«Non per dovere ma per interesse (dei cittadini): i magistrati e la paura di spiegarsi»
È quasi una rivoluzione il cambio di mentalità della magistratura nell’approccio alla comunicazione come una parte – e un dovere – del proprio lavoro, e particolarmente azzeccata (tra le proposte concrete) appare l’idea di una «informazione provvisoria» che subito renda più comprensibili i dispositivi delle sentenze. Ma il rifiuto della «rilevanza penale» quale unico parametro per la liceità di una cronaca giornalistica di fatti giudiziari, e l’identificazione nel giornalista dell’unico soggetto legittimato a operare a priori la valutazione di cosa si debba intendere per notizia di «interesse pubblico», restano per un giornalista i punti non negoziabili che rischiano di entrare in tensione con il metodo “ufficio stampa”, suggerito agli uffici giudiziari dalle «linee guida Csm» nel momento in cui esse perdono l’occasione per aprire invece a un accesso diretto e trasparente del giornalista a tutti gli atti non più segreti posti man mano in discovery alle parti.
«Ofelè fa el to mesté!» («pasticciere, fa' il tuo mestiere!»), esorta un vecchio adagio del dialetto milanese, che dunque al giornalista consiglierebbe di guardarsi bene dal sindacare le «linee guida per l'organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale» adottate dal plenum del Csm con la delibera del 11 luglio 2018. Tanto più che lo stesso Csm si premura in esse di precisare che le auspicate «prassi applicative tendenzialmente uniformi su tutto il territorio nazionale», con l'indicazione di «ciò che gli uffici giudiziari possono e debbono (o non debbono) fare e, di conseguenza, ciò che gli organi di informazione, e più in generale i cittadini, possono attendersi da questa attività», riguardano «ovviamente gli uffici giudiziari e non costituiscono in alcun modo prescrizioni rivolte ai giornalisti e ai giornali su che cosa sia lecito o anche solo opportuno pubblicare». E non va peraltro trascurato che merita apprezzamento la sfida azzardata dal Csm, in quanto tenta di conciliare esigenze oggettivamente confliggenti (la presunzione di non colpevolezza, il diritto di informare e ricevere informazioni, il diritto ad un giusto processo, il diritto di difesa, l’efficacia e riservatezza delle indagini, il diritto alla vita privata, il principio di trasparenza nella pubblica amministrazione); contingenti interessi fisiologicamente agli antipodi («l'opinione pubblica – argutamente riassumeva in un convegno un procuratore aggiunto del Centro-Sud – vuole sapere fatti che noi non gli possiamo dire nella fase delle indagini preliminari, e non vuole sapere fatti che noi gli vogliamo dire quando invece possiamo dirlo con le sentenze»); tempistiche incompatibili, tanto che proprio questa sfasatura di temi tra giustizia e suo racconto è tra le prime cause della disaffezione e dei pre-giudizi dei cittadini; e opposte priorità nei rispettivi codici professionali, matrici dell'insofferenza dei magistrati per le brutali semplificazioni dei media, ma anche della difficoltà oggettiva dei giornalisti nel dover tradurre in messaggi comprensibili al pubblico gli istituti e le parole di marcato contenuto tecnico degli operatori del diritto.
A consigliare prudenza nel soppesare l'esito delle «linee guida del Csm» dovrebbe poi essere la consapevolezza che nessun giornalista serio – messo davanti alle responsabilità incombenti sul proprio operato, proporzionalmente corrispondenti alla libertà di manovra tante volte (qualcuna a sproposito) invocata – possa ritenere di aver bisogno di attendere chissà quale futuribile Norimberga del giornalismo per maturare già la certezza, in cuor suo, di quanto sia drammaticamente calzante anche al proprio lavoro la spietata sincerità di Nietzsche in un aforisma di «Al di là del bene e del male»: «"Io l'ho fatto", dice la mia memoria. "Io non posso averlo fatto", dice il mio orgoglio. Alla fine è la memoria ad arrendersi». Tanto che spesso non convince la postura ieratica assunta dal giornalista-sacerdote che gonfia il petto nel rivendicare il «Far West della notizia» in nome di un onnivoro (a parole) diritto-dovere di pubblicare qualunque notizia appresa. Una postura declinata invece poi spesso nella maschera di un'ipocrisia, in un sipario strappato da ben altre spinte che hanno poco a che fare con la proclamata trasparenza e molto invece con meno confessabili motivazioni di tutt’altro genere: non di rado (quando va bene) ragioni di ordine professionale di piccolo cabotaggio, legate alla concorrenza spietata tra testate e tra giornalisti; spesso (quando va meno bene) motivazioni di ordine commerciale, perché si cerca di mandare in edicola un prodotto appetibile per il lettore e di conseguenza per il mercato pubblicitario dal quale i giornali ricavano la maggior parte delle proprie entrate; a volte (quando va male) anche motivazioni di natura politica che hanno a che fare con la proprietà dei mezzi di informazione, specie in quegli ambiti redazionali nei quali effettivamente la notizia o l'omissione della notizia diventano un mezzo di aggressione, un modo per colpire l'avversario politico dell'editore o per proteggerne l'amico.
Ma contare fino a cento, prima di accettare ad esempio l'invito di questa Rivista a discutere le «linee guida del Csm», converrebbe anche a chi, pur cercando nel quotidiano lavoro di cronaca di ridurre la sciatteria, minimizzare la pigrizia da routine insita in ogni lavoro, e sforzarsi di essere corretto e preciso e efficace, sperimenta quanto possa ugualmente capitargli di sbagliare. «Ogni medico si porta dentro un piccolo cimitero, dove di quando in quando va a pregare», dice il chirurgo francese René Leriche nel libro che il collega inglese Henry Marsh spiega di aver scritto («Primo non nuocere. Storie di vita, morte e neurochirurgia») per mostrare «con precisione e franchezza che cosa significhi davvero essere un medico, e in particolare un medico che fa operazioni pericolose». E nessuno meglio di un giornalista, e in particolare di un giornalista che «fa operazioni pericolose» come un cronista di inchieste e processi, può immedesimarsi in quel chirurgo anche quando osserva che, tra tutti gli attrezzi del suo mestiere, «freddezza mentale e abilità» son sì importanti, ma lo è di più l'onestà necessaria per ammettere con se stessi di poter sbagliare. E di aver sbagliato: «In neurochirurgia» (ma ben potrebbe dire altrettanto lo scriba giudiziario) «le conseguenze degli errori sono talmente tremende che talvolta è più facile negare le proprie responsabilità perfino con se stessi».
Quello stesso scriba giudiziario, tuttavia, può anche assicurare, con il medesimo sprazzo di onestà intellettuale e facendo tesoro di una esperienza osservata purtroppo molte volte, che l’habitat perfetto per i peggiori misfatti giornalistici, arrecati alle persone al centro di cronache giudiziarie, è sempre stato la penombra della confusione, dei segreti ammollo nel brodo del (finto) proibizionismo, della non accessibilità alla verifiche tempestive.
Giudicate da questo oblò, nelle «linee guida del Csm» pare al cronista di scorgere, accanto a premesse incontestabili, un segnale significativo della direzione di marcia intrapresa; una scelta davvero azzeccata, seppure solo per l'ambito dei giudicanti, come l’«informazione provvisoria» accanto al dispositivo; ma anche un equivoco di fondo su cosa sia «notizia di interesse pubblico» e chi debba valutarlo, equivoco che rischia di inficiare l'embrione di proposte migliorabili e di far perdere l’occasione di aprire finalmente a un accesso e diretto del giornalista a tutti gli atti man mano posti in discovery; e una dimenticanza.
Non si può non concordare con le premesse delle «linee guida» laddove, come bussola al comunicare dei magistrati, raccomandano tempestività e correttezza e efficacia della comunicazione, parità di trattamento degli organi di informazione, responsabilità del vertice dell’ufficio, spersonalizzazione della comunicazione, riduzione del rischio di impropria influenza sul giudice e sul pubblico, tutela della dignità e dei diritti delle persone coinvolte nel procedimento.
Ma il vero segnale importante, che costituisce forse il maggior pregio dello sforzo tentato dalle linee guida, è il fatto che, sulla scorta di un lungo percorso di seminari e convegni sviluppatosi in questi anni tra la Scuola superiore della magistratura e il Csm, esse muovono da un presupposto che per la forma mentale dei magistrati somiglia a una mini-rivoluzione: e cioè finalmente dall'idea che «comprensibilità e trasparenza della giurisdizione non confliggano con il carattere riservato (e in certe fasi ancora segreto) della funzione, ma, se interpretate con equilibrio e correttezza, contribuiscano anzi ad aumentare la fiducia dei cittadini nella giustizia, rafforzandone l’autorevolezza». Non è un passaggio da poco: ammettere che la comunicazione giudiziaria sia uno dei doveri istituzionali della magistratura comporta infatti come conseguenza che essa, per adempierlo in maniera effettiva, debba attrezzarsi mentalmente, prima ancora che professionalmente e perfino logisticamente. E comporta che il tema del come comunicare quello che si fa nei tribunali e nelle procure non possa continuare a essere limitato ai soli dirigenti degli uffici giudiziari e vissuto invece da tutte le altre toghe come un fastidio, come un ulteriore fardello del proprio lavoro, ma debba diventare un pezzetto del proprio lavoro. Il giudice che «parla solo con le sentenze» è modello che conserva un prezioso valore in rapporto alle prerogative che così tutela, ma le sentenze, gli ordini di arresto, i decreti di sequestro non sono quadri di Pollock, tele giuridiche che poi debbano avere il critico che le spiega e permette di apprezzarle, o almeno di farle comprendere, alle persone. La maggiore o minore fiducia, il maggiore o minore rispetto, la maggiore o minore credibilità dell'istituzione dipendono anche da come il magistrato rende comprensibile le proprie decisioni sia alle parti del processo sia ai cittadini. Anche perché, se non lo fa lui, al posto suo lo fa (di solito con maggior strumentale efficacia) qualcun altro: le forze di polizia in dipendenza delle proprie dinamiche interne, gli avvocati in funzione della legittima rappresentazione degli interessi dei propri assistiti, a volte e sempre più spesso perfino staff di pubbliche relazioni (specie quando il procedimento riguarda grandi imprese o movimenti politici) che, nel silenzio delle toghe che «parlano solo con le sentenze», si interpongono tra l’attività giudiziaria e la sua rappresentazione mediatica, manipolando l'una nell'altra attraverso una potente capacità di influenzare l’opinione pubblica.
Ciò che invece convince meno nelle «linee guida del Csm» è lo strumento principale con il quale ritengono di dare in concreto attuazione alla condivisa necessità di comunicare: la raccomandata istituzione di uffici-stampa in seno a procure e tribunali e corti, declinata nelle modalità dei comunicati stampa o delle conferenze stampa, reca in sé infatti la strutturale ambiguità di un metodo che postula sia l'autorità giudiziaria a valutare la sussistenza dell'interesse pubblico a una notizia, esplicita l'intenzione di dare univocità di indirizzo alla dazione di informazioni giornalistiche centralizzate in capo al dirigente, e teorizza che esse debbano servire all'autorità giudiziaria e non viceversa (indicativa, non a caso, la "spia" linguistica di un passo delle «linee guida Csm» laddove si parla di «strategie comunicative»). Può essere senz'altro un sistema sensato per venire incontro alla routine giornalistica di base, un po’ come il “mattinale” di Questura per la cronaca nera, a mo’ di allerta per le agenzie di stampa e le tv; oppure, e forse più ancora, può avere senso nelle rare occasioni in cui appare necessario smentire false notizie suscettibili di innescare pericolosi ingiustificati allarmismi sulla sanità e l'ordine pubblico o peculiari turbative economiche o istituzionali. Ma fuori da questa limitata dimensione, più che un toccasana il metodo ufficio-stampa appare contraddittorio e controproducente. È contraddittorio perché, se si crede alla funzione di controllo dei mezzi di informazione rispetto all'attività giudiziaria, allora è ben dura convincersi del fatto che sia buona cosa che il soggetto controllato scelga se e che cosa dire al controllore. Ed è comunque controproducente perché, nel cercare di rimediare a una distorsione, ne introduce un'altra: un procuratore capo che fa la selezione preventiva di quello che eventualmente deve o non deve entrare nel circuito mediatico, con lo spostamento (ma solo questo) del soggetto che apre o chiude il rubinetto delle notizie. Istruttivo, sotto questo profilo, il comunicato diramato dalla Procura di Locri il 2 ottobre 2018 in occasione dell’arresto del sindaco di Riace: 5 pagine nelle quali il procuratore, oltre a inserire ampi stralci di intercettazioni che ritiene di selezionare riguardo all’imputazione per la quale il gip aveva disposto la misura cautelare, poi definisce “«riscontrate» e qualifica «diffuse» e «gravi» anche le altre numerose «irregolarità» non ravvisate invece come tali dal gip nel rigetto di misure cautelari per quei capi. Rigetto rispetto al quale, dunque, il comunicato della Procura assume i connotati non tanto appunto di una “comunicazione”, quanto di una “azione”: cioè di una sorta di inusuale anticipo del futuro (legittimo) ricorso al Tribunale del riesame per tentare di ottenere i provvedimenti negatigli dal gip.
Sulla interpretazione della nozione di ufficio stampa risalta quale sia il vero punto di attrito, non trattabile dai giornalisti, rispetto a pressoché tutti i tentativi di riforma di questa materia: il rifiuto della «rilevanza penale» quale unico parametro per la liceità di una cronaca giudiziaria, e – a sua volta come in una matrioska – l’identificazione di cosa si debba invece intendere per notizia di «interesse pubblico» e di quale sia il soggetto legittimato a operare questa valutazione.
È pur vero che le «linee guida del Csm» si propongono – accanto a un tipo di «comunicazione reattiva, finalizzata cioè a correggere o smentire informazioni errate, false o distorte, che possono recare pregiudizio alle indagini, ai diritti delle persone coinvolte o all’immagine di imparzialità e correttezza del singolo magistrato, dell’ufficio giudiziario e, nei casi più gravi, della stessa funzione giudiziaria» – di incoraggiare anche un tipo invece di «approccio proattivo all’informazione, rispetto sia a specifici casi sia al funzionamento dell’intero sistema di giustizia, così da rendere comprensibili all’esterno il ruolo e le attività della giurisdizione, spiegando le ragioni del suo agire, gli obiettivi, le priorità». Ma in entrambi i casi resterebbero i magistrati a scegliere se e cosa comunicare fra tutte le frazioni di notizie potenzialmente comunicabili, quando invece (salvo appunto i già accennati casi di smentite a fini istituzionali o di specifiche informazioni di servizio alla cittadinanza) sarebbe ora di aprirsi a un meccanismo nel quale il giornalista chiede (sulla base dell'interesse pubblico che ravvisa in una notizia), e l'ufficio stampa dell'ufficio giudiziario risponde fornendo non tanto un proprio punto di vista, quanto il corrispondente provvedimento giudiziario (ovviamente se non più segreto) che lasci poi al giornalista la responsabilità delle modalità di utilizzo. Specie riguardo ai terzi, la cui tutela però non può essere brandita come scudo per schiacciare la nozione di interesse pubblico sulla sola rilevanza penale, per le lampanti ragioni riassunte ad esempio in una decisione della Cassazione del 2014 (III sezione, n.21404) alle prese con intercettazioni di una inchiesta nella quale, del tutto fuori dall’ambito di rilevanza penale, una conduttrice tv discuteva del timore di essere sostituita in ragione o meno di un favore sessuale: «Non è sostenibile in linea generale che, quando in un atto processuale non coperto da segreto risulti contemplato un fatto relativo a persona non coinvolta come "parte” e potenzialmente lesivo dei suoi onore, reputazione, riservatezza o altri interessi primari, automaticamente si debba ritenere che l’esercizio del diritto di cronaca riguardo al processo debba avvenire per ciò solo omettendo qualsiasi riferimento alla persona perché il suo coinvolgimento in quella veste comporterebbe di per sé la carenza dell’interesse pubblico del lettore alla conoscenza di ciò che la riguarda: occorre invece provvedere sempre a un accertamento concreto dell’esistenza o meno di tale interesse, che può dunque sussistere anche se l’informazione emergente dall’atto concerna persona non coinvolta», in quanto «la conoscenza dell’esercizio della pretesa punitiva penale e delle sue modalità è per definizione correlata all'interesse pubblico, data l’invasività e la pervasività della giurisdizione penale».
Gli sms sentimentali nel 2005 tra un noto immobiliarista indagato e una famosa attrice all’epoca a lui legata, ad esempio, erano fra personalità entrambe pubbliche per le rispettive professioni, ma non avevano rilevanza penale per l’indagine sulle scalate bancarie né interesse pubblico per la collettività, quindi non c’era motivo di scriverli, e difatti (ma questo molti lo dimenticano o lo ignorano quando citano sempre questo caso) i quotidiani che lì pubblicarono furono poi sanzionati dal Garante della privacy. All’opposto, invece, è il caso delle intercettazioni che, in una inchiesta in materia ambientale, colsero il compagno (indagato) di una ministra utilizzare questo legame per accreditarsi presso aziende che dipendevano dalle decisioni della ministra: il fatto che il compagno sia poi stato archiviato non toglie che fosse allora (e resti oggi) di interesse pubblico, e quindi convintamente meritevole di pubblicazione, la notizia dello sfruttamento del ruolo della ministra da parte del suo compagno.
Sono tutte scelte che spettano al giornalista, non al magistrato deputato a aprire o chiudere il rubinetto del flusso notiziabile. Scegliere cosa comunicare – come invece postula il documento del Csm – a suo modo è infatti già un commento: è già esercitare una politica discrezionale, a dispetto di quanto di «effettivo» e «oggettivo» viene dichiarato in premessa nelle «linee guida Csm» con l'indicazione che potranno «costituire oggetto di comunicazione le informazioni di effettivo interesse pubblico» quali «i casi e le controversie di obiettivo rilievo economico, sociale, politico, tecnico-scientifico». Basti pensare alla incompiuta esperienza dei Bilanci di responsabilità sociale meritoriamente presentati da alcuni uffici giudiziari in Italia da qualche stagione: proprio come già le più tradizionali cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario, sono facondi di numeri "quantitativi" che stanno giustamente a cuore dei dirigenti vantanti la produttività dei propri uffici giudiziari (quanti fascicoli sopravvenuti, quanti più fascicoli smaltiti, quante poche risorse), ma nel contempo sono anemici di altre apparentemente semplici statistiche "qualitative" (quanti condannati o assolti su cento richieste di rinvio a giudizio, quanti arresti annullati su cento misure cautelari, quante confische definitive su cento sequestri, ecc.), che puntualmente vengono invece dichiarate non disponibili per le ragioni logistico-informatiche più varie.
Il punto è che anche i magistrati dovrebbero entrare nell'ottica di accettare il criterio di scelta del giornalista su quali eventi siano di notiziabile interesse pubblico, il punto di vista del giornalista nel raccontare un fatto, persino la faziosità sua o della sua testata nel commentarlo. A condizione che il fatto, punto di partenza, sia vero. E che, fotogramma dopo fotogramma, vi sia un aggiornamento continuo di quello che si è scelto di comunicare o che è stato comunicato a domanda del giornalista (e cioè che, se ad esempio è stata comunicata l'esecuzione di una misura cautelare, poi lo sia anche il successivo eventuale provvedimento di riforma del Tribunale del riesame).
È comprensibile che l'idea di riconoscere ai giornalisti una accessibilità diretta e trasparente non solo ai comunicati eventualmente ritenuti utili dall'autorità giudiziaria, ma direttamente anche ai provvedimenti giudiziari che via via scandiscono un procedimento nei vari momenti di discovery alle parti, a un esame superficiale possa apparire foriera di rischi maggiori dei vantaggi: quasi una pompa che getterebbe nuova benzina sul fuoco della cronaca delle inchieste e dei processi, quando invece in realtà attingerebbe alla medesima benzina già circolante di frodo oggi, ma la utilizzerebbe in una caldaia di sicurezza (trasparente e garantita, per così dire, anche nella manutenzione delle regole), anziché farla ribollire nell’odierna stufa sprovvista di qualunque valvola di sicurezza che non sia la coscienza personale e lo scrupolo professionale del singolo giornalista all’insegna del «perché gli dei sono ovunque». Al contrario, questa idea andrebbe vista come un vaccino, come qualcosa che sulle prime può dare l'impressione di far salire la febbre, ma che poi alla lunga serve a combattere una infezione, e a produrre effetti benefici non tanto per chi fa il lavoro di giornalista o per gli stessi operatori del diritto (avvocati-magistrati-investigatori) ma soprattutto per i lettori, e più ancora per i cittadini coinvolti nelle indagini, sotto il profilo della riduzione del danno già inevitabilmente connesso al loro coinvolgimento in una vicenda giudiziaria. Nella realtà quotidiana, infatti, e per la maggior parte dei casi (specie nella fase più bollente delle indagini), il mattone con il quale si costruisce il lavoro di cronaca è il rapporto personale con le fonti: il magistrato della Procura, il magistrato del Tribunale, l’avvocato dell’indagato, gli avvocati dei coindagati, i cancellieri, poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili e ogni altra forza dell’ordine, i consulenti tecnici, i traduttori, l’indagato stesso, insomma qualunque soggetto che sia titolare di un pezzettino di quel mosaico che il giornalista deve mettere assieme per cercare di dare una rappresentazione completa e corretta della notizia.
Chi dunque tenta di sottrarsi alla tentazione di indossare la veste di giornalista-sacerdote, in compenso nel lavoro quotidiano si ritrova attualmente a dover fare il giornalista-accattone: per finalità nobili, magari, di un accattonaggio ammantato di profili non disdicevoli finché si vuole, ma pur sempre (nobile) accattone tra tutte le fonti possibili di una notizia alla quale da giornalista, in molti casi, per legge non potrebbe e non dovrebbe accedere. Certo, in prima battuta il problema resta del giornalista, e l’ancoraggio alle sue norme deontologiche gli è sicuramente di grande aiuto. Wittgenstein, racconta un suo biografo, leggendo un giorno una quartina di Longfellow ne apprezzò il tenore: «Negli antichi templi dell’arte / i costruttori lavoravano con la massima cura / ogni parte minuscola ed invisibile / perché gli dei sono ovunque». Ecco, per un giornalista il «perché gli dei sono ovunque», cioè il richiamo ad un’attenta autodisciplina giornalistica che pervada il lavoro quotidiano finanche negli aspetti magari neppure percepibili dal singolo lettore, trae linfa dalle regole deontologiche della professione, ammesso sempre che lo scriba le abbia introiettate. Però forse non dovrebbero bastare, né ai lettori né agli operatori del diritto. Ai loro occhi, infatti, l’operazione di «nobile accattonaggio» condotta dal giornalista fra tutti i possibili detentori di un briciolo di notizia, e in mezzo alle tensioni e alle trappole che è facile immaginare nel volgere del poco tempo a disposizione, è garantita soltanto dallo scrupolo del giornalista stesso, là dove ci sia e nella misura in cui ci sia. Dipende cioè solo dal giornalista andare a ricostruire tutti i pezzettini del mosaico e non fermarsi soltanto, per comodità o per interesse, ai singoli primi pezzettini che magari alcune fonti sono interessate a dargli; dipende solo da lui dosare il rapporto personale con molteplici fonti in modo tale da trasformarlo nello strumento attraverso il quale proprio il giornalista corretto – lungi dal divenire buca delle lettere altrui – difende se stesso (e nel contempo garantisce il lettore) dalle operazioni di strumentalizzazione sempre in agguato nel contatto con fonti per definizione tutte non disinteressate. Non s’imbatte infatti mai in «samaritani» l’esperienza lavorativa del cronista giudiziario, più simile (nel rapporto con le varie fonti) a una sorta di «casco blu» in mezzo al fuoco incrociato di chi con spezzoni di materiali di inchieste e processi combatte una «guerra» informativa. Se questo è il processo mediatico, in esso nessuno si salva: qui vince comunque il più scorretto, a prescindere dal lavoro che fa. Vince il magistrato più ambizioso o più vanitoso che vuole usare i giornalisti; ma vince anche l'avvocato più aggressivo e scorretto; vince l’imputato (sia concesso l’errore) più «eccellente»; vince il poliziotto-carabiniere-finanziere meglio introdotto nel circuito mediatico ai fini della sua progressione in carriera o della sua logica di cordata interna; e vince il giornalista più spregiudicato.
Ecco perché, al contrario, un accesso diretto e trasparente del giornalista ai provvedimenti giudiziari man mano in discovery alle parti innescherebbe una serie di effetti positivi. Spezzerebbe quel rapporto incestuoso tra magistrato e giornalista (ma in realtà, più in generale, tra singola fonte e giornalista) che da più parti viene temuto e giustamente criticato. Produrrebbe anche un effetto di ecologia professionale a beneficio dei lettori, perché, a parità di accesso a tutte le carte poste man mano in discovery secondo le varie scansioni di un'inchiesta, tra i giornalisti non ci sarebbe più spazio per gli «inventori», e chi inventa verrebbe subito scoperto, e chi abusa del proprio potere verrebbe subito sanzionato dalla sanzione peggiore che ci sia per un professionista della comunicazione, cioè dalla lesione della propria reputazione di fronte ai lettori nell'ambito del lavoro. Se tutte le carte fossero trasparentemente sul tavolo, ne otterrebbero un beneficio anche gli operatori del diritto, liberati da quelle “campagne” che li accusano appunto di fare politica attraverso le indagini (se inquirenti) o le strategie difensive (se imputati o avvocati): non si potrebbe più credibilmente tacciare questa o quella iniziativa giudiziaria di essere rossa, nera, gialla o verde, perché appunto sarebbero a disposizione gli atti di quella specifica “puntata” della storia, e da essi si potrebbe verificare su cosa poggi o su cosa traballi quella certa iniziativa giudiziaria. Chi infine teme (per lo più a parole) la possibile invadenza delle proprietà dei mezzi di informazione sulla libertà e sull’indipendenza dei giornalisti, dovrebbe concordare sul fatto che questo sistema offrirebbe ai giornalisti un'arma di difesa in più, giacché anche qui, se in una certa fase tutti avessero legittimo accesso a tutti gli atti, i giornalisti (anche e soprattutto quelli in posizione contrattuale più debole) potrebbero dire ai loro editori: «Caro editore, non possiamo non pubblicare questa notizia, perché, se noi non la scrivessimo, domani saremmo gli unici a non averla scritta, e faremmo la figura di quelli che non l’hanno scritta in quanto amici del padrone o dei suoi amici».
Questo «rilascio»" (oltre che solo di comunicati stampa) anche «di copie di atti» è contemplato dalle «linee guida del Csm» «nei casi previsti dalla legge», il che allo stato attuale equivale a dire in sostanza mai, salvo l'apertura alla quale si riferisce una parentesi: «(cfr. le previsioni del d.lgs 29 dicembre 2017, n. 216, in tema di pubblicità delle ordinanze cautelari)». È il decreto legislativo sulle intercettazioni promosso dall'allora ministro della Giustizia Andrea Orlando nei Governi Renzi-Gentiloni e congelato per 6 mesi dall'attuale ministro Alfonso Bonafede nel Governo Conte. Con decorrenza dal 2019 due modifiche all'articolo 268 quater cpp e all'articolo 114 cp da un lato farebbero cadere il «segreto interno» su tutte le comunicazioni intercettate che (oltretutto redatte già con le cautele del riporto solo di brani essenziali) siano infine acquisite dal gip, e dall’altro lato specificano che un determinato atto, l’ordinanza di custodia cautelare, una volta depurata dalle conversazioni irrilevanti, dai dati sensibili e dai riferimenti inutili a terzi estranei, diverrebbe pubblicabile interamente (non solo nel contenuto) e immediatamente, senza quindi più incorrere nella «pubblicazione arbitraria» punita dall'articolo 684 cp (anche se le norme nulla dicono su come il giornalista dovrebbe poter accedere alla materiale disponibilità lecita del provvedimento).
In questa embrionale novità si sbaglierebbe a sottovalutare del tutto il riconoscimento di un principio che responsabilizza i giornalisti e contribuisce ad alzarne gli standard professionali e deontologici, al punto da meritare forse un supplemento di riflessione nella categoria su come rendere più incisivi gli anticorpi capaci di disincentivare un utilizzo non corretto di queste nuove facoltà: ad esempio prevedendo che le condanne penali, le sentenze dei risarcimenti civili, le sanzioni disciplinari, i provvedimenti dell'Autorità garante della privacy, siano obbligatoriamente pubblicati con evidenza sui giornali o nelle tv che le hanno meritate. E siccome è effettivamente improbabile che lo facciano di loro iniziativa, ed è probabile che lo facciano come usano farlo oggi con le rettifiche a pagina ottomila in corpo minuscolo o alle due di notte in tv, l’idea potrebbe essere quella di prevedere per legge che ciò avvenga quantomeno in una dedicata pagina settimanale sulle testate di carta e in un dedicato spazio settimanale nei tg e nei programmi tv, e comunque in ogni caso in una apposita pagina del sito online delle testate: pagina alla quale rimandi (sempre per evitare che il dato venga furbescamente occultato) una lampeggiante “finestra” pop-up ben visibile a chi apra la home page del sito della testata o veda il tg della testata nel giorno in cui viene “caricata” la sanzione, e una altrettanto lampeggiante finestra pop-up ben visibile a chi cliccasse sul link dell’articolo o del videoservizio oggetto di sanzione. Il sistema così si autoalimenterebbe, la sanzione avrebbe automaticamente in pancia l’effetto di correzione, che inizierebbe a circolare in maniera molto più diffusa ed efficace, dunque incidendo in misura sensibile sulla reputazione del giornalista o della testata sanzionati, specie se per loro dovessero ripetersi cartellini rossi di questo genere. E, alla fine, omeopaticamente, caso dopo caso, la leva reputazionale spingerebbe ai margini del mercato editoriale i giornali e le testate che oggi costruiscono la propria rendita sul fatto di non pagare pegno di credibilità agli occhi dei propri lettori o telespettatori.
L'abbozzo di pubblicabilità dell'ordinanza, con il necessario corollario dell'accesso del giornalista alla sua disponibilità, sarebbe potuto essere letto dalle «linee guida Csm» in parallelo all’articolo 116, comma 1, cpp in base al quale anche «durante il procedimento chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti», e all’articolo 43 delle disposizioni di attuazione del cpp in forza del quale «l’autorizzazione prevista dall’articolo 116 non è richiesta nei casi in cui è riconosciuto espressamente al richiedente il diritto al rilascio di copie, estratti o certificati». Sinora i magistrati sono sempre stati portati a non riconoscere al giornalista l’equiparazione alle parti processuali man mano che vi sia un momento di discovery e dunque a negare l’interesse qualificato a un accesso agli atti diretto e trasparente; ed è senz’altro possibile che analoghe resistenze (tanto più se rafforzate dallo scetticismo degli avvocati) si protraggano anche nei primi tempi del nuovo assetto. Ma è innegabile che avrebbe sempre meno senso la riproposizione di questi dinieghi nel momento in cui il legislatore e le «linee guida del Csm» iniziano ad ammettere che sia interamente e immediatamente pubblicabile l'ordinanza di misura cautelare («depurata» all’esito delle operazioni di stralcio del materiale ritenuto «irrilevante»). Sicché, per questa via dell’articolo 116 cpp, può forse ritenersi una occasione mancata il fatto che già queste «linee guida Csm» non abbiano contemplato un più ampio e generalizzato accesso diretto e trasparente da parte del giornalista ad atti che, in quanto pubblicabili, egli dovrebbe dunque anche poter (in funzione di un interesse riconosciuto) chiedere di ottenere all'ufficio giudiziario che li hanno emessi, smarcandosi così dal (sempre difficile da dosare perché mai disinteressato) rapporto personale con fonti tutte per definizione invece tendenti a cercare di strumentalizzare il giornalista.
L'assegnazione invece nelle *linee guida Csm» di un ruolo a «strutture centralizzate secondo procedure poste sotto la diretta responsabilità del capo dell’ufficio» di Procura, anziché (come sarebbe più corretto) in capo all'Ufficio gip che emette l'ordinanza cautelare, finisce per svalutare il principio e per inquinare la novità con una vena di orientamento autopromozionale della tesi dell'accusa cristallizzata nel momento cautelare. Ma soprattutto – come già nella legge richiamata dalle «linee guida Csm» – si fatica a comprendere la ragione per la quale dovrebbe essere liberamente pubblicabile soltanto l’ordinanza cautelare del gip, e non anche ciascuno dei singoli atti (pure non più segreti) che in essa il gip compendia. Ed è buffo che proprio un giornalista che dal 2006 (quantomeno dal convegno Anm a Napoli su «Deontologia giudiziaria. Il codice etico alla prova dei primi dieci anni») perora l’accesso diretto del giornalista agli atti non più segreti, quale antidoto al Far West del (finto) proibizionismo e anzi come anche miglior garanzia proprio per le persone al centro di cronache giudiziarie, per onestà intellettuale debba ora rilevare l’incongruenza di un legislatore (e, a ruota, di un Csm) che ammette la piena e immediata facoltà di pubblicare l’ordinanza d’arresto di una persona o di sequestro di un bene (che per definizione è un fotogramma iniziale nel quale è preponderante l’impostazione dell’accusa), e che invece non esplicita la parimente piena pubblicabilità anche dei successive atti (man mano in discovery) magari favorevoli alla difesa, quali ad esempio il provvedimento con il quale il Tribunale del riesame annulli l’ordinanza di custodia cautelare del gip, o prima ancora il ricorso stesso della difesa, o le consulenze tecniche e le deposizioni e gli accertamenti (tutti se man mano depositati) che contrastino la ricostruzione d'accusa. Tanto più che, non essendo ammissibili estensive interpretazioni analogiche di norme sostanziali che tracciano cosa sia reato e cosa no, il fatto che il decreto legislativo Orlando sulle intercettazioni (per ora congelato) avesse voluto estendere il segreto interno alle proroghe di intercettazioni e alle proroghe di indagini significa, per converso, che aveva invece rinunciato a porre il segreto interno anche su tutta un'altra serie di atti del pm che, seppur funzionali alle indagini, non sono atti di indagine: come l'informazione di garanzia, o la stessa iscrizione nel registro degli indagati (ove non sia presidiata dall'apposita rara segretazione), o persino la richiesta del pm di misura cautelare, e a maggior ragione appunto l'ordinanza del gip di misura cautelare. Atti che dunque, non essendo segreti per la nozione di «atti coperti da segreto» descritta dall'articolo 329 cpp, dal punto di vista della pura pubblicabilità già prima potevano – e a maggior ragione possono oggi – essere scritti dai giornalisti, anche letteralmente e in teoria persino prima che le persone interessate ne abbiano conoscenza, senza incorrere nel reato di pubblicazione arbitraria dell'articolo 684 cp. Fermo restando invece che il giornalista potrà, se mai, essere incriminato per altre differenti forme di responsabilità: dal favoreggiamento dell'indagato (se fosse provato il danno all'indagine) sino al concorso nella rivelazione del segreto d'ufficio da parte del pubblico ufficiale (se identificato costui e se provata l'istigazione operata dal giornalista), dalla diffamazione sino alla violazione delle norme sulla privacy.
Un particolare tipo di rilascio di comunicati, contemplato dalle «linee guida», deve invece trovare il massimo apprezzamento, ed appare anzi il punto più interessante del lavoro del Csm laddove apre all'idea che i giudici, non solo con le successive motivazioni ma subito già nel momento nel quale escono dalla Camera di consiglio con il dispositivo di una loro decisione, forniscano una breve informazione provvisoria sul percorso logico e giuridico del provvedimento emesso.
Se infatti negli archivi di giornali e tv si fa la "moviola" di alcune delle più scomposte polemiche politiche dopo questo o quella sentenza, degli equivoci insorti e delle strumentalizzazioni montate, della ridda di commenti sfasati a loro volta produttivi di valanghe di altre repliche parimenti fuori luogo, alla base di questo caos si trova sempre, immancabilmente, la combinazione tra la scarsa professionalità dei giornalisti (nello spiegare quella sentenza) e il fisiologico "silenzio" dei giudici al di là del dispositivo, che da solo "parla" soltanto ai super addetti ai lavori, e a volte nemmeno a loro e alle parti del processo.
Ecco quindi perché è davvero una svolta che il Csm, superando anche i mal di pancia di larga parte dei magistrati incistati in una resistenza mentale a mutare il proprio modo di pensare il senso dei dispositivi che emettono, e mani linee guida che esplicitamente indicano il bisogno di una ulteriore comunicazione a rimedio di una delle dinamiche più responsabili del micidiale corto circuito tra la ragione reale di una decisione giudiziaria e la sua percezione pubblica determinata dalla distorsione mediatica: rimedio cioè alla principale causa di sfiducia dei cittadini nella giustizia, costituita dall'inconciliabilità tra quanto si sentono raccontare di una sentenza e quanto invece essa davvero spiegherà di se stessa a distanza di 90 giorni nella motivazione, che a quel punto nessuno degnerà più di attenzione in una vita sociale che nell'era geologica di tre mesi divora mille altri temi d'attualità.
Le «linee guida Csm» declinano questo bisogno raccomandando dunque che i giudici, «una volta identificato il caso di potenziale interesse, curino la predisposizione della notizia di decisione (abstract), contestuale o immediatamente successiva alla decisione», consistente nell’illustrazione sintetica delle ragioni affidata a un «linguaggio semplice, chiaro e comprensibile», con riferimento «alla valutazione delle prove e alla regola di diritto applicata». Un po' sul modello di quanto già avviene (certo in un contesto che oggettivamente si presta di più rispetto alle decisioni di merito) sia in Corte costituzionale, sia in Cassazione con l'«informazione provvisoria» sulle decisioni delle Sezioni unite. E non si dica, da parte di chi nutre riserve, che questo sistema appesantirebbe o addirittura inquinerebbe le camere di consiglio: quando c'è il dispositivo della sentenza, ci deve essere già anche il filo logico del ragionamento di cui il dispositivo è espressione. Altrimenti, da parte di chi negasse questo, si rischierebbe di alimentare il cattivo pensiero che talvolta nelle Camere di consiglio arrivi prima una decisione "a naso" e dopo, solo dopo, nei 90 giorni di redazione della motivazione, la prova di resistenza del percorso logico di quella decisione.
Riconoscere questo punto qualificante delle «linee guida Csm» deve però infine consentire di notare in esse una lacuna, e cioè la mancanza di un invito ai magistrati a rispettare la legge in uno specifico ambito di rapporti con il mondo dell'informazione. Può apparire un invito provocatorio e paradossale, ma non lo è poi così tanto se si smette di sottovalutare in giro per l'Italia tutto quel proliferare di iniziative giudiziarie che, poco note perché per lo più ambientate nelle cronache locali, ormai non si sa se classificare come più ottusamente aggressive o più insostenibilmente creative: surreali accuse di ricettazione, incriminazioni per violazione di segreto nonostante gli atti siano già all’avviso di conclusione delle indagini e deposito atti, cervellotiche contestazioni a gruppi di cronisti di concorso in improbabili associazioni a delinquere finalizzate a ipotizzate diffamazioni. Imputazioni come queste hanno bisogno di una notevole dose di “coraggio” già per poter essere messe per iscritto, eppure talvolta vengono davvero formulate dai pm e sposate dai giudici: perché? Si può credere che siano degli sprovveduti? Certo che no. Però, attraverso simili ipotesi di reato, possono ad esempio essere attivati strumenti di indagine quali le intercettazioni, che certo non serviranno a sapere chi abbia dato una notizia a un giornalista, ma serviranno per il futuro a fare terra bruciata intorno al giornalista, e nel presente a combattere le piccole guerre di potere all’interno delle forze di polizia e degli uffici giudiziari. La medesima molla spinge quelle Procure che vanno a perquisire redazioni (cosa del tutto legittima se si ritiene che ve ne siano gli estremi di legge) e a sequestrare computer e telefonini (idem, i giornalisti non sono cittadini extraterritoriali rispetto alla legge), ma che, invece di utilizzare normali chiavi di ricerca di notizie o files o documenti pertinenti all’articolo sul quale esiste a loro avviso un eventuale problema di natura penale, prendono o copiano tutto il contenuto del computer o dell’armadio per vedere – pur sapendo benissimo che poi non sarebbe comunque utilizzabile – che cosa vi sia dentro, con chi parli il giornalista, con quali fonti abbia rapporti. La Cedu ha ripetutamente condannato gli Stati che ricorrono al mezzo della perquisizione e del sequestro (specie di pc e telefoni) per aggirare così la protezione del segreto professionale del giornalista sulle fonti che gli abbiano chiesto di restare riservate: eppure iniziative del genere continuano ad arrivare al vaglio di Tribunali del riesame e Cassazione, benché già più volte questi organi le abbiano fatte a pezzi spiegando ai pubblici ministeri in questione come fossero leggermente (e consapevolmente) fuori dall’alveo costituzionale. Ecco: due righe sul tema, nelle «linee guida del Csm», forse non sarebbero state sprecate.