Magistratura democratica

Comunicare il processo

di Francesco Petrelli

Come e perché è necessario comunicare il processo. Occorre ristabilire l’alleanza fra processo e ragione, fra la cultura condivisa del Paese e il processo penale. L’errore dell’avvocatura non è stato quello di non aver saputo difendere il “giusto processo” ma di non averlo saputo “comunicare”. Di aver lasciato che intere classi politiche e dirigenti di questo Paese crescessero e venissero educate alla scuola illiberale di chi vede nel processo penale solo un ostacolo alla affermazione della legalità e non uno strumento di riaffermazione dello statuto democratico di un Paese. Una società spaventata, resa insicura ed incerta dalla crisi e dalla globalizzazione, ha cessato così del tutto di vedere nel diritto uno strumento di realizzazione della persona. Ciò che viene chiesto dal cittadino non sono più diritti ma sono in realtà tutele e protezioni, non nuovi spazi di libertà, ma più benefici e più assistenza, non diritti civili e garanzie della persona per poter sviluppare e veder maturare le proprie aspettative individuali, politiche e sociali. Ed in questo contesto è sempre più necessaria un’avvocatura capace di parlare la difficile lingua dei diritti dimenticati.

1. Pochi anni prima della dichiarazione di indipendenza, il Congresso americano scriveva in una missiva al popolo inglese: «noi intendiamo di godere dei medesimi vantaggi che la Costituzione inglese assicura ai sudditi, e particolarmente quello, che abbastanza non si può stimare del giudizio per giurì, che noi pensiamo appartenere all’essenza della libertà inglese, che nessuno possa essere condannato senza essere ascoltato, né punito per offese contestatigli senza avere la facoltà delle difese»[1]. Si tratta di un esempio lontano ma efficace di quello che può essere il rapporto che lega un popolo al “suo” processo. Certamente le radici politiche remotissime del “giudizio dei pari” e l’istituzione stessa della giuria, che coinvolge direttamente il cittadino nel meccanismo decisionale del processo, hanno avuto un ruolo non indifferente nella formazione e nella conservazione di quel legame.

Ma vi è un elemento che probabilmente supera quella distanza storica, politica e culturale e ci induce ad alcune riflessioni. Quel popolo di insorti, infatti, lontano dalla madre patria, insediato in una terra ostile, “vuole” il suo processo in quanto ne ha assimilato il linguaggio[2], traendone il profondo nesso politico che lo lega ai vantaggi della Costituzione e, dunque, alla difesa della democrazia e della propria libertà[3]. E se pure è vero che è quella specifica forma di processo a porsi come un elemento empatico di forte coinvolgimento, è anche vero che essa si mostrava soprattutto come un convincente e condiviso strumento di soluzione delle questioni giudiziarie. La condivisione del fondamento razionale del proprio modello processuale è, difatti, il presupposto indeclinabile della crescita di una vera cultura del processo. Non è necessario che una collettività ne conosca le regole applicative, quel che di tecnico si cela nei capoversi a volte oscuri della legge positiva, ma è indispensabile che si identifichi con la sua base razionale, ovvero con quel nucleo di principi che ne costituiscono, o ne dovrebbero costituire, il presupposto condiviso.

 

2. Ristabilire l’alleanza fra processo e ragione, fra la cultura condivisa del Paese e processo penale non è certo un’opera agevole. La lingua dei social e la lingua del processo penale, il lessico delle sue stesse radici costituzionali, sembrano attingere a vocabolari oramai divergenti ed incompatibili[4]. La politica, l’informazione ed il mondo dell’educazione sembrano inconsapevoli ed indifferenti al problema. Ma i guasti di questa indifferenza, dopo trent’anni di pratica del nuovo processo accusatorio, sono evidenti, non solo nell’ambito di una più ampia riflessione sulla scarsa resilienza sociale ai fenomeni del populismo giudiziario[5], ma emergono anche dalla esperienza minima di ogni singolo operatore del processo: ignoranza dei meccanismi basici del processo penale nell’ambito di chi opera nell’informazione e conseguente ignoranza diffusa delle sue stesse basi cognitive.

Dalla corretta individuazione dei personaggi del processo e delle rispettive funzioni, alla comprensione del metodo attraverso il quale il giudice conosce i fatti processuali. Sono pochi, infatti, i testimoni che, sedendo davanti al giudice in un pubblico dibattimento, non si meraviglino delle bizzarre pratiche del “nostro” processo. Quanto ai ruoli, poi, non c’è certo da meravigliarsi che giudici e pubblici ministeri siano collocati in un indistinto spazio della giurisdizione, senza cogliere affatto la rilevanza apicale della figura del giudice e l’esclusività della sua funzione. Ancora in una importante trasmissione televisiva, dedicata di recente alla indagine di «Tangentopoli», l’autore dei testi qualifica Antonio Di Pietro come il «giudice Di Pietro»[6]. Nella intera ricostruzione storico-giudiziaria di “pubblici ministeri” come soggetti di un processo di parti non c’era dunque traccia e la figura (quella vera) del giudice restava sconosciuta. Si potrebbe dire che si sia trattato di una sintesi giornalistica, perché all’epoca (se pure a tre anni dalla introduzione del nuovo codice che scandiva bene la natura accusatoria del rito, sin dalla fase dell’indagine) nell’immaginario collettivo si osannava appunto il «giudice Di Pietro», se non fosse che l’intero pool della Procura milanese veniva più volte evocato come i «Giudici di mani pulite».

Dopo trent’anni di codice accusatorio si poteva sperare che i giocatori non venissero più confusi con l’arbitro. E si poteva sperare che qualcuno si chiedesse se proprio l’incedere di quella vicenda politico-giudiziaria non avesse qualcosa a che vedere proprio con l’eclissi della figura del giudice. Qualcosa si è evidentemente smarrito in questi decenni. E si è persa certamente una occasione importante per “comunicare” il processo, per farne un elemento di “rivendicazione” popolare, lasciando che invece si trasformasse in uno “spettacolo” popolare[7]. Si è perso il contatto con la società nel momento in cui noi stessi abbiamo perso il contatto con il processo. Nel momento in cui abbiamo trascurato la difesa del contraddittorio e le sue forme come ineludibile strumento di conoscenza processuale da porre alla base della decisione, con tutto ciò che ne consegue.

 

3. È proprio muovendo da simili riflessioni che possiamo cogliere il limite evidente creato da questa sorta di analfabetismo processuale, dalla nostra incapacità di comunicare il processo, non solo alla comunità nella quale viviamo, ma anche di utilizzare una lingua comune fra noi operatori. La mancanza di un forte e stabile legame fra la cultura (anche materiale) del Paese ed il suo processo è il vero problema di fronte al quale l’intera classe dei giuristi è destinata a misurarsi. Interrogandoci sul come e sul perché la “cultura del processo” ci sia sfuggita di mano, e come sia potuto accadere che si sia perso quel profondo legame che il processo penale avrebbe dovuto invece annodare con la società, inglobandosi virtuosamente in quel contesto di istanze progressiste e condivise, di conquiste di diritti civili e di libertà politiche che il Paese, pur fra mille difficoltà, era riuscito certamente a costruire.

Finito nel prisma deformante della lotta al terrorismo mafioso, alla criminalità organizzata ed alla corruzione, il processo penale è uscito del tutto trasformato: da dispositivo liberale di tutela delle libertà democratiche di ogni cittadino, in un affare losco, che riguarda i malandrini e i loro protettori legalizzati. Macchina repressiva che guadagna punti di consenso solo se produce cautele, condanne e pene esemplari. Perso ogni contatto con l’idea stessa di “bene sociale condiviso”, non deve sorprendere che il processo sia finito nell’incantamento di quelle stesse intramontabili ideologie autoritarie che, dentro e fuori la magistratura, avevano osteggiato il codice «Vassalli» durante la sua faticosa gestazione e ne avevano poi azzoppato le virtù cognitive del contraddittorio già nella culla[8].

 

4. L’errore dell’avvocatura non è stato, tuttavia, quello di non aver saputo difendere il “giusto processo” ma di non averlo saputo “comunicare”. Di aver lasciato che intere classi politiche e dirigenti di questo Paese crescessero e venissero educate alla scuola illiberale di chi vede nel processo penale solo un ostacolo alla affermazione della legalità e non uno strumento di riaffermazione dello statuto democratico di un Paese. Senza che i più giovani avessero nei licei, nelle università, nella politica stessa e nell’informazione una scuola alternativa, seria ed autorevole.

Ed è sintomatica di questa divaricazione fra cultura e processo, la debole risposta che la società civile, l’informazione e la politica nel suo complesso, riesce a dare di fronte all’urto delle diverse culture del post-populismo, quelle del demos come quelle dell’etnos, entrambe del tutto estranee alla cultura ed alla pratica del garantismo. Lì la semplificazione del linguaggio del risentimento sociale si è aperta invece una strada agevole, proiettando nell’immaginario collettivo il fantasma di un processo penale primitivo. Una società spaventata, resa insicura ed incerta dalla crisi e dalla globalizzazione, ha cessato così del tutto di vedere nel diritto uno strumento di realizzazione della persona. Ciò che viene chiesto dal cittadino non sono più diritti ma sono in realtà tutele e protezioni, non nuovi spazi di libertà, ma più benefici e più assistenza, non diritti civili e garanzie della persona per poter sviluppare e veder maturare le proprie aspettative individuali, politiche e sociali. 

Non vi è dubbio che la spinta propulsiva dei valori che tradizionalmente avevano consentito il progresso politico, legislativo e giudiziario del Paese si sia progressivamente esaurita e che nel profondo, e per quanto questo possa apparire paradossale, la collettività abbia cessato di chiedere diritti per sé, ed abbia iniziato a chiedere meno diritti e meno garanzie per gli altri, più penalità, più repressione, meno spazi, più muri, carceri, ghetti e reclusori.Difficile, in un contesto simile, aprire quei necessari spazi di civilizzazione che possano ricucire quello strappo, rischiarare l’orizzonte condiviso dei valori positivi del processo. Costruire percorsi che ci consentano di divulgare il manifesto della sua ragionevolezza.  

Tanto istintivo quanto ragionevole il riflesso di dare spazio ai progetti che riguardano le generazioni future[9]. L’idea di poter ricostruire da lì l’alfabeto minimo che serve a parlare la difficile lingua dei diritti dimenticati. Perché se servono nuovi avvocati, attrezzati, specializzati e consapevoli del loro ruolo sociale, servono anche nuovi cittadini che sappiano riconoscere in quel ruolo un fondamento della loro stessa libertà.

[1] C. Botta, Storia della guerra della indipendenza degli Stati uniti di America, Napoli 1830, vol. I, p. 304.

[2] A. de Tocqueville, Viaggio negli Stati Uniti, Einaudi, Torino 1990, p. 243.

[3] A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Bologna 2011, p. 273: «la lingua giudiziaria diviene così in qualche modo, la lingua volgare, lo spirito giuridico, nato nelle scuole e nei tribunali, si estende a poco a poco al di là di questi limiti: penetra per così dire, in tutta la società e scende nelle classi inferiori; tutto il popolo finisce con il contrarre una parte delle abitudini e dei gusti del magistrato».

[4] Si veda, in proposito, il sofisticato sistema di elaborazione del feedback dei messaggi lanciati quotidianamente tramite i social, denominato giornalisticamente “La Bestia”; A. Rociola, Agi - Politica, 13 settembre 2018.

[5] G. Giostra, Per la democrazia peggio delle false notizie ci sono le false verità”, Corriere della Sera, Orizzonti società, 30 settembre 2018.

[6] A. Purgatori, Ritorno a Tangentopoli, Atlantide, 28 novembre 2018, La7.

[7] G.P. Voena, Processo penale e mezzi di comunicazione di massa: un instabile stato dell’arte, in Processo penale e giustizia, n. 6/2017; S. De Nicola – S. Ingrosso – R. Lombardo, Comunicazione mediatica e processo penale- Quale impatto sul processo e quale squilibrio tra le parti, Archivio Penale 2012, n. 2; E. Amodio, Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction, Milano, Giuffrè, 2016.

[8] L. Pepino, Legalità e diritto di cittadinanza nella democrazia maggioritaria, Relazione al X Congresso nazionale di Magistratura democratica 1993, in questa Rivista edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 2/1993, p. 282.

[9] Nel 2014 l’Unione della Camere Penali, come altre associazioni, ha sottoscritto un Protocollo con il MIUR: solo nell’ultimo anno scolastico 2017/2018, sono stati 28.125 gli studenti raggiunti, 125 gli incontri e 279 gli istituti scolastici coinvolti nell’attività di formazione sui temi della Costituzione, del processo penale e del diritto di difesa.