Magistratura democratica

“Ragionevoli prevedibilità”
e giurisprudenza della Corte Edu

di Carlo Sotis

Queste pagine hanno ad oggetto gli effetti del test di ragionevole prevedibilità della giurisprudenza Cedu sull’art. 7 e si compongono di tre parti. In una prima si riassumono i vari criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo per effettuare il test. In una seconda si propone una riflessione su luci e su un’ombra proiettate dalla ragionevole prevedibilità convenzionale. In una terza si avanza l’ipotesi che, accanto a quella “classica”, si affaccino due nuove ragionevoli prevedibilità.

Premessa

L’ascesa della ragionevole prevedibilità è storia nota[1]. Nello svolgimento verranno, perciò, esposti in sintesi alcuni tratti essenziali del criterio e, a seguire, qualche riflessione su luci e ombre che la ragionevole prevedibilità ha prodotto. Alla chiusura si collega il titolo di queste pagine, in cui cercherò di mostrare perché oggi è forse opportuno declinare il criterio al plurale. I segnali emessi in due notissime vicende inducono infatti a pensare che, accanto alla “classica” ragionevole prevedibilità convenzionale, si affaccino anche una ragionevole prevedibilità/fairness e una ragionevole prevedibilità della qualificazione giuridica del fatto commesso.

Ma procediamo con ordine, iniziando con una ricostruzione generale della “classica” ragionevole prevedibilità convenzionale.

1. I tratti essenziali della ragionevole prevedibilità convenzionale

Alla base dell’architettura dell’art. 7 Cedu vi è il divieto di applicazione reatroattiva del reato e della pena, e risulta invece marginale il tipo di fonte penale: il fatto deve costituire reato «secondo il diritto interno o internazionale»[2] e non, quindi, per forza secondo la legge. La ragione è che, sin dalla sua origine, la Convenzione è stata progettata per affermare una serie di garanzie valevoli per un ampio spettro di Stati membri, di common law e di civil law[3]. Così, lo sviluppo di un articolato principio di legalità convenzionale, costruito con al centro il divieto assoluto di applicazione reatroattiva in peius della norma penale e, a fianco, la riserva di legge, ha comportato implicazioni non coincidenti con quella – tradizionale – che pone alla base la riserva di legge, ricavandone i corollari, e pone la garanzia della retroattività in modo concettualmente autonomo[4].

Porre al centro della legalità penale convenzionale il divieto di reatroattività in peius risponde, poi, a una seconda esigenza. Se la riserva di legge colloca, infatti, al centro della garanzia la sua dimensione istituzionale, puntando sulla separazione dei poteri, il divieto di applicazione retroattiva mette sul proscenio direttamente la persona, poiché è evidente che il primo senso del divieto è di garantire all’individuo libere scelte di azione sulla base della preconoscenza di ciò che è lecito e ciò che vietato. La legalità con al centro il divieto di applicazione retroattiva, ergo il diritto di “calcolabilità anticipata”[5] del trattamento, è indubbiamente un diritto umano, una garanzia individuale della persona funzionale allo scopo di tutela dell’individuo che informa il sistema Cedu e in grado di alimentare confronti tra le giurisprudenze delle corti europee e costituzionali che trovano sui diritti umani individuali un comune terreno di confronto.

Fatte queste prime precisazioni, cerchiamo di fissare molto sinteticamente almeno alcune tra le caratteristiche essenziali della legalità convenzionale fondata sul divieto di retroattività e, quindi, sviluppatasi nei corollari della ragionevole prevedibilità e dell’accessibilità.

Come assai noto il leading case in materia è Sunday Times c. Regno Unito, del 1979, in cui sono stati abbozzati i criteri generali attraverso cui valutare l’accessibilità e prevedibilità della norma[6].

Il caso riguardava l’art. 10 e non l’art. 7. Prevedibilità e accessibilità, infatti, non sono per la Corte Edu criteri esclusivi dell’art. 7. Anzi, è proprio nel prisma degli artt. 10 e 9 Cedu che il criterio è stato fissato e che, a tutt’oggi, trova suoi sviluppi. Va inoltre segnalato che, per la giurisprudenza della Corte Edu, il test di prevedibilità alla luce dei differenti parametri è fungibile. Così, quando una questione è ritenuta, ad esempio, in violazione dell’art. 10 o dell’art. 9, anche il test di prevedibilità effettuato alla luce di quel parametro assorbe quello ex art. 7 [7].

Sin da qui si afferma come il test di prevedibilità dipenda da vari fattori, tra cui l’esistenza di una base legale e la costanza e coerenza nell’applicazione. Con la consueta logica floue che caratterizza la giurisprudenza della Corte Edu, i due fattori lavorano in certa misura, in rapporto di proporzionalità  inversa: se la base legale è vaga, la seconda indagine si fa più pregnante e risulterà determinante[8], finendo per sanare i vizi di imprecisione della disposizione, come la Corte ha affermato a più riprese dagli anni Ottanta[9] e, in modo stabile, dal caso Kokkinakis c. Grecia, del 1993[10] – in cui si è ritenuto non imprevedibile il reato di proselitismo, definito dalla legge come «ogni tentativo diretto o indiretto di penetrare nella coscienza religiosa di una persona di confessione differente», in virtù della definizione offerta da una giurisprudenza costante.

Nelle sentenze in tema della Corte Edu ritroviamo, infatti, sistematicamente affermato che la precisione assoluta del testo non solo è impossibile, ma nemmeno auspicabile poiché impedirebbe alla norma di potersi adattare ai mutamenti sociali. Pertanto, la Corte attribuisce al giudice il potere di codefinizione del precetto e alla giurisprudenza il rango di fonte. In questo modo, la norma incriminatrice diviene una fattispecie a formazione progressiva, in cui al testo di legge si chiede fondamentalmente di esprimere delle linee di indirizzo in grado di orientare l’interprete in modo chiaro e coerente, e a quest’ultimo di applicarle in modo ragionevole. Non solo testo, quindi, ma nemmeno solo interpretazione.

Il punto va sottolineato perchè per la Corte Edu non è irrilevante la verifica del testo: in altri termini, la Corte verifica che vi sia un atto generale e astratto e accerta l’idoneità di tale atto a governare l’attività dell’interprete. In un noto caso recente, il giudice di Strasburgo si è mostrato addirittura più sensibile della nostra Corte costituzionale alla qualità della legge scritta. Mi riferisco alla sentenza De Tomaso c. Italia[11] dove, a mio modo di vedere, è proprio la urticante carenza di precisione dell’atto, cioè la legge n. 1423 del 1956 sulle misure di prevenzione, che all’art. 5 prescrive (anche) di «vivere onestamente» – formula paradigmatica, assieme a “ogni briccone verrà punito”, della più insanabile imprecisione penalistica. In questo caso, alla vacuità della disposizione si affiancava un’interpretazione specificatrice effettuata ai massimi livelli, cioè da parte della Corte costituzionale nelle sue varie sentenze, in cui ha sempre salvato la disposizione. La Corte Edu condanna comunque l’Italia, ritenendo che la norma non fosse comunque ragionevolmente prevedibile, stante la disparità nelle applicazioni e nelle prescrizioni imposte dai vari tribunali. Ora, è ben vero che la Corte Edu ritiene il precetto imprevedibile, anche perché la sentenza della Corte costituzionale del 23 luglio 2010, n. 282, che ha integrato in modo più incisivo il «vivere onestamente»[12], è successiva ai fatti in causa, risalenti al 2008. Tuttavia, a mio avviso, la cripto-ratio decidendi della condanna della Corte Edu si fonda sulla radicale e – quindi – insanabile indeterminatezza del testo di legge.

Quando la giurisprudenza non è coerente, o quando non vi sia ombra di precedente, vengono in soccorso altri criteri. In questi casi, il test di prevedibilità si modella in relazione alla cerchia dei destinatari e alla sedimentazione sociale del suo disvalore. Più il precetto è rivolto a una cerchia ristretta, più si fanno stringenti i doveri di conoscenza da parte dei destinatari; più il reato è iscrivibile alla categoria dei mala in se,più la prevedibilità si ritiene soddisfatta per sedimentazione socio-culturale. Insomma, da questo punto di vista vi è piena sintonia tra la giurisprudenza di Strasburgo e quella della Corte costituzionale nella sentenza n. 364 del 1988.

La giurisprudenza europea si fa, invece, peculiare quando personalizza il test di prevedibilità sullo specifico ricorrente in carne e ossa, andando così a fondare una “misura ipersoggettiva della prevedibilità”[13]. Sia come sia, entrambi questi criteri inerenti alla cerchia dei destinatari (misura della prevedibilità ipersoggettiva e misura tipologica ricavata su un agente modello) rispondono alla comune esigenza di effettuare un giudizio di prevedibilità personale, cioè, nella terminologia penalistica, di prevedibilità/colpevolezza.

In chiusura di questo breve excursus, occorre segnalare un criterio vischioso ed estremamanete interessante, secondo cui il precetto è prevedibile se la sua applicazione è conforme alla “sostanza del reato”[14]. Il criterio, in particolare, è evocato quando, oltre a una disposizione elastica, non si registri un’applicazione costante. È interessante e vischioso al tempo stesso, perchè evoca la ricerca della quidditas del reato, per dirla con Bartolo[15], ovvero – in termini più moderni – la ricerca del tipo criminoso legale[16], cioè delle caratteristiche essenziali che forgiano il reato come tipo provvisto di un suo contenuto di disvalore tendenzialmente omogeneo, alimentando quindi un’analisi di tipo proporzionalista che metta in relazione l’omogeneità di disvalore tra il nucleo duro di un reato (la sostanza del reato, il tipo criminoso) e la sua concreta applicazione. Un’analisi molto interessante, ma parimenti delicata: per un verso, infatti, essa emette un’istanza di ragionevolezza imponendo di effettuare una valutazione di proporzione tra il contenuto di disvalore espresso dal tipo criminoso (dalla sostanza del reato) e il fatto concreto; per altro verso, apre scenari complessi perché il criterio è evocato anche nei casi in cui le fonti giuridiche risultano insufficienti e le fonti di integrazione della sostanza dell’infrazione rimangono l’esperienza e la sedimentazione sociale.

A ben vedere, tuttavia, la prevedibilità emergente dalla Cedu come chiave di volta della legalità convenzionale presenta sempre un (prevalente) lato chiaro e un qualche lato oscuro. Proviamo, quindi, a soffermarci almeno su una delle molte luci e sulla relativa ombra che la prevedibilità irradia.

2. Chiaro e oscuro della prevedibilità

Affermare che la giurisprudenza ha un ruolo comprimario nella definizione della norma penale riduce una serie di ingiustizie[17] che, invece, la riduzione della legalità alla riserva di legge reca con sè. In primo luogo, se la norma è quella emergente dall’interpretazione, le garanzie temporali, tanto di divieto di applicazione retroattiva in malam partem quanto di obbligo di applicazione retroattiva in bonam partem, dovranno tenere conto dei mutamenti giurisprudenziali[18], cioè – rispettivamente – dell’overrulling sfavorevole e favorevole[19].

Inoltre, assumere come premessa teorica che il giudice ha un ruolo di codefinizione della norma comporta che l’interprete sia chiamato ad assumere le vesti sia di sorvegliato sia di guardiano della legalità. “Legge e giudice”, in questo modo, non vanno più letti in disgiuntiva (cioè: “legalità” uguale “legge versus giudice”), bensì in congiuntiva, come due addendi (cioè: “legge” più giudice” uguale “legalità”). Se mi è concessa la metafora, è come se si passasse da un modello di legalità “con incrocio a semaforo” a uno con “incrocio a rotonda”.

Negli incroci a semaforo, è stato mostrato come il conducente, a semaforo verde, acceleri e tenda a ritenere “suo” lo spazio dell’incrocio e della carreggiata successiva; in quelli a rotonda, invece, egli non si sente padrone dell’incrocio e della carreggiata successiva, va più piano ed è corresponsabilizzato nella gestione del traffico. Il primo è uno spazio regolato da un unico grande divieto (il limite della legge e il divieto di analogia) a cui segue uno spazio di libertà. Il secondo si compone, invece, di una infinità di piccoli obblighi e assestamenti continui in un universo orientato alla prudenza (la tipizzazione della norma come risultato dell’interpretazione). Così il giudice, nel modello a semaforo, quando decide che il semaforo è verde (poiché non dimentichiamo che spetta a lui deciderlo), ritiene di essere nel “suo” spazio di interpretazione (quello tracciato dal significato letterale del testo), dentro cui scorrazzare liberamente.

In questo modo, il testo finisce per assomigliare a un perimetro che divide l’universo dell’interpretazione in due campi: fuori è vietato andare, ma dentro ci si può muovere a piacimento. Ed è esattamente quanto avviene nei numerosissimi casi di cd. «semiosi illimitata»[20], in cui il giudice ritiene di potere/dovere sfruttare tutti i significati attribuibili ai vari segni linguistici di cui si compone la disposizione. Il risultato è la produzione di interpretazioni compatibili con il significato letterale, ma disomogenee rispetto al senso e allo scopo indicato dalla fattispecie, cioè incompatibili con la “sostanza dell’infrazione”.

Un esempio a caso (se ne potrebbero fare moltissimi).

Il delitto previsto all’art. 439 del codice penale punisce con la reclusione non inferiore a quindici anni «chiunque avvelena acque o sostanze alimentari destinate alla alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo». Secondo l’interpretazione più condivisa in giurisprudenza[21], il significato di «avvelenamento» è ricavato in raffronto con il corrompimento e l’adulterazione, cui fa riferimento il successivo e sensibilmente meno grave delitto previsto dall’art. 440 cp. Tra i due delitti viene dedotto un rapporto di genere a specie, da cui è fatta discendere una distinzione in punto di carica lesiva: maggiore e intrinseca per l’avvelenamento; minore per l’adulterazione[22]. L’argomento ha una sua logica. Nondimeno, leggendo l’avvelenamento come proiezione offensiva di particolare gravità, il risultato è un reato svuotato di qualunque nota modale caratterizzante e, quindi, considerato un reato a forma libera (pertanto realizzabile anche in forma omissiva).

L’oggetto materiale ha conosciuto un progressivo allargarsi, fino a ricomprendere nel concetto di «acque o sostanze destinate all’alimentazione» qualunque risorsa idrica o sostanza coinvolta nel ciclo agroalimentare[23]. Quello che ci interessa sottolineare è che anche questa operazione, se singolarmente presa, non sconfina fuori dal perimetro delle aree di significato. Il termine destinare – come avviene, del resto, per tutte le parole –, in virtù degli usi metaforici del linguaggio, approda verso nuovi campi semantici. E «destinato» può indicare sia una relazione di assegnazione, sia una relazione determinista di antecedenza rispetto a un esito, senza indicare una prossimità spaziale e temporale tra cosa destinata e destinazione. Se, quindi, l’interprete può scegliere, all’interno dell’area di significanza, la lettera della legge che vuole tra queste diverse accezioni, resterà comunque dentro l’area semantica.

Una volta affermato che il sintagma «destinate alla alimentazione» può ricomprendere, tra i suoi significati, anche le acque o sostanze non direttamente attingibili, avviene un passaggio ulteriore – e sembra, si badi bene, un passo breve, ma non lo è affatto. Poiché si è stabilito che il reato è a forma libera, «l’accezione “mediata” del requisito della destinazione dell’alimentazione»[24] comporta l’estensione a condotte “mediate” di avvelenamento. Se cioè oggetto materiale di un reato a forma libera sono – per richiamare la casistica più nota – anche le acque di falda o sotterranee, a questo punto integra il requisito non solo chi immette sostanze velenose direttamente in una falda indirettamente destinata all’alimentazione, ma anche chi, in qualunque modo, pone in essere un antecedente causale (o non lo impedisce) di quel confluimento. Quindi commette avvelenamento anche chi sversa (o non lo impedisce) una quota di sostanze tossiche in un terreno permeabile contenente una falda che, a sua volta, è connessa a una fonte destinata all’approvvigionamento di allevamenti o colture destinate all’alimentazione.

Ora, i singoli passaggi, presi uno per uno, non sono aberranti; però il risultato è che cruciali messaggi emessi dalla legge sono messi da parte da tale interpretazione. Per esempio:

a)      il titolo del capo: se sono elencati dei reati che si differenziano per modalità di lesione, all’interpretazione dell’art. 439 cp dovrebbe necessariamente essere riservata una nota modale diversa da quella del successivo delitto di corrompimento e, comunque, non dovrebbe essere possibile qualificarlo reato a forma libera[25];

b)      «avvelenamento» è termine pregnante, diverso da «corrompimento» e «adulterazione», quindi qualunque ricostruzione dovrebbe procedere dall’assegnazione di una nota modale peculiare[26];

c)       la pena: se l’edittale minimo di pena del delitto di avvelenamento è superiore di un terzo al massimo edittale del delitto di corrompimento e di due terzi all’«altro disastro» previsto e punito dall’art. 434 cp, attribuzioni di significato che non tengano conto di questa informazione sono in contrasto con la legge.

La ragionevole prevedibilità convenzionale, assegnando invece al giudice la sua funzione di codeterminazione, ribadisce automaticamente un ruolo di comprimario della legalità. Può suonare eretico, ma il messaggio che la ragionevole prevedibilità in questo modo emette è che la tipicità è anche il risultato dell’interpretazione[27].  Insomma, il punto non è tanto chiedersi se il giudice crei o scopra la norma, ma cosa sia chiamato a creare: è chiamato a garantire legalità, quindi a creare tipicità. Inoltre, se si parte dalla premessa che si tratta di un processo creativo, si ottiene un altro risultato, in quanto occorre assegnare le relative garanzie di prevedibilità.

Anche qui, un esempio aiuterà a toccare con mano l’importanza di una teorizzazione dell’attività creativa. Un esempio, questa volta, più unico che raro, riguardante una bizzarra vicenda[28] in cui è rimessa all’interprete la scelta tra adottare la teoria dichiarativa o quella creativa, con le relative immediate ricadute in termini di condanna o di assoluzione.

Il caso riguarda una norma di favore contenuta in un atto sublegislativo qualificabile come atto amministrativo generale e astratto. La disposizione è doppiamente illegittima, sia in rapporto alla legge ordinaria per violazione di legge, a causa del mancato rispetto dei vincoli e degli obiettivi da essa fissati, sia al diritto eurounitario, per gli stessi identici motivi (gli obiettivi e i criteri fissati dalla legge nazionale sono gli stessi fissati dalla normativa eurounitaria in materia). La “bizzarria” risiede nel fatto che, a seconda dello schema che si adotti, si dovrà applicare alternativamente la norma di favore illegittima oppure la norma incriminatrice. In entrambi i casi – si noti –, il vizio rimane sempre lo stesso! A cambiare è solo l’impostazione concettuale. Per la disamina della complessa questione, rinvio a quello studio a quattro mani, limitandomi qui a riportare gli estremi dell’assurdità.

Se si percorre lo schema della violazione di legge con relativa disapplicazione dell’atto amministrativo antecedente alla commissione del fatto, favorevole, ma illegittimo, il giudice non può condannare. Si ritiene, infatti, che l’affidamento posto dal destinatario in quella norma invalida sia degno di tutela perché, fino al momento della disapplicazione, la norma era valida e quindi in grado di dispiegare i suoi effetti[29]. In questa prospettiva, si ritiene che sia il giudice a creare la norma e che, pertanto, la disapplicazione possa dispiegare i suoi effetti da tale momento, con relativa non applicazione al caso in giudizio.

Viceversa, se si percorre la strada dell’incompatibilità con il diritto eurounitario e della relativa “non applicazione” della norma interna contrastante, le cose stanno diversamente. Il giudice – ci spiega la teoria dichiarativa, con cui ordiniamo le cose – in caso di non applicazione, non crea, ma “scopre”, dà quindi semplicemente voce a una soluzione considerata già presente nell’ordinamento. L’effetto è che, in questi casi, non si riconosce un legittimo affidamento sulla norma illegittima e favorevole, proprio perché a stretto rigore il giudice ha solo interpretato una norma già presente.

Se una norma di favore è “disapplicata”, fino a quel momento essa è considerata valida. La teoria ci dice che è il giudice in questo caso a creare la regola di giudizio; per questo, la disapplicazione in malam partem non deve andare a sfavore del reo.

Se, invece, quella norma di favore è “non applicata”, il giudice – ci dice sempre la teoria – non fa che dare voce a quanto è già scritto nel diritto; per questo, la non applicazione in malam partem può andare a sfavore del reo.

Insomma, in caso di disapplicazione/creazione non si deve condannare, mentre in caso di scoperta/non applicazione, si deve condannare. Il fatto, tuttavia, è che in questo caso il vizio è sempre lo stesso in entrambe le ipotesi! Così, l’interprete può scegliere la strada da percorrere (disapplicazione dell’atto amministrativo per violazione di legge o non applicazione della norma favorevole in contrasto con il diritto eurounitario), nella consapevolezza che gli effetti saranno opposti. Perchè il giudice è sempre anche giudice dei conflitti tra se stesso e la legge.

Queste luci, però, hanno anche qualche ombra: come ovvio, ciò ha a che fare con la separazione dei poteri, vale a dire il volto della legalità che la prevedibilità convenzionale non può tenere sotto controllo.

Qui è necessario un caveat, perchè sarebbe ingenuo, prima ancora che scorretto, addossare alla prevedibilità convenzionale la responsabilità di crisi e mutazioni che emergono, e quindi dovrebbero[30] essere censurate, alla luce di parametri costituzionali e non convenzionali[31]. Infatti, occorre sempre avere ben chiaro che le garanzie poste dalla legalità convenzionale si aggiungono e non si sostituiscono alla legalità costituzionale[32].

Malgrado questo caveat, credo che l’aspetto della prevedibilità convenzionale produca indirettamente – almeno, dal punto di vista culturale – un’ombra. Se il protagonista della prevedibilità non è più la fattispecie legale, ma la norma intesa come risultato dell’attività del giudice, allora la fattispecie legale inizierà a chiedersi: “ma io, a questo punto, a cosa servo? A chi mi devo rivolgere?”… E la risposta della Cedu non può che essere: “servi a garantire un’interpretazione ragionevole, e dato che in penale l’interprete è il giudice, a lui ti rivolgi”. Soddisfa, infatti, la prevedibilità convenzionale una tecnica di penalizzazione in cui la legge esprime messaggi non per forza comprensibili dai consociati, bensì mere linee guida indirizzate agli interpreti[33], che costoro dovranno tradurre in prevedibili tipi penali. La cultura penalistica continentale invece vuole le fattispecie legali come “minuscoli racconti”[34] dotati di autosufficienza narrativa[35], che abbiano l’ambizione di risultare comprensibili sia ai giudici sia direttamente ai consociati, senza la necessaria mediazione dei primi. Forse è un obiettivo illusorio, però non credo che, per questo, non si debba continuare a imporre alla legge penale scritta di provarci.

3. Dal singolare al plurale: verso le ragionevoli prevedibilità?

Il successo della ragionevole prevedibilità la porta ad abbattere i suoi confini, a esplorare e ad adattarsi ai nuovi ambienti. Assistiamo infatti a segnali di una ragionevole prevedibilità che assume le sembianze della fairness e di una ragionevole prevedibilità che assume le sembianze della tipicità.

3.1. La prevedibilità/fairness

Per quanto concerne la prima dicotomia è la “saga” Taricco ad avere innestato la miccia. Tralascio, in questa sede, l’intera ricostruzione della vicenda soffermandomi solo su un punto.

La vicenda, come noto, ha riguardato l’illegittimità comunitaria della disciplina italiana dei termini di sospensione e interruzione della prescrizione previsti negli artt. 160 e 161 del codice penale, nella versione allora in vigore. Una illegittimità affermata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea sulla base dello standard di tutela adeguata degli interessi finanziari dell’Unione fissata nell’art. 325 del Tfue. La Cgue, nella sua sentenza dell’8 settembre 2015, aveva affermato la diretta applicabilità di questa norma con conseguente non applicazione, da parte del giudice nazionale, della più favorevole disciplina della prescrizione ai processi in corso. La soluzione, secondo la Corte di giustizia, non contrasta con i diritti fondamentali (tranne nel caso in cui il termine di prescrizione fosse già scaduto)[36] poiché la disciplina della prescrizione è esterna al fatto e alla pena, e quindi la persona non ha una legittima aspettativa a conoscere, prima della commissione del fatto, in quanto tempo questo dovesse prescriversi.

Alla base delle incomprensioni tra Corte di giustizia e tradizione penalistica italiana vi è quindi proprio la differente relazione tra prevedibilità e legalità. Per la Cgue (come per la Corte Edu), non dovendo le norme sulla prescrizione essere ragionevolmente prevedibili, esse sono estranee alla legalità e hanno natura processuale. Per la tradizione italiana, la premessa è diversa: le norme sulla prescrizione sono opzioni sul “se punire” un determinato fatto, sono esercizio dello ius puniendi[37]. Ergo, è questo un campo di disciplina governato dal principio di legalità-riserva di legge stabilito nell’art. 25, comma 2, Costituzione.

Anche per la tradizione italiana maggioritaria, il singolo, nell’orientare le sue scelte di azione, non ha un legittimo affidamento sapendo, prima della commissione del fatto, in quanto tempo questo dovesse prescriversi qualora dovesse essere scoperto. Magari farà pure questi calcoli, ma non sono calcoli ai quali l’ordinamento deve assegnare una garanzia assoluta come quella della ragionevole prevedibilità. Il punto, però, è che non importa che l’ordinamento non attribuisca una garanzia di ragionevole prevedibilità a tale disciplina. Ciò che importa è che si tratta di scelte sul “se punire”, poiché tutto ciò che costituisce esercizio dello ius puniendi deve, per ciò solo, essere coperto dalla riserva di legge, anche se non deve essere ragionevolmente prevedibile. In questo, in fondo, sta la differenza essenziale tra la legalità penale costituzionale e quella convenzionale (secondo cui, invece, il diverso ragionamento è: se un’informazione deve essere ragionevolmente prevedibile, allora attiene alla legalità).

Due premesse così distanti avevano portato a un’impasse. È stata la Corte costituzionale italiana a trovare la via di uscita, sacrificando la sua impostazione tradizionale sull’altare della ricerca di un terreno comune. In quel piccolo capolavoro che è, a mio avviso, l’ordinanza n. 24 del 2017, la Consulta sposta il terreno della legalità della prescrizione dalla riserva di legge a quello della ragionevole prevedibilità. Afferma, infatti, che «questa Corte è convinta che la persona non potesse ragionevolmente pensare, prima della sentenza resa in causa Taricco, che l’art. 325 del Tfue prescrivesse al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. ove ne fosse derivata l’impunità di gravi frodi fiscali in danno dell’Unione in un numero considerevole di casi, ovvero la violazione del principio di assimilazione»[38]. Con questo passaggio, per la Corte la ragionevole prevedibilità si estende anche alla disciplina dell’interruzione della prescrizione. La ragione primaria di questo cambio di campo è di tipo tattico. Se, infatti, si fosse rivendicata “la “sola” esigenza della riserva di legge[39] senza affiancarla alla ragionevole prevedibilità, ciò avrebbe, per un verso, diminuito il peso dei controinteressi in gioco; per altro verso, avrebbe impedito alla Corte di far leva sugli artt. 49 e 53 della Carta di Nizza, cioè di rivendicare, in virtù di quest’ultimo articolo, la legittimità comunitaria di prevedere un «maggior grado di tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalla Cedu e dalle costituzioni degli Stati membri»[40]. La riserva di legge non è, né nella prospettiva della Corte Edu e dell’art. 7 Cedu, né in quella della Cgue e dell’art. 49 della Carta di Nizza, un “diritto dell’uomo” o una “libertà fondamentale”, al contrario della ragionevole prevedibilità che invece, come abbiamo accennato in apertura, gode di questo status. La Corte ha ritenuto più conveniente sostenere che la ragionevole prevedibilità si estenda anche a «ogni profilo sostanziale concernente la punibilità»[41], in modo da potere evocare l’art. 53 della Carta di Nizza e, quindi, dare base legale – anche alla luce dei principi del diritto europeo – alla sua impostazione, offrendo così una possibile via di uscita alla Corte di giustizia. Ovviamente, lo ha fatto anche per trovare un terreno comune di confronto.

Tuttavia questo cambio di campo non è senza effetti, perchè non è per nulla evidente che debba essere riconosciuto, per di più come diritto fondamentale della persona in posizione di controlimite, l'affidamento del singolo[42] inteso come «calcolabilità anticipata del trattamento»[43] di sapere prima della commissione del fatto in quanto tempo, in caso di scoperta, questo si prescriverà. I precetti debbono dire in modo ragionevolmente prevedibile ciò che è vietato, non anche che occorre non farsi scoprire per un determinato lasso di tempo. Che la prescrizione riguardi la punibilità, e abbia quindi natura sostanziale – incontrando le garanzie dell’art. 25, comma 2, Cost. –, non vuol anche dire che le scelte di azione prese sulla base del tempo necessario a prescrivere e quelle prese sulla base dell’affidamento della predeterminazione dei fatti penalmente rilevanti e delle pene debbano avere lo stesso identico statuto costituzionale. L’affidamento del singolo rispetto alla possibilità di decidere come agire sulla base della «calcolabilità anticipata» di ciò che costituisce precetto e pena mantiene una sua diversità qualitativa dall’affidamento fatto dal singolo sulla base della «calcolabilità anticipata» di una condizione di punibilità come la prescrizione. Si tratta di norme diverse da quelle che compongono il precetto e la pena, essendo chiamate a svolgere un’altra funzione. Ed è importante che questa diversità di funzioni si riverberi in una diversità dello statuto delle garanzie.

Questo, però – arrivo al punto –, non vuol dire ovviamente che la ragionevole prevedibilità non entri in gioco in tema di prescrizione (l’art. 25, comma 2, Cost. subordina l’esercizio del punire a una legge entrata in vigore prima del fatto commesso). A mio avviso, vuole invece dire che la Corte costituzionale allarga il tema della ragionevole prevedibilità oltre i confini del precetto e della sanzione. Una ragionevole prevedibilità, per forza di cose, diversa nella funzione e, quindi, nel campo di applicazione. In questa prospettiva, trovo pienamente convincente il suggerimento sostenuto da Massimo Donini[44], ripreso da Domenico Pulitanò[45] e, in commento all’ordinanza n. 24 del 2017, anche da Vittorio Manes[46]. La ragionevole prevedibilità della prescrizione deve essere intesa come fairness, cioè come affidamento a che lo Stato non cambi le regole in corsa. Questa ragionevole prevedibilità/fairness è sicuramente da valorizzare a seguito della sentenza della Corte. Peraltro, mi rendo ben conto che questa idea della fairness è tutta da verificare nella sua possibilità di coordinarsi in modo coerente con il campo che l’art. 25, comma 2, Cost. attualmente circoscrive: quello dell’esercizio della funzione punitiva, con esclusione delle norme processuali. La ragionevole prevedibilità/fairness, insomma, mette in crisi il confine della legalità tracciato dalla natura sostanziale o processuale delle norme penali.

Viene, infatti, immediatamente spontaneo chiedersi perché, se per la prescrizione occorre garantire la ragionevole prevedibilità a che non vengano cambiate in peius le regole in corsa, lo stesso non debba valere – ad esempio – anche per la procedibilità a querela. Eventuali modifiche in corso su entrambi i profili costituirebbero una identica violazione della fairness, ma solo quella sulla prescrizione è una scelta sulla punibilità (ergo sostanziale). Quindi, se ricostruiamo l’art. 25, comma 2, non più con il solo compasso della punibilità, bensì anche attorno a questa garanzia di fairness per quanto concerne le disposizioni sostanziali estranee al precetto e alla pena, immediatamente bussano alla porta quelle norme processuali, come le condizioni di procedibilità, che pur non incidendo sulla punibilità condizionano comunque direttamente il “punire”[47].

3.2. La prevedibilità/tipicità

Se per la prevedibilità/fairness è il passaggio dalla architettura convenzionale a quella costituzionale a comportare la mutazione, qui l’evoluzione sembra prendere una strada diversa: un volto della legalità più tradizionalmente costituzionale è, invece, affermato da Strasburgo, che intaglia una nuova e peculiare prevedibilità formale e oggettiva. Mi riferisco, evidentemente, al caso Contrada[48]. La vicenda giudiziaria è lunga e travagliata, e andrebbe esaminata nel dettaglio per comprendere appieno il caso[49]; qui sarò necessariamente cursorio.

Bruno Contrada viene condannato per cd. “concorso esterno” in associazione di tipo mafioso dal Tribunale di Palermo nel 1996, per fatti commessi tra il 1979 e il 1988: un arco di tempo in cui sussisteva un contrasto giurisprudenziale sulla punibilità di quei fatti a titolo del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Ancor prima, sussisteva un contrasto sulla stessa ipotizzabilità del suddetto reato: ammesso in alcune sentenze, negato in altre. Solo dal 1994, cioè dalla prima pronuncia a sezioni unite della Cassazione[50], si può affermare con una relativa certezza che quel reato “esiste”[51]. In questo quadro, come noto a tutti, la Corte Edu condanna l’Italia non perché quel reato sia di origine giurisprudenziale, bensì perchè la sua origine deve essere fissata al 1994, cioè alla Sentenza Demitry, successiva ai fatti. Leggendo e rileggendo la sentenza, si evince come il problema di prevedibilità qui non riguardi la rilevanza penale dei fatti commessi, ma – più alla radice – la stessa “base legale” (legislativa o giurisprudenziale, questo non importa per la Corte), cioè la qualificazione giuridica del fatto. Lo si evince chiaramente leggendo il par. 32 della sentenza Corte Edu Contrada: «Perciò, tenuto conto delle divergenze giurisprudenziali sull’esistenza di detto reato, il ricorrente non avrebbe potuto prevedere con precisione la qualificazione giuridica dei fatti che gli erano ascritti e, di conseguenza, la pena che sanzionava le sue condotte»[52].

Quello che, in questo sforzo di massima sintesi, mi interessa mettere in evidenza sono i corollari di un simile slittamento che, sotto l’ombrello della ragionevole prevedibilità, viene a valutare un problema, obiettivo, di tipicità[53].

Primo corollario: non basta garantire il consociato nella conoscenza di «cosa gli è lecito e cosa gli è vietato»[54], se prima ancora non gli si garantisce la qualificazione giuridica che fonda un divieto.

Secondo corollario: la differente allocazione del dubbio e la sua differente misurazione. Qui è in gioco un problema di certezza del diritto penale, non di certezza di assumere libere scelte di azione sulla base di quella certezza primaria. Quindi, lo stato di dubbio deve essere trattato e misurato diversamente da quanto avviene quando occorre valutare la ragionevole prevedibilità della rilevanza penale di un fatto (dando per certa la qualificazione giuridica nella quale lo stesso fatto incorrerebbe). In questo caso, la Corte Edu non valuta la prevedibilità chiedendosi se Bruno Contrada, alto servitore dello Stato a tutela dell’ordine pubblico, laureato e professionista, avrebbe dovuto prevedere (cioè porre in dubbio) la punibilità di quei fatti come concorso esterno[55], perchè qui non si tratta di muovere un rimprovero personale all’imputato (non è un problema di colpevolezza), ma si tratta di valutare un problema di certezza del diritto penale, da valutarsi quindi oggettivamente. Se, per ipotesi iperbolica, il ricorrente fosse stato uno dei giudici che, prima del 1994, aveva emesso una sentenza di sussistenza del concorso esterno, le cose non cambierebbero. Anche per un imputato così avveduto, la sua soggettiva prevedibilità non avrebbe fondato questa prevedibilità oggettiva[56]. Qui il dubbio riguarda l’esistenza del reato: un dubbio oggettivo, che mina quella certezza del diritto che, in ambito penale, si fa così intensa da svilupparsi nella tipicità.

La prevedibilità convenzionale (e, con essa, la legalità), in questa sentenza, non è più solo colpevolezza, ma si avvicina a una idea di legalità formale, seppur indipendente dalla riserva di legge. La parabola è davvero stupefacente: la Corte Edu vede le cose con la teoria, considerata più sostanziale e pragmatica[57], della creazione giurisprudenziale e questo la libera dai veli delle teorie dichiarative. Il risultato è che la Corte di Strasburgo si rivela, in questo caso, più sensibile[58] alle ragioni della tipicità di quanto non si mostri la Corte costituzionale italiana, per la quale il concetto dovrebbe, invece, essere più familiare.

Per quanto rilevanti, le vicende Taricco e Contrada restano, al momento, sporadiche e non ne possiamo che ricavare dei segnali: segnali importanti, però, e significativi della fertilità che le ibridazioni incrociate e il dialogo (anche quello aspro) tra corti ci riservano. In Taricco, la Corte costituzionale italiana mette nella bocca della prevedibilità ciò che dovrebbe dire la riserva di legge, con l’esito di seminare una ragionevole prevedibilità/fairness applicabile anche ad alcune norme processuali. In Contrada, la Corte Edu fa fare alla ragionevole prevedibilità ciò che dovrebbe fare la tipicità, con il duplice risultato di allargare i confini della prevedibilità oltre quelli della colpevolezza e i confini della sostanza entro quelli della tipicità.

[1] Oltre ai contributi pubblicati in questo fascicolo, vi è un’ampia letteratura: si veda, anzitutto, V. Manes, art. 7, in F. Bartole - P. De Sena - V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Cedam, Padova, 2012, 279 ss.; V. Zagrabelsky, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il principio di legalità nella materia penale in V. Manes e V. Zagrebelsky (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Giuffrè, Milano, 2011, 69 ss.; A. Guidi, Art. 7 CEDU e interpretazione ragionevole nella giurisprudenza di Strasburgo, in Cass. pen., n. 12/2013, pp. 4720 ss.

[2] Rispettivamente: «droit» e «law», nelle due versioni ufficiali della Convenzione che, secondo la Corte Edu, «ricomprende tanto il diritto scritto quanto quello non scritto» – così Corte Edu, S.W. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, par. 35, successivamente ripreso.

[3] Civil law/common Law contiene, come tutte le diadi, un valore ordinante potente, ma relativo, perchè etichettare le differenti tradizioni giuridiche in due grandi famiglie inevitabilmente mette fuori fuoco le gradazioni che presentano oggi le variegate tradizioni giuridiche. In chiave introduttiva (anche di tipo storico), si vedano: R. David, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Cedam, Padova, 2004, 16 ss.; L. Moccia, Civil Law, in Dig. disc. priv., vol. II, 1988, pp. 371 ss.; Id., Common Law , in op. ult. cit., vol. III, pp. 17 ss.

Anche in diritto penale, la relatività della distinzione, come pure la dissociazione tra diversi “gusci” concettuali per arrivare alle medesime regole operazionali, è fatto ormai assodato in letteratura: cfr. A. Cadoppi, Il valore del precedente in diritto penale, Giappichelli, Torino, 2007 (ristampa); S. Seminara, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Giuffrè, Milano, 1987.

[4] Nella manualistica penale contemporanea, questa ricostruzione del principio di legalità penale, opposta e speculare a quella convenzionale, è offerta da G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 2018, 43 ss. In questa prospettiva, precisione determinatezza e tassatività sono dedotti e ricostruiti come corollari della riserva di legge e del suo obiettivo istituzionale di garantire la separazione dei poteri; al contempo, ponendo a premessa della legalità la riserva di legge, il divieto di applicazione reatroattiva in peius diviene una garanzia a parte, parallela a quei corollari.

[5] Così M. Donini, Prescrizione e irretroattività tra diritto e procedura penale. “D”, in Foro it., vol. V, 1998, colonna 324.

[6] Corte Edu, Sunday Times c. Regno Unito, 26 aprile 1979, §§ 49 ss.

[7] Così, ad esempio, si veda Corte Edu, Perìnçek c. Svizzera [GC], 15 ottobre 2015, parr. 131 ss. (sulla prevedibilità ex art. 10 Cedu) e 283 ss. (sulla prevedibilità ex art. 7 Cedu), in cui si richiama il test precedentemente effettuato; per l’art. 9 Cedu, si veda Corte Edu, Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, §§ 36 ss.

[8] In proposito, VladimiroZagrebelsky afferma autorevolmente che «la giurisprudenza della Corte europea sulla previsione per “legge” dei reati, non offre esempi di decisioni della Corte in cui la portata della norma incriminatrice sia stata in se stessa ritenuta non sufficientemente prevedibile, sulla base della eccessiva genericità del testo normativo» – Id., La Convenzione, op. cit., p. 101 (con il richiamo, in nota, a un’ampia casistica).

[9] Corte Edu, Muller e altri c. Svizzera, 24 maggio 1988, §§ 29 ss., in cui è il concetto di “osceno” a ritenersi prevedibile in virtù della codefinizione effettuata dalla giurisprudenza.

[10] Corte Edu, Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, § 40.

[11] Corte Edu, De Tomaso c. Italia [GC], 23 febbraio 2017.

[12] Corte Edu, De Tomaso c. Italia [GC], 23 febbraio 2017, §§ 106 ss.

[13] È interessante, peraltro, notare come questa personalizzazione del test sembri avvenire su casi al confine tra errore sul precetto (prevedibilità del significato giuridico del fatto), dove nella sistematica italiana la valutazione è sempre personale, ma normativa, ed errore sul fatto derivante da errore sulla legge extrapenale (accertamento del dolo nel suo momento effettivo e concreto rappresentativo), dove invece la valutazione è di tipo psicologico. Cito due casi: nel primo la prevedibilità riguarda il precetto; nel secondo, invece, la rappresentazione del fatto; in entrambi, l’indagine fa leva sulle caratteristiche personali e sullo stato psicologico effettivo del ricorrente. Il primo è il già citato caso Perìnçek c. Svizzera [GC], parr. 138 ss., dove la Corte, per affermare che fosse prevedibile che il delitto svizzero di negazionismo di un genocidio fosse applicabile anche alla negazione del genocidio armeno, fa leva per un verso sulle prese di posizioni istituzionali in questo senso (il Consiglio nazionale svizzero, nel 2003, emette il postulat 02.3069, con cui si qualificano come «genocidio degli armeni» i fatti del 1915) e sul fatto che il ricorrente fosse un avvocato e uomo di cultura e che fosse a conoscenza del postulat (cfr., in questo senso, oltre alla sentenza della Grande Camera, quella della seconda sezione del 17 dicembre 2013, par. 71, che ancor più chiaramente fa leva su questi argomenti). Il secondo è, invece, un caso di valutazione di eventuale errore sul fatto derivante da errore sulla legge extrapenale (per capirci, un caso da art. 47, comma 3, cp), in cui dovendo verificare la sussistenza del dolo è quindi pienamente coerente effettuare un’indagine di tipo personale sul reale stato psicologico in punto di rappresentazione e volizione del soggetto agente. Così, ad esempio: Corte Edu, Usters, Deveaux e Turk c. Danimarca, 3 maggio 2007, par. 78, in cui occorreva valutare se “fosse prevedibile”, per un gruppo di attivisti di Greenpeace, l’essere entrati in una zona militare vietata nonostante questa non fosse segnata con esattezza nelle mappe.

[14] Criterio, che salvo errori da parte mia, viene evocato la prima volta nel notissimo caso di marital rape Corte Edu, S.W. c. Regno unito, 22 novembre 1995, parr. 34-36, e utilizzato poi, tra le molte altre, in Corte Edu, Streletz, Kessler e Krenz c. Germania, 22 marzo 2001, par. 50, e Corte Edu, Radio France e altri c. Francia 30 marzo 2004, par. 20.

[15] Sulla quidditas, cfr. M. Pifferi, Generalia Delictorum. Il Tractatus criminalis di Tiberio Deciani e la “parte generale” del diritto penale, Giuffrè, Milano, 2006, pp. 128 ss.

[16] Non certo a caso, infatti, è Francesco Palazzo l’autore che più di tutti ha contribuito a veicolare il concetto di tipo criminoso legale, ed è anche quello che più da vicino ha manifestato il suo interesse per il criterio della Corte Edu della sostanza dell’infrazione, suggerendone alcune similarità. V. F. Palazzo, Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, in G. Vassalli (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Esi, Napoli, 2006, p. 75; vds. anche V. Manes, art. 7, op. cit., p. 281.

[17] Su cui, nel quadro della non uniforme famiglia degli studiosi penalisti aperti all’indirizzo ermeneutico, cfr. l’analisi di O. Di Giovine, L’interpretazione in diritto penale, Giuffrè, Milano, 2006 e di M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale. Dalla dogmatica classica alla giurisprudenza-fonte, Giuffrè, Milano, 2011, in particolare pp. 63 ss.

[18] Su cui, anzitutto, si veda la sintesi di V. Manes, art. 7, op. cit., p. 274 s.; v. inoltre la lettura critica, non sempre condivisibile, ma sempre interessante e assai pensata, di V. Valentini, Diritto penale intertemporale. Logiche continentali ed ermeneutica europea, Giuffrè, Milano, 2012, in particolare pp. 97 ss.

[19] Su cui si rinvia, in questo fascicolo, al contributo di Martina Condorelli e Luca Pressacco.

[20] L’etichetta è di M. Donini, Il concorso esterno “alla vita dell’associazione” e il principio di tipicità penale in Dir. pen. cont., 13 gennaio 2017, p. 9 (disponibile online: www.penalecontemporaneo.it/upload/DONINI_2017a.pdf).

[21] Qui abbiamo fatto riferimento a A. Gargani, Reati contro l’incolumità pubblica. Tomo II, Reati di comune pericolo mediante frode, in C. F. Grosso - T. Padovani - A. Pagliaro (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte speciale. Volume IX, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 314 ss.; G. Pica, Illeciti alimentari (voce), in Enc. dir., aggiornamento, vol. VI, Giuffrè,  Milano, 2002, pp. 443 ss.; R. Nitti, Art. 439. Libro II. Artt. 361-452terdecies, in G. Lattanzi e E. Lupo (a cura di), Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. V, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 857 ss.; B. Assumma, Avvelenamento, adulterazione o contraffazione in danno della salute pubblica in Dig. disc. pen., vol. I (A-B), 1987, pp. 391 ss.

[22] Cfr. in particolare, e con osservazioni critiche su questa ricostruzione, A. Gargani, Reati, op. cit., pp. 323 ss.

[23] Si vedano sul punto, come noto assolutamente centrale per la delimitazione del reato, i vari commenti all’art. 439 cp citati.

[24] Così, con puntuali rilievi critici a questa ricostruzione, A Gargani, Reati, op. cit., p. 332.

[25] Cfr. tuttavia B. Assumma, Avvelenamento, op. cit., pp. 391 ss.

[26] Convincenti argomentazioni, in questo senso, in G. Pica, op. cit., p. 450, che dalla pregnanza del verbo fa discendere una immediata attitudine lesiva del comportamento. In altre parole, secondo l’autore – condivisibilmente – è il concetto di avvelenamento che indica quale sia il precipuo significato da attribuire all’oggetto materiale tra quelli a disposizione sulla carta. Segnaliamo, in aggiunta, che non è forse un caso che proprio in questo scritto si possa leggere una tra le più convinte tesi a sostegno dell’esigenza di assegnare una nota modale all’avvelenamento. Questa voce, infatti, abbraccia numerosi illeciti alimentari e non effettua un’analisi reato per reato, ma per tratti distintivi tra i reati. Così, quando si affrontano in rassegna le varie condotte, risulta più evidente cercare le specificità di quella di avvelenamento, a riprova che le scelte classificatorie non sono mai neutre.

[27] Per motivare questa frase dovrei soffermarmi funditus per chiarire che la tipicità si compone di varie dimensioni e assolve la funzione di legare assieme diverse funzioni, ma esigenze di spazio me lo impediscono. Uso, allora, il buon vecchio espediente (che vuole, però, anche essere un omaggio) di giustificare la frase della tipicità come risultato dell’interpretazione, con una citazione di autorevolissima dottrina verso cui, su questi temi, sono molto debitore: «I confini (del concetto generale espresso dalla disposizione) sono necessariamente sempre più ampi rispetto alla portata semantica che un tipo possiede entro e dopo il processo interpretativo». Così W. Hassemer, Fattispecie e tipo, ESI, Napoli 2007 (1968), p. 183.

[28] C. Sotis - M. Bosi, Il bizzarro caso dei pesci “in malam partem”. Osservazioni in tema di pesca del novellame sui rapporti tra disapplicazione dell’atto amministrativo (di favore) contrario alla legge e non applicazione della norma nazionale (di favore) contrastante con il diritto comunitario, in Diritto penale contemporaneo, 6 maggio 2011, pp. 1-25.

[29] Cfr. anche, per le opportune specificazioni, M. Gambardella, Il controllo del giudice penale sulla legalità amministrativa, Giuffrè, Milano, 2001.

[30] Uso il condizionale perché è agrodolce che la giurisprudenza della Corte Edu si sia dimostrata più attenta della nostra Corte costituzionale alla qualità della legge scritta (mi riferisco al citato caso De Tomaso).

[31] Io sono infatti un convinto e perdurante sostenitore delle ragioni della riserva di legge penale, ma da difendere davanti alla Consulta, non a Strasburgo. Volendo, si veda, ad esempio, C. Sotis, Tra Antigone e Creonte io sto con Porzia, in Diritto penale contemporaneo, 3 aprile 2017, pp. 13 ss. (disponibile onlinewww.penalecontemporaneo.it/upload/SOTIS_2017a.pdf).

[32] In modo pienamente condivisibile, sottolinea con forza il punto F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale in Diritto penale contemporaneo, 19 dicembre 2016, pp. 13 ss. (disponibile onlinehttps://www.penalecontemporaneo.it/upload/Relazione%20prevedibilita%CC%80%20Napoli%20(DPC).pdf).

[33] Disposizioni penali che sono linee guida sprovviste di questa capacità narrativa, perchè fondamentalmente indirizzate ai giudici e non ai consociati, sono quelle degli act inglesi. Ad esempio il Bribery Act del 2010, dove un malum in se come la corruzione viene definito mediante un testo pienamente idoneo a orientare l’interpretazione degli interpreti senza però offrire dei tipi penali di immediata comprensione per i consociati. Così, ad esempio, sono indicate le «Offences of bribing another person [:]

(1) A person (“P”) is guilty of an offence if either of the following cases applies.

(2) Case 1 is where—

(a) P offers, promises or gives a financial or other advantage to another person, and

(b) P intends the advantage—

(i) to induce a person to perform improperly a relevant function or activity, or

(ii) to reward a person for the improper performance of such a function or activity.

(3) Case 2 is where—

(a) P offers, promises or gives a financial or other advantage to another person, and

(b) P knows or believes that the acceptance of the advantage would itself constitute the improper performance of a relevant function or activity.

(4) In case 1 it does not matter whether the person to whom the advantage is offered, promised or given is the same person as the person who is to perform, or has performed, the function or activity concerned.

(5) In cases 1 and 2 it does not matter whether the advantage is offered, promised or given by P directly or through a third party».

[34] Così efficacemente illustra le fattispecie F. Palazzo, Corso di diritto penale, Giappichelli, Torino, 2016, p. 81.

[35] Sulla dimensione narrativa del diritto penale delle fattispecie, si veda soprattutto M. Papa, Fantastic voyage. Attraverso la specialità del diritto penale, Giappichelli, Torino, 2017, 18. Il tema, del resto, mi sta a cuore da tempo: sia consentito, quindi, rinviare a C. Sotis, Vincolo di rubrica e tipicità penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., n. 4/2017, pp. 1346 ss.

[36] Cgue, Taricco e altri, Grande Sezione, 8 settembre 2015, §§ 54-58.

[37] Chiarissimo, sul punto, D. Pulitanò, Il nodo della prescrizione, in Diritto penale contemporaneo, n. 1/2015, pp. 20 ss.

[38] Così il par. 5 di Corte cost., sentenza n. 24 del 2017.

[39] Per una acuta riflessione sulla marginalizzazione del canone della riserva di legge nell’ordinanza n. 24 del 2017, si veda G. Riccardi, “Patti chiari amicizia lunga”. La Corte costituzionale tenta il “dialogo” nel caso Taricco, esibendo l’arma dei controlimiti, in Diritto penale contemporaneo, 27 marzo 2017 (disponibile online: www.penalecontemporaneo.it/upload/RICCARDIGIUSEPPE_2017a.pdf).

[40] L’art. 53 della Carta di Nizza sancisce che «nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri».

[41] Così Corte cost., ordinanza n. 24 del 2017, § 8.

[42] Cfr. D. Pulitanò, La posta in gioco nella decisione della Corte costituzionale sulla sentenza Taricco, in Diritto penale contemporaneo, n. 1/2016, p. 235.

[43] Così la definisce Massimo Donini, nel chiarire che, in tema di prescrizione, non è questa la ragionevole prevedibilità garantita dall’art. 25, comma 2, Cost. – M. Donini, Prescrizione e irretroattività tra diritto e procedura penale. “D”, in Foro it., vol. V, 1998, c. 324.

[44] M. Donini, Prescrizione, op. ult. cit., colonna 324. Si tratta del contributo all’interessante dibattitto sul possibile allungamento dei tempi di prescrizione non maturata (interventi anche di Massimo Nobili, Luigi Stortoni, Maria Virgilio, Nicola Mazzacuva), proposto da Giorgio Marinucci in suo articolo, apparso su Il Sole 24 ore il 12 marzo 1998, dal titolo: Bomba ad orologeria da disinnescare.

[45] Che afferma testualmente: «Pur non essendo questione di tutela di affidamenti di singoli, la retroattività sfavorevole di una regola del gioco intacca la fairness del gioco», assegnando tuttavia a questa garanzia una ristrettissima «possibilità di eventuali deroghe alla irretroattività sfavorevole in materia di prescrizione» per cui «la giustificazione di una deroga dovrebbe essere molto forte, tale da reggere di fronte al principio d’eguaglianza/ragionevolezza» – D. Pulitanò, La posta in gioco, op. cit., p. 235. Faccio mie queste indicazioni, che affermano una dimensione alta, ma comunque relativa e non assoluta, alla ragionevole prevedibilità intesa come fairness, che è e resta diversa dalla ragionevole prevedibilità come affidamento del singolo. Resto convinto che punire qualcuno per qualcosa che non costituiva reato al momento della condotta, o punirlo per un reato su cui la prescrizione è già maturata, costituiscono violazioni di un affidamento del singolo qualitativamente (e, quindi, costituzionalmente diverso) da quello di chi fosse punito per un fatto su cui si sono modificati i termini di prescrizione non ancora maturati.

[46] In merito all’«affidamento sul fatto che lo Stato non “cambi le carte in tavola” a sorpresa, ossia alle spalle (e a detrimento) degli individui, dovendo sempre garantire – in un sistema basato sul principio di prééminence du droit e sulla rule of law – una fairness, sostanziale o processuale», così V. Manes, La Corte muove e in tre mosse dà scacco a “Taricco”, in Diritto penale contemporaneo, 13 febbraio 2017, p. 7 (disponibile onlinewww.penalecontemporaneo.it/upload/MANES_2017a.pdf).

[47] Cfr. M. Nobili, Prescrizione e irretroattività tra diritto e procedura penale. “A”, in Foro it., vol. V, 1998, c. 319.

[48] Corte Edu, Contrada c. Italia, 14 aprile 2015.

[49] Oltre alla consueta ricostruzione effettuata dalla sentenza della Corte Edu, rinvio alla dettagliata analisi offerta da M. Donini, Il caso Contrada e la Corte EDU. La responsabilità dello Stato per carenza di tipicità/tassatività di una legge penale penale retroattiva di formazione giudiziaria, in Riv. it. dir. e proc. pen., n. 1/2016, pp. 346-372 (disponibile online:  https://iris.unimore.it/retrieve/handle/11380/1107820/83851/Il%20caso%20Contrada%20e%20la%20Corte%20Edu.pdf).

[50] Cass. pen., sez. unite, 5 ottobre 1994, n. 16, Demitry.

[51] Per quanto riguarda, poi, la stabilizzazione dei suoi elementi connotativi, occorrerà attendere le successive pronunce a sezioni unite, ovvero Cass. pen., sez. unite, 30 ottobre 2002, n. 22327, Carnevale e 17 luglio 2005, n. 33748, Mannino.

[52] Corsivi aggiunti.

[53] La lettura della sentenza Contrada qui abbozzata, da cui emerge questa peculiare ragionevole prevedibilità della qualificazione giuridica, è disaminata con convincenti argomentazioni da M. Donini, Il caso Contrada, op. ult. cit.

[54] Per dirlo con le parole della sentenza della Corte costituzionale, n. 364 del 1988, par. 8 del «Considerato in diritto».

[55] Nel suo commento alla sentenza, sottolinea come, nella logica italiana della conoscibilità del precetto penale, questo tipo di domanda dovrebbe dare risposta positiva D. Pulitanò, Paradossi della legalità fra Strasburgo, ermeneutica e riserva di legge, in Diritto penale contemporaneo (Rivista trimestrale),n. 2/2015, p. 52.

[56] Cfr., in questo senso, diffusamente M. Donini, Il Caso Contrada, op. cit., pp. 357 ss.

[57] A commento della sentenza Contrada è Ombretta Di Giovine, in particolare, ad associare le teorie cognitiviste o dichiaritive alle teorie formaliste, e quelle scettiche o creative alle teorie antiformaliste. Cfr. (in una lettura, peraltro, non coincidente con quella qui abbozzata) O. Di Giovine, Antiformalismo interpretativo. Il pollo di Russel e la stabilizzazione del precedente giurisprudenziale. A proposito del caso Contrada, della confisca senza condanna e di poco altro in Diritto penale contemporaneo, n. 2/2015, p. 11 e pp. 16 ss.

[58] Repetita juvant: come già detto, le garanzie Cedu si aggiungono e non si sostituiscono a quelle costituzionali. Non si può respingere una sentenza che pone una valutazione di garanzia aggiuntiva e non sostitutiva per il fatto che muove da una premessa inaccettabile nella logica della legalità costituzionale. Quindi, la evidente inaccettabilità costituzionale di un reato di creazione giurisprudenziale va fatta valere nelle sedi sue proprie.