Giovani toghe: «Fuori dalla torre, con più comunicazione»
Un nuovo tipo di comunicazione, per far comprendere meccanismi e provvedimenti. I giovani magistrati aprono all’introduzione nei Palazzi di giustizia di profili professionali specifici, come un ufficio stampa, o all’incremento di formazione per i rapporti con i media. Dietro polemiche recenti, spesso ci sono informazioni inesatte, diffuse sui social. Ricerche demoscopiche collegano il crollo di fiducia nella magistratura anche alla comunicazione. La sfida di trovare un equilibrio tra le indicazioni degli organi sovranazionali e i richiami del Colle.
«Uscire dalla torre d’avorio». Con una comunicazione più frequente e meglio regolata, ma ugualmente rispettosa dei principi di sobrietà, equilibrio e ragionevolezza. Uscire nel mondo, «per farsi comprendere di più e recuperare la fiducia in parte perduta del popolo, in nome del quale amministriamo la giustizia». Davanti a segnali empirici e a sondaggi interni, che registrano una crescente distanza tra opinione pubblica e magistratura, come già per altre istituzioni, le toghe più giovani non hanno dubbi: «troppo spesso non si capiscono le ragioni dei nostri provvedimenti e ciò provoca una sensazione di scarsa affidabilità». Per questo, a gran voce, sollecitano un’accelerazione su un diverso modo di gestire le relazioni con la stampa, non solo nei casi mediaticamente più sensibili, nel solco delle indicazioni degli organismi sovranazionali. Un nuovo corso che possa contribuire ad una nuova cultura giuridica, ma che in certa misura tenga conto anche di come le notizie oggi si trasmettono: sempre più in tempo reale, con una velocità sempre più incompatibile con i ritmi della giustizia. «In fondo – lancia una provocazione un neo magistrato – anche il Quirinale ha un profilo twitter…»
1. I rischi di una mancata comunicazione
Chi è appena entrato in magistratura sente con forza l’importanza di poter spiegare. Come i loro colleghi, intuiscono i rischi di una mancata o errata comunicazione, ma più di loro, probabilmente per ragioni anagrafiche, conoscono i meccanismi per cui certe informazioni, non di rado non puntuali, diventano virali. Alimentano dibattiti. Portano con un hastag, qualche post e vari retweet ad alimentare discussioni pubbliche e perfino ad orientare scelte politiche. Così le giovani toghe aprono all’introduzione nei Palazzi di giustizia di figure-cerniera tra i magistrati, la stampa e la collettività: per alcuni, profili professionali specifici, come un ufficio stampa; per altri colleghi designati, come già avviene in alcuni uffici, e formati ad hoc. Nella convinzione unanime, però, che risieda anche in una corretta informazione l’equilibrio necessario a sfuggire a quello che Piero Calamandrei considerava uno dei pericoli maggiori per i giudici: «assuefazione, indifferenza burocratica, irresponsabilità anonima». E di conseguenza, chiusura autoreferenziale. Non a caso, in un recente monito, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricordato come tanto «gli atteggiamenti di protagonismo, quanto quelli di burocrate amministratore snaturano la fisionomia della funzione esercitata».
2. Il calo di fiducia
«Se il cittadino non comprende il senso di un provvedimento, lo vive come ingiusto. Quindi perde fiducia», sintetizza Corinna Carrara, una dei quattordici giovani pubblici ministeri della Procura di Brescia, non ancora arrivati ad una seconda valutazione. Una sorta di sillogismo che potrebbe spiegare non poche recenti polemiche alimentata da dati inesatti. O eccessivamente semplificati nel passa parola dei social, sempre più strumento primario di informazione, per una significativa fetta dell’opinione pubblica. Minore è la comprensione, più bassa è la percezione della giustizia, più cala la fiducia. Una consequenzialità che aiuta a leggere anche quello che le agenzie demoscopiche e la Scuola superiore della magistratura[1] hanno già registrato: un crescente crollo della reputazione dei magistrati, in relazione ai flussi di comunicazione e al vissuto dei cittadini (Demos, -33% 2014; Ipsos, -36,7% 2015). Per Nando Pagnoncelli[2], da un lato è diminuita la fiducia nella magistratura, passata dal 67% nel 2011 al 44% odierno, dall’altro è aumentata «l’insoddisfazione dei cittadini per i tempi dei processi e per l’esito delle sentenze». Quanta di questa insoddisfazione, nasce però da scarsa conoscenza?
3. Polemiche e casi mediatici
Tra i casi più recenti, fonte di polemiche e indignazione, una sentenza della Cassazione[3]: «stupro senza aggravante se la vittima si è ubriacata», titolano più testate. La Cassazione conferma la condanna, emessa a carico di due cinquantenni dalla Corte d’appello di Torino, ma fa cadere l’aggravante di aver commesso la violenza sessuale con l’uso di sostanze alcoliche. Sono due i principi chiave di una pronuncia, che divenne una delle notizie principali della giornata: c’è stupro, se la vittima è in uno stato di infermità psichica e quindi non in grado di prestare valido consenso; ma dall’altro lato, si stabilisce anche che se gli imputati non hanno somministrato alcol alla donna – che invece ha alzato il gomito di sua iniziativa – non possono essere condannati per qualcosa che non hanno commesso. Quindi niente aggravante e nessun aumento di pena correlato. Principi semplici e nessuna sentenza rivoluzionaria, ma tra titoli forzati su un tema su cui c’è grande sensibilità, eccessive semplificazioni e hastag “cattura indignazione” la notizia è diventata «la Cassazione ci riporta indietro di anni»[4]; «stupro meno grave se la vittima si è ubriacata», il tweet più condiviso. Fino agli appelli: «Signor giudice, nessuno sconto sullo stupro»[5]. Tra il primo lancio d’agenzia, con la notizia del verdetto, agli attacchi agli ermellini, ci sono ore di «sconcerto» a mezzo stampa di osservatori in genere attenti; di «incredulità» da parte di associazioni impegnate contro la violenza di genere; di dichiarazioni in cui la mancata aggravante diventa un’attenuante. Fino ad arrivare, in un crescendo tutto sviluppato sulla rete, alla «perdita di credibilità», ad attacchi per la giustizia «che non funziona» e agli improperi per i «delinquenti che non finiscono mai in galera». Un caso emblematico dei meccanismi – distorti – che possono alimentare, tra ignoranza, strumentalizzazione e banalizzazione, quell’erosione di fiducia, affidabilità e credibilità, documentati nell’indagine della Scuola superiore della magistratura. Quanti dei giornalisti, autori dei primi articoli, soprattutto sul web, avevano però letto il dispositivo? O quanti interventi, che orientarono la direzione della successiva indignazione, sono stati ispirati solo dal titolo di un lancio d’agenzia, lasciando spazio alle più varie e fantasiose interpretazioni? In ogni caso, saranno proprio questi il punto di partenza per il successivo dibattito, compresso il più delle volte in 120-240 caratteri su twitter, su un post di facebook, quando non in una delle “storie” di instagram. Quando il giorno dopo gli articoli di cronaca giudiziaria sui principali quotidiani riportavano infatti con precisione il senso della sentenza, era ormai troppo tardi per correggere il tiro. L’opinione pubblica aveva già digerito a modo suo la notizia. Ed è per questo che nell’era in cui i social sono la nuova piazza e tutto si diffonde in tempo reale, diventa ancora più determinante avere da subito un’informazione corretta.
4. La proposta
«Sarebbe un bene spiegare le ragioni di fondo di una decisione al popolo, in nome del quale in fondo noi emettiamo la sentenza. Come per la Consulta, sarebbe auspicabile una comunicazione contestuale alla lettura del dispositivo», propone Roberto Crepaldi, in magistratura da quattro anni e mezzo, giudice alla seconda sezione penale del Tribunale di Milano. «Importante ovviamente è l’equilibrio necessario – specifica – perché i giudici non si lascino poi condizionare dagli effetti della propria comunicazione». Secondo il monito del capo dello Stato: «l’attenzione e la sensibilità agli effetti della comunicazione – scandisce Sergio Mattarella, nell’incontro al Quirinale con i nuovi componenti del Consiglio superiore della magistratura – non significa orientare le decisioni giudiziarie, secondo le pressioni mediatiche né, tanto meno, pensare di dover difendere pubblicamente le decisioni assunte. La magistratura – ricorda il Presidente – non deve rispondere alle opinioni correnti, perché è soggetta soltanto alla legge».
E allora quali i confini entro cui muoversi, secondo le giovani toghe? «Anche per i Tribunali, una sorta di massimario, sul modello della Cassazione, con l’obiettivo di restituire una comunicazione comprensibile e ufficiale, che non lasci spazio a manipolazioni», suggerisce Rocco Maruotti, da gennaio 2015 pubblico ministero a Rieti. Ha sperimentato di persona cosa significhi una forte domanda di informazione, durante le indagini dopo il terremoto del 2016 in centro Italia. «Nel rispetto del codice di procedura penale e di quanto previsto dall’ordinamento, che affida al procuratore la gestione dei rapporti con la stampa, credo che la magistratura, come istituzione- riflette- non possa chiudersi dentro il Palazzo». Da qui, una disponibilità «regolamentata» verso i media, nella consapevolezza anche «dei rischi di un’errata comunicazione non ufficiale». Notizie non di rado frammentarie, sempre più distorte nel rimbalzo collettivo della rete, più facili da strumentalizzare. «Un’informazione corretta facilita il rapporto tra magistratura e opinione pubblica, riduce la possibilità di attacchi. Ma per avere articoli inappuntabili bisogna anche fornire strumenti adeguati», argomenta. Comunicati stampa più frequenti, ad esempio, con informazioni puntuali, per evitare cortocircuiti, come quello nato sulla pronuncia della Cassazione? Uffici giudiziari diversi affrontano, chiaramente, con una diversa impostazione la ricerca dell’equilibrio tra informazione, riservatezza, ragionevolezza, misura e riserbo, «virtù che al pari della preparazione professionale – secondo un monito del presidente Mattarella alle toghe in tirocinio – devono guidare il magistrato in ogni sua decisione». «Credo che il magistrato non debba vivere in una torre isolata, deve fare i conti con il diritto all’informazione, di cui però devono essere controllate le modalità e i canali di uscita», argomenta Mario Bendoni, da tre anni sostituto procuratore a Torino. Si dichiara convinto «sostenitore dell’importanza di far conoscere le attività della Procura», ma dall’altro lato consapevole anche «del necessario sforzo e della volontà dell’opinione pubblica di cercare di comprendere questioni spesso complesse». Sfogliando i quotidiani degli ultimi mesi o andando a “scrollare”, per usare un gergo informatico, la più recente timeline di twitter, si vede come davanti a decisioni non comprese o non popolari, si ripetano gli stessi meccanismi: a Napoli, fa discutere la messa alla prova di due minorenni, rei dell’aggressione ad un dodicenne, con coda polemica per il senso di una misura alternativa non capita; a Roma, proteste e interrogativi per la caduta dell’accusa di omicidio e stupro di gruppo per due indagati, arrestati dopo la morte della sedicenne Desirèe a San Lorenzo; a Brescia, proteste per l’iscrizione nel registro degli indagati, per omicidio stradale, del marito della passeggera deceduta, che era alla guida dell’auto. Per non parlare della strumentalizzazione politica sul caso degli arresti domiciliari, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per il sindaco di Riace, divenuto simbolo di un tipo di accoglienza. Ma gli esempi potrebbero essere molti di più, visto che la «rappresentazione mediatica della giustizia è diventata centrale – analizza l’Osservatorio di Pavia – in ogni palinsesto televisivo o impaginazione di quotidiani». «Noto spesso articoli inesatti e trasmissioni televisive con commentatori che non conoscono gli atti. Come c’è chi si occupa di formazione decentrata, potrebbe essere utile un magistrato delegato alla comunicazione, per aiutare a veicolare informazioni corrette?», propone Viviana Di Palma, sostituto procuratore a Campobasso, dopo un’esperienza alla Procura di Napoli Nord. «La creazione di un organo specifico – ipotizza – aiuterebbe a formare una nuova cultura giuridica, almeno su fenomeni più ricorrenti». Tra le decisioni più spesso criticate la liberazione anticipata di detenuti: un caso per tutti, la scarcerazione di Marino Occhipinti, già membro della banda della Uno Bianca. Il Tribunale di Sorveglianza, in questo caso, non deve parlare più solo con i propri atti, ma anche rivolgersi alla collettività? «La trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria non confliggono con il carattere riservato, talora segreto, della funzione. Correttamente interpretate – scrive il Consiglio superiore della magistratura[6] – aumentano la fiducia dei cittadini nella giustizia e nello stato di diritto, rafforzano l’autorevolezza delle istituzioni». Un principio che i più giovani sperimentano sulla loro pelle. Quasi in senso letterale. Visti anche i racconti frequenti di insulti, al limite dell’aggressione verbale, per passaggi non compresi, tempi non accettati, ingranaggi non chiariti. E proprio la farraginosità del sistema normativo italiano è considerato dalla stragrande maggioranza della popolazione, stando ai dati del già citato sondaggio della Scuola superiore della magistratura, come concausa del distacco dalla giustizia.
«Poiché la pancia delle persone non è contemplata come criterio giuridico, per avere un’opinione seria – riflette Corinna Carrara – bisogna avere all’origine anche informazioni più tecniche e puntuali». Per chi è in magistratura da meno di una decade, come tutti gli interlocutori contattati, sembra chiaro come sia frutto di una «valutazione antiquata, anche se ancora maggioritaria, la convinzione di dover comunicare solo attraverso i provvedimenti e restare nel chiuso dei Palazzi di Giustizia, per non ledere il proprio prestigio». «Nessuno penserebbe mai che le decisioni della Consulta possano avere minor peso, per via dei comunicati diffusi, o che sia intaccata l’autorevolezza della Corte costituzionale», obietta Crepaldi. «Ormai qualunque istituzione ha un sito internet e anche il Quirinale si occupa della comunicazione, nei nuovi canali», osserva Maruotti, che suggerirebbe la pubblicazione di eventuali comunicati sui siti dei Tribunali. «Di sicuro non possiamo rincorrere la comunicazione social, ma trovo necessario far fronte all’esistente impreparazione comunicativa. Sia per evitare che vengano riportate informazioni sbagliate, sia per reagire ad eventuali attacchi», rincara Marco Accolla, pm della Procura di Messina, già commissario di polizia, «un’Amministrazione con una precisa organizzazione per la stampa». Una necessità, avvertita dal giovane sostituto siciliano soprattutto dopo attacchi per inchieste della sua Procura.
5. Esigenze di comprensione e casi specifici
Dall’altra parte, vista dalla prospettiva del cittadino, una delle urgenze registrate dallo studio per la Scuola superiore della magistratura è proprio la richiesta di maggiori chiarimenti sui processi in corso. Ma da parte di chi dovrebbero arrivare le informazioni? Forse perché consapevoli delle potenzialità, come dei rischi, anche di una sola parola sbagliata, che può diventare virale, le giovani toghe in prevalenza sostengono l’opportunità dell’introduzione di un profilo professionale specifico. Un ufficio stampa, una sorta di portavoce, come avviene già in altri Paesi; un giornalista, con esperienza da cronista giudiziario, che veicoli l’informazione, ricevuta dai diretti autori del provvedimento, caso mai, o dai vertici della Procura. Oppure, per i Tribunali, comunicati diffusi dalla presidenza, per i casi considerati più sensibili o più problematici.
Ma c’è anche chi, come il pm Bendoni, ritiene «l’ipotesi di un ufficio stampa un eccessivo salto in avanti», ed opta invece per l’attuale soluzione già adottata nel suo e in altri uffici: la presenza di un procuratore aggiunto delegato alla comunicazione. Con una formazione specifica? «L’importante è la sobrietà e il buon senso», replica, in controtendenza con altri suoi giovani colleghi, favorevoli invece all’acquisizione di competenze specifiche per la comunicazione, non vissute come una priorità però dalla maggior parte delle toghe, stando alla più volte richiamata indagine della Scuola superiore della magistratura[7]. Ad esempio, l’invio alla Consulta degli atti del processo milanese a carico di Marco Cappato, per assistenza al suicidio, dopo aver accompagnato in Svizzera a morire Fabiano Antoniani, dj Fabo, cieco e tetraplegico dopo un incidente, è stata, senza dubbio, una delle decisioni più attese e complesse degli ultimi tempi, che tocca anche la questione della crescente domanda di giustizia su una pluralità di nuovi diritti. Un comunicato, dopo la lettura del lungo e complesso dispositivo, una sorta di massimario della decisione, non avrebbe aiutato, senza violare riservatezza e prerogative, un corretto e completo diritto di cronaca, costituzionalmente garantito? Anche le istituzioni sovranazionali, con la dichiarazione di Bordeaux, ad esempio, auspicano sia per la magistratura giudicante che requirente codici di buone prassi per i rapporti con i media.
Chiaramente, esigenze, limiti e modalità di comunicazione sono molto diversi tra uffici giudicanti e requirenti ed ad entrambi il Csm ha trasmesso linee guida, con «l’obiettivo di armonizzare le prassi rispetto alle prestazioni informative e comunicative». L’ordinamento individua nel capo dell’ufficio il responsabile per la comunicazione, che può delegare «uno o più magistrati, scelti in base ad attitudini ed esperienza comunicativa», come avviene ad esempio a Roma, a Torino e in altre Procure: «in base alle linee guida interne all’ufficio, io mi confronto sempre col mio aggiunto; i sostituti vengono anche invitati a segnalare le occasioni in cui ritengono utile diffondere comunicati o suggerire conferenze stampa. E io mi ritrovo in questa prassi», racconta il torinese Bendoni. «Comunicare non è il nostro mestiere, sono d’accordo col presidente del Tribunale di Como, Anna Introini, che nel dibattito a Milano sul Csm[8] – ricorda Corinna Carrara – evidenziò la nostra necessità di avere professionisti a comunicare».
Alcuni pm fanno notare poi come il procuratore o il suo aggiunto siano già oberati di lavoro e scadenze. E anche per questo, a volte, i tempi e le esigenze dell’ufficio non coincidono con quelle dei media. Tra i giovani magistrati che abbiamo contattato, un paio hanno preferito rinviare a dibattiti pubblici ogni riflessione sul tema; altri due, che preferiscono non essere citati, giudici civili entrati di ruolo da una manciata di mesi, ritengono invece che «solo gli atti devono restare l’unica interfaccia tra il magistrato e la pubblica opinione».
6. Accesso diretto dei media agli atti depositati
Tra gli interlocutori contattati, una decina, la maggioranza ritiene che ad un’informazione più corretta e più trasparente contribuirebbe anche un accesso diretto della stampa specializzata agli atti depositati, non più coperti da segreto investigativo. «Il contenuto uscirebbe comunque sui giornali, almeno si evita quel sottobosco di opacità sulle fonti»; «scomparirebbe il mercato nero delle carte»; «il magistrato delegato potrebbe anche contribuire alla comprensione», le riflessioni ricorrenti, ma c’è anche chi lo ritiene «non necessario, se non sbagliato».
Questo, però, è un altro fronte, sia pur collegato, e rappresenterebbe un ulteriore passo, su cui il precedente ministro della giustizia, Andrea Orlando, aveva lasciato un’apertura[9].
Di sicuro, per il Csm, «sarebbe auspicabile che la Scuola superiore della magistratura accogliesse l’invito ad organizzare corsi mirati per la formazione, l’aggiornamento e lo scambio informativo dei magistrati responsabili per la comunicazione». E di sicuro, almeno tra i più giovani, urgente appare la necessità di una nuova stagione, anche comunicativa, che riporti l’opinione pubblica a pensare ad un magistrato, come «incorruttibile al lucro, degno di reverenza, inflessibile d’animo. Vigile scolta del Paese, a difesa di chi dorma»[10] secondo i versi che due millenni fa il tragediografo greco, Eschilo, faceva pronunciare alla dea Atena, nel momento di istituire l’Areopago.
[1] Nadio Delai e Stefano Rolando, «Indagine su identità e immagine sociale dei magistrati», 30 novembre 2015.
[2] Corriere della Sera, 10 novembre 2018.
[3] Cassazione, sentenza n. 32462 della terza sezione penale, luglio 2018.
[4] Alessia Rotta, vicepresidente dei deputati Pd.
[5] Michela Marzano, La Repubblica, 16 luglio 2018.
[6] Csm, premesse alle «linee guida» sulla comunicazione agli uffici giudiziari (pratica n. 310/VV/2017).
[7] «solo il 13% avverte la necessità di incrementare una formazione nella comunicazione» il dato viene citato nell’illustrazione dei risultati della ricerca a cura di Nadio Delai e Stefano Rolando, presentata nel corso organizzato dalla Scuola superiore della magistratura «Professione magistrato: identità e immagine della magistratura nell'Italia di oggi» www.scuolamagistratura.it/91-presentazione/1467-professione-magistrato-identita-e-immagine-della-magistratura-nell-italia-di-oggi.html.
[8] Intervento a «L’orgoglio dell’autogoverno: una sfida possibile per i 60 anni del Csm?”, Milano, Palazzo di Giustizia, 20 giugno 2018, www.magistraturademocratica.it/evento/l-orgoglio-dell-autogoverno-una-sfida-possibile-per-i-60-anni-del-csm_2920.php.
[9] A. Orlando: «i tempi possono essere maturi, per un dibattito parlamentare». Milano 5 ottobre 2017, convegno a Il Sole24ore «Il Racconto della Giustizia che cambia», con i vertici delle Procure di Milano e Roma, per i 10 anni della trasmissione Storiacce di Radio24.
[10] Eschilo, Eumenidi, vv. 70-706. Trad. di Maria Pia Pattoni, ediz Bur dell’Orestea, Milano 1995.