere esso stesso un rimedio contro l’eccessiva durata del processo. In mancanza, però, di una precisa indicazione nella legge, non si può ritenere che il carattere sommario della cognizione (ammesso, e non concesso, che possa riscontrarsi nel procedimento di cui all’art. 702-bis cpc) sia, di per sé, incompatibile con il passaggio dalla giurisdizione all’arbitrato.
Per i processi di opposizione a decreto ingiuntivo, invece, è opinione ampiamente prevalente in dottrina ed in giurisprudenza che l’arbitrato non sia compatibile con il procedimento monitorio e con la eventuale successiva opposizione.
La fase di opposizione, infatti, appartiene alla competenza funzionale dell’ufficio che ha adottato il decreto opposto e non può essere derogata a favore di altro giudice. Occorrerà vedere se, sul punto, ai soli fini dell’applicazione dell’art. 1, del Dl n. 132 del 2014, vi sarà un mutamento di indirizzo da parte della giurisprudenza.
Allo stato, tuttavia, parte della dottrina ritiene[16] che i problemi di compatibilità tra procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo e giudizio arbitrale possano essere agevolmente risolti con alcuni piccoli accorgimenti.
Intanto, – assume tale opinione – il procedimento arbitrale non potrà essere invocato dalle parti se non dopo l’assunzione delle decisioni (se richieste) in tema di provvisoria esecutività del decreto (artt. 648 e 649 cpc), necessariamente di spettanza del giudice statale.
Poi, quanto alla decisione di merito che rigettando l’opposizione debba dichiarare esecutivo il decreto opposto (qualora questo non sia già stato dichiarato esecutivo ab origine ex art. 642 cpc o in limine iudicii ex art. 648 cpc), si ritiene possa trovare agevole applicazione la disciplina posta dall’art. 654 cpc: l’esecutorietà non disposta con il lodo (che, non avendo esso stesso efficacia esecutiva, non la può donare ad altri provvedimenti) sarà conferita con decreto del giudice che ha pronunciato l’ingiunzione.
Se poi si considera che con l’art. 1 del Dl n. 132 del 2014 sarà possibile trasferire agli arbitri anche le cause pendenti in appello, non ci sarebbe più alcun giustificabile limite alla trasmigrazione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo agli arbitri, atteso che, spesso, la giurisprudenza ha giustificato l’esistenza – ai fini dell’opposizione – di una competenza funzionale del giudice che ha emesso il decreto, assimilando funzionalmente l’opposizione ad un’impugnazione[17].
Inoltre, in linea con i principi generali in materia di arbitrato, sarà impossibile ricorrere al nuovo strumento deflattivo qualora la controversia abbia ad oggetto diritti indisponibili.
Occorre, poi, precisare che un elemento di differenziazione dell’istituto in esame rispetto all’arbitrato tradizionalmente conosciuto dal nostro ordinamento processualcivilistico è dato dall’esclusione dell’applicabilità del primo alle controversie vertenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale, le quali presuppongono una ontologica posizione di disparità tra le parti titolari del rapporto giuridico controverso, tanto da rendere necessaria l’introduzione per via normativa di correttivi teoricamente volti a ripristinare l’equilibrio tra le posizioni dei contendenti.
L’esistenza di questo naturale squilibrio tra le parti in causa si riflette anche sulla libertà di scegliere strumenti alternativi alla risoluzione delle predette controversie mediante ricorso alla giurisdizione statale e tale considerazione non è venuta meno in sede di elaborazione del Dl n. 132 del 2014, laddove nella decretazione di urgenza si è precisato che la scelta arbitrale non sarebbe potuta avvenire che per le controversie «che non vertono in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale».
Onde, però, evitare un evidente passo indietro per il legislatore, atteso che in questo modo si ritornava alla formulazione dell’art. 806 cpc anteriore alla riforma del 2006, allorquando la norma che stabiliva quali materie fossero arbitrabili in modo rituale prevedeva che le parti potevano «far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte, tranne quelle previste negli articoli 409 e 442», ossia proprio le controversie in tema di lavoro, previdenza ed assistenza, si è imposto l’intervento correttivo adottato in sede di conversione del citato decreto legge, così recuperandosi allo strumento arbitrale rituale parte delle dispute lato sensu laburistiche precedentemente tralasciate, in conformità a quanto previsto dall’attuale disciplina del Libro IV, Titolo VIII, del codice di rito: saranno, pertanto, deferibili ad arbitri rituali, anche nell’ipotesi dell’arbitrato “di prosecuzione” o “deflattivo”, le liti ex artt. 409 e ss. cpc qualora si sia in presenza di «cause vertenti su diritti che abbiano nel contratto collettivo di lavoro la propria fonte esclusiva, quando il contratto stesso abbia previsto e disciplinato la soluzione arbitrale». Il presupposto della deferibilità ad arbitri nei modi e nelle forme stabiliti dell’intervento normativo in commento non è quindi la legge, ma il contratto collettivo di lavoro: analogamente a quanto stabilito dal riformulato art. 412-ter cpc, il Ccnl vede confermato dal legislatore il proprio ruolo di strumento idoneo a consentire ai contraenti la scelta di risolvere una lite in subiecta materia in un modo che non preveda il necessario ricorso alla giurisdizione statale, affidandosi ai cosiddetti mezzi di Adr (strumenti di risoluzione alternativa delle controversie); orbene, se sino ad ora la previsione negoziale della scelta arbitrale contenuta nel contratto collettivo di lavoro operava nel senso di consentire una simile opzione solo anteriormente alla introduzione del procedimento civile in sede giudiziale, ora funzionerà anche ex post rimettendo alla volontà delle parti del rapporto controverso la decisione di trasferire in sede arbitrale rituale quella lite già pendente in primo o in secondo grado dinanzi ad un organo giudiziale. La clausola compromissoria, in questi casi (come, peraltro si è già sostenuto[18]), non imporrà tout court la soluzione arbitrale, ma fungerà da mero presupposto per l’operatività dell’art. 1, primo comma, del d Dl n. 132 del 2014, vale a dire metterà in condizione le parti in causa di valutare e di scegliere conseguentemente in modo concorde la traslatio iudicii dinanzi ad un arbitro o ad un collegio arbitrale: nell’ottica dell’arbitrato “di prosecuzione”, quindi, il patto compromissorio trasfuso nella clausola compromissoria dei Ccnl dovrebbe intendersi come una sorta di condizione di procedibilità per la scelta arbitrale “postuma”, da esercitarsi sempre e comunque mediante espressa istanza rivolta all’organo giurisdizionale adito.
Resta fermo, in ogni caso, che l’ambito di operatività dell’istituto arbitrale delineato dall’art. 806, secondo comma, cpc è più ampio di quello tracciato dalla norma in esame, anche se, in concreto, potrebbero sorgere dubbi e complicazioni soprattutto quando la sovrapposizione di fonti incida su situazioni sostanziali inscindibili.
Infine, saranno trasferibili dinanzi agli arbitri solo le controversie che non siano state già assunte in decisione, sicché sembra potersi dire che il termine ultimo oltre il quale non può essere più richiesto l’accesso al surrogato arbitrale sia rappresentato dalla precisazione delle conclusioni nel rito ordinario e dal termine della discussione nei giudizi modellati sul rito del lavoro (ovvero trattati con le modalità previste dall’art. 281-sexies cpc).
Da ultimo, sarà certamente possibile chiedere il trasferimento dinanzi agli arbitri anche dopo la pronuncia di una sentenza non definitiva, nel momento in cui si riapra la fase di trattazione o l’istruttoria.
2. Istanza congiunta e patto compromissorio
La trasmigrazione della controversia dinanzi agli arbitri, ex art. 1, primo comma, del Dl n. 132 del 2014, postula l’istanza congiunta delle parti, da esercitarsi finché la causa, già pendente in sede giudiziale, non sia stata rimessa in decisione in primo o in secondo grado[19].
Dalla lettura della disposizione pare emergere che il rimedio deflattivo non sia utilizzabile nelle cause contumaciali (giacché, non c’è bisogno di sottolinearlo, non vi può essere l’istanza congiunta di tutte le parti), ma non è dato comprendere se tale istanza tenga luogo della convenzione arbitrale, né da chi e come debba essere formulata.
Quanto alla prima questione, il dato testuale sembrerebbe deporre a favore di una autosufficienza dell’istanza congiunta delle parti[20], che, dunque, sostituirebbe totalmente la convenzione arbitrale ed il cui oggetto coinciderebbe con la res in iudicium deducta nella causa da definire. Nulla vieta, tuttavia, che le parti, prima di formulare la detta istanza, convengano tra loro, per iscritto, di rimettersi alla decisione di un arbitro o di un collegio arbitrale. Anzi, in linea di principio – qualora esse decidessero di avvalersi dell’arbitrato in esame e qualora anche si ritenesse (come pare si debba) sufficiente la sola istanza congiunta – sarà auspicabile che prima di rivolgere l’istanza al giudice si raggiunga un accordo sul punto[21].
Ma anche a prescindere da quanto si è appena detto, la stipula di un patto compromissorio potrà servire alle parti (oltre che per ottenere più semplicemente il decreto di esecutività ex art. 825 cpc), ad esempio, per stabilire la sede dell’arbitrato (in ordine alla quale nulla si rinviene nel Dl in esame), per scegliere un giudizio di equità (art. 822 cpc), oppure, ancora, per stabilire se il lodo di diritto sia impugnabile per violazione di legge (art. 829, terzo comma, cpc). Ciò non toglie, comunque, che tali disposizioni possano venire eventualmente inserite direttamente nell’istanza congiunta.
Con la menzionata istanza, le parti danno in sostanza origine ad una convenzione di arbitrato, nelle specie ad un compromesso per arbitrato rituale[22], anche se non è chiaro se tale scelta operi con effetti limitati al procedimento in corso, oppure se comporti la definitiva compromissione in arbitrato della lite.
In ossequio ai requisiti richiesti per il compromesso arbitrale, l’istanza presentata congiuntamente da tutti i litiganti deve assumere la forma scritta, salva la possibilità della verbalizzazione delle loro intenzioni in udienza, purché la sottoscrizione delle parti sia apposta in calce al verbale.
Questo patto compromissorio può anche essere «stipulato» in via progressiva, ossia con istanza scritta di una delle parti ed adesione implicita dell’avversario che sia una pubblica amministrazione, limitatamente alle controversie di valore non superiore a 50.000 euro in materia di responsabilità extracontrattuale o aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro: in questa ipotesi, infatti, il consenso della pubblica amministrazione in ordine alla richiesta avanzata dalla sola parte privata si intende in ogni caso prestato, salvo che la stessa esprima il proprio dissenso scritto entro trenta giorni dalla richiesta.
In altri termini, in quest’ultima ipotesi, giocando, probabilmente, sulla scarsa prontezza di riflessi della Pa, si è creato un meccanismo di silenzio accettazione diretto a favorire il ricorso all’arbitrato: in particolare, oltre a sostituirsi l’espressione della volontà di una delle parti con una presunzione, si è derogato alla necessità della forma scritta, che paradossalmente è richiesta non quando si tratta di dimostrare il consenso ma di formalizzarne la mancanza[23].
Occorre, poi, affrontare il problema di chi debba (e di come si debba) formulare l’istanza per la traslazione del processo dinanzi all’ufficio arbitrale. Si tratta, cioè, di stabilire se l’istanza sia un atto riservato personalmente alle parti, ovvero se essa rientri nello ius postulandi dei difensori. Fermo restando che la scelta di rivolgersi agli arbitri dovrà essere opportunamente e preventivamente concordata per iscritto sia tra la parte e il proprio difensore, sia – come detto – tra le stesse parti in conflitto, non è chiaro se, ai fini del trasferimento del processo, sia sufficiente che i difensori formulino verbalmente l’istanza in udienza, ovvero occorra una apposita istanza scritta. E, comunque, non è chiaro se i difensori possano operare in virtù dell’originario mandato, ovvero debbano essere muniti di procura speciale, ad instar di quanto previsto dagli artt. 185 cpc (per la conciliazione) e 306 cpc (per la rinuncia agli atti del giudizio).
Si è da alcuni[24] osservato come l’attività che introduce l’“arbitrato deflattivo” non possa essere assimilata ad una forma di conciliazione o transazione (poiché la lite non viene affatto definita, ma solo deferita alla decisione di giudici privati), né ad una rinuncia agli atti del giudizio (poiché, nonostante il processo statale di primo grado si estingua, il giudizio prosegue dinanzi agli arbitri con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda). Se, dunque, si ritiene – come assume tale dottrina – che la scelta dell’“arbitrato deflattivo” rientri nella discrezionalità tecnica del difensore, senza importare un’incisione del diritto controverso, allora essa potrà essere compiuta (salva, chiaramente, la eventuale responsabilità del professionista nei confronti del cliente) senza necessità di procura ad hoc.
Secondo altri[25], invece, fermo restando che, in questo caso, la legittimazione a richiedere l’arbitrato “deflattivo” (o “di prosecuzione”) dipenderebbe da quanto contenuto nella procura ad litem, cosicché solo se quest’ultima prevedesse specificamente il conferimento ex ante del potere di proporre l’istanza di cui all’art. 1, primo comma, del Dl n. 132 del 2014 il difensore potrebbe validamente avanzare la proposta o accettare quella della controparte di proseguire il contenzioso in chiave arbitrale, sembrerebbe più opportuno e conforme alla disciplina generale dell’arbitrato che, nel silenzio della legge, l’istanza arbitrale venga manifestata personalmente dalla parte sostanziale del rapporto controverso, magari anche a mezzo di rappresentante. In buona sostanza – ad avviso di tale opinione – si verrebbe a verificare una situazione analoga a quello che accade nelle ipotesi di rinuncia all’azione, per cui l’art. 306 cpc postula il consenso personale della parte del rapporto controverso o quello del suo difensore munito però di procura speciale: ciò poiché non solo la scelta di proseguire il contenzioso nelle forme del giudizio arbitrale rituale non è attività tipicamente riconducibile in quelle di cui al mandato alle liti, ma anche perché in questo modo la parte dispone di un proprio diritto, per cui solo questa sarebbe legittimata a disporne in quanto titolare della situazione giuridica soggettiva.
Inoltre, per quanto riguarda la forma dell’istanza, in assenza di specifici requisiti richiesti dalla legge, sarà perfettamente ammissibile – in quanto rispondente ai principi generali di libertà delle forme e di adeguatezza delle stesse allo scopo dell’atto – un’istanza formulata oralmente in udienza dalle parti (o dai loro difensori muniti di procura speciale, aderendosi all’impostazione da ultimo riportata) e debitamente verbalizzata (con sottoscrizione del verbale stesso da parte degli istanti).
Comunque, a fini pratici, ogni ostacolo potrebbe essere facilmente aggirato attraverso la presentazione di un’istanza scritta, sottoscritta personalmente dalle parti e dai rispettivi difensori. Una soluzione che, del resto, sembra anche avere il pregio di snellire le produzioni documentali necessarie per ottenere l’exequatur dell’emanando lodo. A tale scopo, al momento della richiesta di esecutività, sarà sufficiente depositare – oltre all’originale o a una copia conforme del lodo stesso – una copia conforme dell’istanza congiunta (al posto della convenzione di arbitrato)[26].
Quanto da ultimo detto, tuttavia, sembra escludere in assoluto la possibilità che le parti presentino, anche in udienza, istanze materialmente distinte, ancorché tutte convergenti verso il medesimo obiettivo.
3. La trasmissione del fascicolo al Consiglio dell’ordine degli avvocati
Formulata l’istanza congiunta delle parti, il giudice dovrà valutare l’ammissibilità dell’arbitrato muovendo dall’esame della disponibilità del diritto in contesa, verificando, altresì, se la controversia sia per altri versi inarbitrabile (se non rientri, ad esempio, tra le controversie di lavoro o se sia previsto l’intervento del pubblico ministero), nonché la ritualità e la tempestività dell’istanza: l’esito positivo di tale complessiva verifica comporterà, poi, la trasmissione del fascicolo (d’ufficio) al presidente del Consiglio dell’ordine (degli avvocati) sito nel circondario in cui ha sede il giudice a quo[27].
La disposizione sul punto appare estremamente lacunosa e sconta una eccessiva sinteticità, che rischia di nuocere alla chiarezza della disciplina e, dunque, alla omogenea applicazione della norma su tutto il territorio nazionale.
In primo luogo – e malgrado sia stato omesso di indicare esplicitamente che il fascicolo da trasmettere è quello d’ufficio, così come che il Consiglio dell’ordine è quello degli avvocati – non è chiaro con quale forma ed in che termini (e, soprattutto, con quali contenuti ed effetti) il giudice debba adottare il provvedimento di trasmissione del fascicolo.
Considerando che questi dovrà (almeno apparentemente) limitarsi ad impartire disposizioni sulla prosecuzione del processo, il provvedimento assumerà la forma di ordinanza succintamente motivata (probabilmente con una motivazione che rinvia, per relationem, all’istanza delle parti). E qualora le parti depositino in cancelleria (e, dunque, fuori udienza) un’istanza congiunta, sembra ipotizzabile che il giudice possa disporre la trasmissione del fascicolo anche con ordinanza resa in calce alla stessa istanza, vista la sostanziale inutilità di fissare un’udienza per discutere la questione in contraddittorio: se tutti (giudice incluso) si trovano d’accordo sull’ammissibilità dell’arbitrato e le parti ne fanno richiesta non c’è alcuna questione da dibattere.
Con la medesima ordinanza, inoltre, il tribunale[28], nelle causa di primo grado, dovrà disporre, secondo alcuni[29], la cancellazione della causa dal ruolo. Invero, malgrado il silenzio della legge sul punto, sarebbe contrario alla logica – secondo tale opinione – privarsi di un fascicolo senza cancellare il relativo affare giudiziario dal ruolo dell’ufficio.
Questione per cui, invece, la soluzione pare assai meno intuitiva, riguarda l’efficacia – più o meno preclusiva – dell’ordinanza di ammissione delle parti all’“arbitrato deflattivo”, in merito sia alla arbitrabilità della lite, sia alla ricorrenza di un patto compromissorio per istanza congiunta.
Si è ritenuto[30], infatti, che, in assenza di rimedi avverso l’ordinanza, questa non possa acquisire alcuna stabilità preclusiva per le doglianze delle parti, le quali avranno l’onere di proporle nella prima difesa utile dinanzi al collegio arbitrale[31]. Tuttavia, per quanto riguarda l’eventuale inarbitrabilità della controversia, la questione – com’è noto – potrà essere sempre fatta valere, anche dopo la pronuncia del lodo e la consumazione dei termini di impugnazione dello stesso, con un’autonoma actio nullitatis.
Adottata l’ordinanza di trasmissione del fascicolo, l’adempimento dovrà essere evaso d’ufficio dal personale di cancelleria senza il rispetto di alcun termine (neppure ordinatorio). Ciò fa sospettare che i tempi necessari per compiere il trasferimento potranno variare, anche sensibilmente, da ufficio a ufficio.
Nebulosa è la sorte cui è destinato il fascicolo d’ufficio una volta che sia stato trasmesso al Consiglio dell’ordine ed ancor meno chiara è la meta di tale fascicolo allorquando il giudizio arbitrale si sia esaurito. Non essendo previsto nulla, sembra che la cancelleria del giudice statale si spogli definitivamente del fascicolo, affidandolo al Consiglio dell’ordine degli avvocati. Se, poi, il dovere di conservazione del medesimo fascicolo spetti al Consiglio dell’Ordine, ovvero agli arbitri successivamente nominati, resta un quesito di non facile soluzione[32].
4. La scelta degli arbitri ed il procedimento arbitrale
Premettendosi, – ma sul punto si tornerà anche nei paragrafi successivi – quanto allo svolgimento dell’arbitrato, che restano ferme le norme dettate dalla disciplina codicistica dell’arbitrato rituale, che consentono alle parti, ed in subordine all’arbitro o agli arbitri, di stabilire le regole che presiederanno allo sviluppo del giudizio arbitrale, ferme restando le disposizioni inderogabili e cogenti ex artt. 806 e ss. cpc, una sensibile differenza, però, si rinviene riguardo ai precetti che stabiliscono la scelta dei “giudici privati” cui è demandata la soluzione del caso concreto.
Il libro IV, titolo VIII, del codice di rito contiene la norma di cui all’art. 810 cpc, la quale ha il fine precipuo di risolvere le situazioni di empasse che si dovessero venire a creare nella scelta e nella nomina degli arbitri ad opera delle parti della controversia attraverso il ricorso al presidente del Tribunale del luogo in cui è stabilita la sede dell’arbitrato. La regola generale in materia vuole, quindi, che si garantisca l’autonomia e la libertà di scelta delle parti nella nomina dell’arbitro unico o degli arbitri del collegio, con possibilità di ricorrere ad un soggetto qualificato dell’ordinamento giuridico solo in via subordinata e solo laddove si rinvengano difficoltà di accordo o condotte ostruzionistiche nella scelta comune.
Tale libertà viene evidentemente ridimensionata ora per l’arbitrato de quo: l’art. 1, secondo comma, del Dl n. 132 del 2014, così come modificato dalla legge di conversione n. 162 del 2014, prevede, con una formulazione poco armoniosa dal punto di vista lessicale, la trasmissione del fascicolo (di ufficio) riguardante la causa che si vuole definire per arbitri al presidente del Consiglio dell’ordine (degli avvocati) del circondario in cui ha sede il Tribunale investito della controversia pendente in primo grado oppure ove ha sede la Corte di appello davanti alla quale è incardinato il giudizio di secondo grado; peraltro, l’individuazione del Consiglio dell’ordine (degli avvocati) “competente” non è circostanza di poco conto, atteso che questa risulta funzionale alla individuazione del novero dei soggetti entro il quale dovranno essere scelti gli arbitri che dovranno risolvere quella determinata disputa.
L’opzione tra arbitro unico e collegio arbitrale, che per scelta normativa non potrà superare il numero di tre individui, sarà determinata da due elementi: in primis, il valore della causa e, in secondo luogo, la volontà delle parti. In altri termini, se la lite avrà valore superiore ad € 100.000,00 questa sarà composta da un collegio arbitrale, mentre se la medesima avrà valore inferiore ad € 100.000,00 la scelta tra arbitro unico o collegio arbitrale sarà rimessa alla concorde determinazione dei contendenti (qualora non si giungesse ad un accordo sul punto, l’arbitrato deflattivo avverrà in composizione collegiale).
L’individuazione personale dei soggetti cui sarà deferita la controversia sarà, quindi, operata prima facie dalle parti del rapporto controverso che, laddove trovassero un accordo, procederebbero alla scelta tra «gli avvocati iscritti da almeno cinque anni nell’albo dell’ordine circondariale che non hanno subito negli ultimi cinque anni condanne definitive comportanti la sospensione dall’albo e che, prima della trasmissione del fascicolo, hanno reso una dichiarazione di disponibilità al Consiglio stesso».
In caso di contrasto circa la nomina del terzo arbitro ci si deve chiedere se sia possibile il ricorso al presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati per la nomina del solo terzo o di tutti i membri del collegio: la norma al riguardo non è chiara, ma ragioni di mera logica giuridica e di rispetto del sistema normativo non sembrano poter escludere la prima soluzione, la quale sarebbe, quindi, da preferire. L’individuazione del solo terzo componente del collegio, infatti, non soltanto è analogica rispetto a quella che il presidente del Tribunale compie ex art. 810 cpc, ma è pure in linea con il presupposto volontaristico e libertario della procedura arbitrale, ragion per cui non si vedrebbe alcun fondato motivo per consentire la revoca delle nomine già eseguite dalle parti (verosimilmente un arbitro per ciascuna, laddove i contendenti siano solo due) e la loro sostituzione con altri due indicati dal presidente del Coa.
Altra rilevante problematica è quella che si pone allorquando le parti della causa fossero tre o più. La possibilità che vengano individuati di comune accordo tra tutte le parti tutti e tre i membri del collegio arbitrale è certamente risolutiva di ogni potenziale problema: la scelta di un collegio unico appare la più semplice. Qualora poi si sia in presenza di tre contendenti, ciascuno portatore di un proprio interesse ai sensi dell’art. 100 cpc, anche qui il problema non dovrebbe porsi se ad ognuno di essi fosse consentita la nomina del proprio “arbitro di fiducia”; analogamente nulla quaestio se tutti i soggetti coinvolti nella querelle giudiziale potessero essere ricondotti a due o tre centri di interesse, se non proprio coincidenti, quanto meno simili o affini. Al contrario, laddove ciò non fosse possibile, è evidente come, in astratto, si porrebbe una questione di non poco conto, considerato che è facile intuire come ad ogni parte non piacerebbe subire la decisione altrui, ma vorrebbe concorrere nella scelta degli arbitri in modo diretto ed attivo: in questi casi, salvo imprevedibili intese, opererà come extrema ratio l’intervento del Presidente del Coa, il quale a fronte di contrasti tra i tre o più contendenti circa l’individuazione dei membri del collegio arbitrale, provvederà esso stesso alla nomina[33].
Va poi osservato che l’ambito degli avvocati candidati ad essere scelti come arbitro è stato circoscritto dal legislatore in forza di due elementi.
Il primo è quello della preventiva disponibilità dell’avvocato iscritto a quel determinato Coa: la disponibilità deve essere espressamente dichiarata al Consiglio dell’ordine degli avvocati di appartenenza anteriormente alla nomina, cosicché, eccezion fatta per le ipotesi di incompatibilità previste in generale dalla disciplina di cui agli artt. 806 e ss. cpc ed in particolare dal Dl n. 132 del 2014 così come modificato dalla legge n. 162 del 2014[34], non si perderà ulteriormente tempo per l’accettazione della nomina da parte del soggetto prescelto.
Il secondo elemento discriminante è l’anzianità di iscrizione all’albo professionale, che dovrà essere di almeno cinque anni, collegato all’assenza negli ultimi cinque anni di condanne definitive comportanti la sospensione dall’albo. La scelta di soggetti che sono operatori del diritto dovrebbe garantire una maggiore professionalità nella risoluzione delle controversie rispetto a quanto astrattamente previsto dalla generale disciplina dell’arbitrato, atteso che ai sensi dell’art. 812 cpc chiunque sia in possesso della capacità di agire potrebbe svolgere la funzione di arbitro. Tale osservazione appare confortata dall’inciso introdotto nell’art. 1 (comma V bis) dalla legge di conversione del decreto legge in commento: prevede, infatti, la norma de qua che, con un provvedimento successivo all’entrata in vigore della disciplina sin qui esaminata, dovranno essere stabiliti «i criteri per l’assegnazione degli arbitrati tra i quali, in particolare, le competenze professionali dell’arbitro, anche in relazione alle ragioni del contendere e alla materia oggetto della controversia». La scelta del presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati dovrà avvenire, allora, non casualmente, bensì con riferimento alle specifiche competenze e cognizioni di cui l’iscritto all’albo è in possesso al fine di garantire alle parti del rapporto controverso una professionalità concreta e non soltanto presuntivamente derivabile dal titolo; per tale motivo, chi scrive ritiene che i criteri di scelta de quibus dovrebbero trovare applicazione sin d’ora, senza attendere l’emanazione del decreto di cui al comma 5-bis.
Va infine sottolineato che, in caso di necessità di sostituzione degli arbitri, nulla è previsto, ma non si può non concordare, però, con chi[35] ha sostenuto che il Presidente del Tribunale resta titolare dei corrispondenti poteri ai sensi degli artt. 811 ed 813-bis cpc.
Tanto premesso, non sembra superfluo riportare alcune osservazioni formulate in dottrina circa la scelta degli arbitri come finora descritta.
In particolare, si è evidenziato[36], quanto alla loro nomina effettuata dal presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati che non dovrebbe trovare alcuno spazio applicativo la disposizione contenuta nell’art. 832, quarto comma, cpc, che fa divieto alle organizzazioni associative di nominare arbitri in cause nelle quali sia parte un loro iscritto. Deve, però, chiedersi se – nelle controversie che vedano tra le parti contrapposte un avvocato del foro circondariale – sia opportuno che il presidente del Consiglio dell’ordine proceda comunque alla designazione. Sul punto – anche a fronte di quanto disposto dall’art. 34, secondo comma, del Dlgs n. 5 del 2003, in merito all’estraneità alla disputa del terzo designatore degli arbitri – si è già dibattuto in dottrina, giungendosi alla conclusione che contro la carenza di equidistanza del terzo designatore non vi è alcun rimedio, neppure di tipo ricusatorio[37]. Sicché non rimarrà che attendere la nomina degli arbitri e verificare se essi si trovino in una delle condizioni di cui all’art. 815 cpc ai fini di un’eventuale istanza di ricusazione.
Comunque, sulle nomine da parte del presidente del consiglio dell’ordine, si pongono una serie di ulteriori quesiti ai quali il Dl nn. 132 del 2014 non fornisce alcuna risposta. In particolare, non è spiegato come si debba procedere nel caso in cui le parti trovino un’intesa solo su alcuni arbitri e non su tutto il collegio (sul punto, peraltro, vedasi quanto si è già detto in precedenza); né la norma dice – in questo replicando fedelmente la lacuna presente nell’art. 810 cpc – se il presidente del Consiglio dell’ordine, prima di nominare gli arbitri, debba sollecitare dinanzi a sé il contraddittorio tra le parti.
Non è da escludere che le parti – seguendo le modalità della cd. clausola binaria – si accordino per attenersi all’art. 810 cpc nel nominare ciascuna il “proprio” arbitro, confidando poi nei buoni uffici dei due arbitri così nominati per la designazione del terzo arbitro. Infatti, anche una simile intesa tra le parti potrebbe, ragionevolmente, integrare gli estremi della concorde individuazione degli arbitri richiesta dal secondo comma, ultimo inciso, dell’art. 1, del Dl n. 132 del 2014.
In tal caso, tuttavia, si può generare una situazione di stallo in merito alla designazione del terzo arbitro, allorché i due arbitri già nominati (verosimilmente per i veti incrociati delle parti) non riescano a convergere sul nome di colui che assumerà le vesti di presidente del collegio. La mancata formazione del collegio, in tal caso, imporrà l’intervento del presidente dell’Ordine degli avvocati[38], il quale – come si è già anticipato – dovrà limitarsi (per le ragioni già esposte) a nominare solo il terzo arbitro e non l’intero collegio.
Potrebbe propendersi, invece, per la soluzione opposta, laddove le parti non abbiano concordato di ricorrere alla tecnica di nomina binaria, ma una delle due abbia unilateralmente notificato all’altra un atto di nomina, al quale non sia seguita la nomina dell’altra parte. In tal caso, infatti, l’unico arbitro designato non è stato il frutto di una scelta concorde delle parti. Se, dunque, il presidente del Consiglio dell’ordine si limitasse ad integrare il collegio arbitrale con la nomina dei due arbitri mancanti, verrebbe violato il principio di eguaglianza delle parti nella formazione del collegio arbitrale, visto che solo una delle parti avrebbe potuto scegliere un “proprio” arbitro. Pertanto, in simili ipotesi, quel Presidente dovrà procedere in piena autonomia alla nomina di tutti i componenti del collegio[39].
Occorre, altresì, domandarsi cosa accada laddove le parti non si attivino per la nomina degli arbitri. Ora, verificandosi una simile circostanza, secondo parte della dottrina[40] il processo dovrebbe estinguersi per inattività delle parti, benché l’estinzione sia espressamente prevista – come si dirà oltre – dal quarto comma dell’art. 1 del Dl n. 132 del 2014, solo per il caso di arbitrato “sostitutivo” del giudizio d’appello e non anche per l’arbitrato “sostitutivo” del giudizio di primo grado.
Si assume, infatti, che, una volta disposta la trasmissione del fascicolo al Consiglio dell’ordine del circondario in cui ha sede il giudice a quo, il processo viene a trovarsi in una situazione di quiescenza – che si protrarrà fino alla “riassunzione” ad impulso della parte più diligente (“riassunzione” che si sostanzia nell’atto di nomina degli arbitri o nella richiesta di nomina al presidente del consiglio dell’ordine) – paragonabile, almeno da un punto di vista funzionale, allo stato in cui versa una causa dopo una pronuncia di incompetenza e prima che sia riassunta dinanzi al giudice competente. Perciò, anche in virtù di quanto previsto dall’art. 307, terzo comma, cpc, la mancata prosecuzione del giudizio per inattività delle parti non potrebbe che determinarne l’estinzione. E visto che l’art. 1 del citato decreto non autorizza il giudice a quo a fissare termini di riassunzione dinanzi al collegio arbitrale, si conclude nel senso che l’estinzione opererebbe dopo il decorso del termine legale di tre mesi dalla comunicazione dell’ordinanza (o, se pronunciata in udienza, dall’udienza stessa), giusta quanto previsto dall’art. 50 cpc.
Diverso è, invece, il caso in cui le parti, non trovando un’intesa tra loro per la nomina degli arbitri, ne abbiano formulato la corrispondente istanza al presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati e questi – per le più varie ragioni – non abbia assunto alcun provvedimento. In siffatta ipotesi si potrebbe ritenere che la nomina debba intervenire entro il termine di trenta giorni dall’avvio del procedimento amministrativo, o, comunque, in un termine non superiore a novanta giorni (art. 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241), e che, qualora, decorso anche questo termine, non si sia provveduto, le parti – in applicazione dell’art. 810, ultimo comma, cpc – potranno rivolgersi al presidente del Tribunale.
Quanto, poi, alle qualità per essere nominato arbitro previste dalle già riportate disposizioni di cui ai commi 2 e 2-bis dell’art. 1 del decreto in esame, si è ritenuta[41] la disposizione eccessiva, perché priva le parti di concordare liberamente che il collegio possa avere composizione mista (ad esempio, utilizzando saperi ed esperienze diverse: commercialisti, ingegneri, architetti, ecc.), ovvero di nominare avvocati non iscritti presso l’ordine circondariale al quale è stato trasmesso il fascicolo.
Parimenti criticabile, poi, è l’imposizione di una iscrizione presso l’albo circondariale da almeno cinque anni, visto che – senza garantire in alcun modo che la nomina ricada su un giurista esperto (visto che si può essere esperti in un settore e completamente inesperti in altri settori anche dopo trent’anni di esercizio della professione forense) – esclude che la nomina possa cadere su un avvocato trasferitosi recentemente in quel circondario, benché esercente la professione da più di cinque anni.
Si è quindi auspicato[42], al fine di superare tale irragionevolezza, di interpretare la previsione suddetta, correttivamente, nel senso che possano essere nominati arbitri solo gli avvocati esercenti da non meno di cinque anni, a condizione che siano attualmente iscritti nell’albo dell’ordine circondariale competente (e non gli avvocati che siano iscritti da almeno cinque anni in quello stesso albo).
Argomentazioni analoghe potrebbero, forse, utilizzarsi anche con riferimento alla scelta di riservare la nomina agli avvocati che non abbiano subito condanne definitive comportanti la sospensione dall’Albo. Una simile limitazione, infatti, avrebbe senso solo se imposta al presidente del Consiglio dell’ordine, per garantire (formalmente) l’integrità morale degli arbitri nominati, non anche se imposta anche alle parti, le quali devono poter scegliere le persone del cui giudizio si fidano, perché in ciò sta l’appetibilità dell’istituto arbitrale.
Inoltre, le dette limitazioni (iscrizione in quell’albo professionale da almeno cinque anni e assenza di condanne definitive comportanti la sospensione dall’Albo), generano ulteriori inconvenienti per le parti.
Esse, infatti, da un lato – prima ancora di proporre i nomi che s’intendono designare come arbitri – dovranno eseguire le necessarie verifiche presso il Consiglio dell’ordine, per sapere se il tale avvocato è iscritto colà da almeno cinque anni e se abbia subito condanne del tipo di quelle in precedenza descritte; dall’altro, qualora una di loro non risieda, né abbia sede, all’interno del circondario (e sia assistita da un avvocato appartenente ad altro ordine circondariale), difficilmente potrà individuare consapevolmente gli arbitri al cui giudizio si sottoporrà e potrà nutrire il sospetto che gli arbitri scelti da altri possano pregiudicarla. Del resto, proprio per garantire una sorta di equidistanza e imparzialità geografica e culturale, negli arbitrati internazionali capita spesso che le parti – di nazionalità diversa – scelgano i rispettivi arbitri tra i propri connazionali e poi designino un presidente di collegio di altra nazionalità.
Inopportuna, infine, è stata altresì considerata[43] la previsione di una dichiarazione di disponibilità che debba essere comunicata dall’avvocato (aspirante arbitro) al Consiglio dell’ordine di appartenenza, prima della trasmissione del fascicolo d’ufficio dalla cancelleria del giudice a quo, non comprendendosi, il perché, anche in tal caso, le parti debbano veder limitata la propria libertà di scegliere chi ritengono sia in grado di giudicare saggiamente e con equilibrio una loro controversia e non possano concordemente individuare uno o tre avvocati che – benché non abbiano reso la prescritta dichiarazione – si siano dichiarati disponibili ad assumere quello specifico incarico.
Appare comunque opportuno ricordare, fin da ora, che la legge di conversione del decreto de quo, attraverso il comma 5-bis aggiunto all’art. 1 di quest’ultimo, ha previsto che «con il decreto di cui al comma 5 (il riferimento è al decreto regolamentare del Ministro della giustizia che potrà stabilire riduzioni dei parametri relativi ai compensi degli arbitri. Ndr) sono altresì stabiliti i criteri per l’assegnazione degli arbitrati tra i quali, in particolare, le competenze professionali dell’arbitro, anche in relazione alle ragioni del contendere ed alla materia oggetto della controversia, nonché il principio della rotazione nell’assegnazione degli incarichi, prevedendo altresì sistemi di designazione automatica»: è auspicabile, quindi, che almeno alcuni degli inconvenienti finora descritti possano trovare soluzioni adeguate.
Una volta individuati, coloro che intendano assumere l’incarico dovranno accettarlo per iscritto, anche mediante sottoscrizione del verbale di prima riunione del collegio (art. 813 cpc).
Prescindendo dal rispetto di un generale obbligo di rivelazione delle situazioni di incompatibilità (cd. duty of disclosure), la cui vigenza nell’ordinamento italiano è oggetto di vivaci discussioni[44], l’appartenere all’Ordine degli avvocati impone ai designati il rispetto dell’art. 55 del vigente codice deontologico forense (sostanzialmente identico all’art. 61 del nuovo codice, approvato dal Consiglio nazionale f