Editoriale
Già più di trenta anni fa, nella prefazione ad un suo libro intitolato Riti e sapienza del diritto (edito da Laterza nel 1985), Franco Cordero, con la sua prosa immaginifica, si spingeva a paragonare il diritto al Minotauro, il mostruoso figlio di Minosse e Pasifae che abita nel labirinto: un luogo dove «vigono testi individuati da un canone, e dei sapienti li frugano pescando mille contenuti talvolta imprevedibili». Una visione angosciosa – la si potrebbe dire kafkiana – perché nel labirinto non ci si raccapezza, non si riesce a prevedere dove conduce il percorso che si è intrapreso ed è arduo trovare una via d’uscita. In una prospettiva di tal fatta l’esercizio della giurisdizione inevitabilmente assume i caratteri di un’arte sapienziale, vagamente esoterica, un «monopolio delle cabale» – dice ancora Cordero – in cui «contano solo le parole uscite di bocca a gente segnata». Una giustizia imprevedibile, dunque, perché sfugge ad ogni controllo razionale, ed al tempo stesso indecifrabile dai più.
Eppure è tradizionale anche la raffigurazione della giustizia che regge in mano una bilancia, di cui tiene i piatti in equilibrio, quindi che soppesa e perciò stesso misura. Ma la misura è numero, esprime capacità di calcolo e richiede parametri conoscibili, che dunque dovrebbe essere possibile prevedere ed, almeno entro certi limiti, controllare in base a criteri logici comprensibili: non foss’altro per evitare che la bilancia sia truccata o per accorgersi se lo è.
Anche nell’immaginario collettivo diritto e giustizia sembrano talvolta oscillare tra questi due poli simbolici: il labirinto e la bilancia, l’indecifrabilità e la misurabilità, lo smarrimento e l’analisi critica. Ed è appunto lungo questo asse che si sviluppano le considerazioni ospitate nei due obiettivi di cui consta l’attuale numero trimestrale di Questione giustizia: per aiutare a riflettere sull’interrogativo se la prevedibilità del diritto, nel suo farsi quotidiano, sia una legittima aspirazione, o invece un mito o magari solo una figura retorica o, più semplicemente, un’utopia; e se il modo in cui il diritto concretamente viene attuato ed i criteri (più o meno prevedibili ex ante) che presiedono alla sua concreta attuazione risultino poi comprensibili dalla comunità del cui sentire quel medesimo diritto dovrebbe essere espressione, o se invece vi sia una frattura comunicativa tra chi “dice il diritto”, cioè è chiamato ad esercitare la giurisdizione (la gente segnata di cui parla Cordero), e coloro per i quali il diritto viene detto o, più in generale, l’opinione pubblica.
V’è un’evidente linea di continuità tra questa riflessione e le considerazioni già a suo tempo svolte in altri precedenti numeri della Rivista: mi riferisco in particolare al tema del rapporto tra il giudice e la legge, che trattammo due anni orsono in un apposito numero monografico (il numero 4 del 2016[1]), ed a quello della nomofilachia, sul quale si soffermò l’obiettivo che ebbe ad oggetto la Corte di cassazione (ospitato nel numero 3 del 2017[2]). E ci sembra importante continuare a discutere su quello che appare davvero come uno dei principali nodi problematici della nostra società democratica, perché in ultima analisi si tratta di cercar di capire bene cosa davvero significhi che la sovranità, di cui la giurisdizione è espressione, appartiene al popolo, quale valore abbia la formula secondo cui le sentenze sono pronunciate dai giudici in nome del popolo italiano ed attraverso quali tecniche e quali strumenti il concreto esercizio della giurisdizione possa inserirsi nel tessuto sociale, non già in forma di comando imperioso e magari capriccioso o di oracolo imperscrutabile, ma quale espressione di un sentimento di giustizia comunemente avvertito. È importante anche e soprattutto in una fase storica delicata, quale quella che stiamo attraversando, nella quale si avverte (non solo in Italia) il montare di una diffusa insoddisfazione per l’esercizio di ogni funzione sociale che, per la specificità delle conoscenze in essa implicate e per la conseguente necessità di affidarla ad un corpo di soggetti a ciò specificamente qualificati, sovente suscita sospetto e rischia di esser vista come espressione elitaria di un privilegio di casta. E perciò su questo tema, solo apparentemente teorico ma gravido invece di moltissime conseguenze pratiche, ci ripromettiamo di soffermarci ancora in un prossimo numero monografico che, muovendo da riflessioni già sviluppate anche nelle pubblicazioni quotidiane della Rivista online, tratterà appunto di populismo e diritto.
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Mi pare difficile negare che, almeno in via di principio, la nozione di prevedibilità, riferita all’esercizio della giurisdizione, pur potendo essere declinata in vario modo (gli scritti che seguono ne danno ampia testimonianza), esprima comunque un valore tendenzialmente positivo. Per rendersene conto è sufficiente confrontarla con il suo opposto: pochi se la sentirebbero davvero di auspicare una giustizia dagli esiti del tutto imprevedibili, esercitata in chiave assolutamente soggettiva ed al di fuori di ogni parametro razionale di cui le parti possano preventivamente tener conto e di cui il giudice possa poi, a propria volta, dare conto. La celebre immagine del giudice Bridoye, ideato dalla meravigliosa fantasia di Rabelais, il quale, non senza aver prima rigorosamente rispettato tutti i canoni del procedimento in contraddittorio, si ritira in Camera di consiglio e decide la causa tirando i dadi può far sorridere e persino suscitare simpatia, ma non so quanti se la sentirebbero di portarla ad esempio di buon esercizio della giurisdizione. Ed, in giorni più vicini ai nostri, i sistemi di lottery as a legal decision-making device non hanno davvero mai raccolto molte adesioni nemmeno nel mondo giuridico anglosassone, dove pure sono stati seriamente prospettati metodi di decisione a sorte delle cause sottolineandone i vantaggi in termini di rapidità e di sicura imparzialità (ne parla diffusamente Neil Duxbury, Random Justice, Oxford University Press, 2002).
Come ignorare, d’altronde, che il diritto si rispecchia e si forgia nelle decisioni dei giudici, e che dunque se queste fossero erratiche ed imprevedibili (o affatto casuali) la comprensibilità stessa delle regole dell’agire giuridico ne risulterebbe inevitabilmente compromessa? E come non tener conto del fatto che, soprattutto (ma non solo) in campo penale, ogni attuazione del diritto che presupponga l’accertamento di una colpa e comporti l’applicazione di una sanzione dovrebbe logicamente postulare la possibilità per l’agente di conoscere la norma violata e quindi di prevedere le conseguenze della sua violazione? E che dire poi del nesso evidente tra prevedibilità ed applicazione uniforme della regula iuris, che chiama immediatamente in causa il principio costituzionale di eguaglianza di fronte alla legge?
Ma, se la prevedibilità degli esiti giurisdizionali è dunque un obiettivo meritevole di essere perseguito, occorre d’altro canto evitare il rischio di farne un feticcio, o comunque di declinarla in termini così rigidi e meccanici da trasformarla in una camicia di forza, che mai comunque riuscirebbe davvero ad imporsi alla multiforme varietà delle dinamiche sociali. In anni nei quali l’analisi economica del diritto ha fortemente influenzato il mondo giuridico e le logiche di mercato hanno assunto quasi ovunque un carattere dominante la prevedibilità delle decisioni giudiziarie è stata sovente invocata come strumento necessario per la sicurezza dei traffici e per lo sviluppo dell’economia, sino ad essere indicata da più parti come uno dei fattori decisivi per la concorrenzialità del cd. sistema-paese. Naturalmente c’è del vero nel sostenere che un sistema giudiziario non in grado di garantire un minimo di prevedibilità delle proprie decisioni può scoraggiare gli imprenditori, i quali ambiscono ad avere regole certe e di sicura applicazione per poter calcolare adeguatamente il rischio inerente all’attività d’impesa e commisurarvi i costi. Tuttavia occorre guardarsi dal concepire il diritto nei termini di un modello econometrico, perché la sua funzione non si esaurisce di certo nella sola regolazione giuridica dei fenomeni economici (che, del resto, come hanno da tempo evidenziato gli studi di psicologia cognitiva, sono largamente influenzati anche da un’ampia gamma di fattori irrazionali, i quali per loro stessa natura risultano difficilmente calcolabili), ma involve criteri etici e di giustizia sociale non suscettibili di quel genere di misurazione. L’estrema variabilità del fattore umano, di cui anche le vicende giuridiche sono intessute, induce inevitabilmente un certo tasso d’imprevedibilità in qualunque decisione voglia essere attenta – e per quanto possibile dovrebbe sempre sforzarsi di esserlo – alla specificità di ogni singolo accadimento ed all’infungibile individualità delle persone che lo hanno animato. Né gli eventi umani né le persone possono mai davvero essere ridotti solo a numeri e misurati secondo la logica dei numeri.
È sacrosanto, quindi, cercare di ricondurre il più possibile le decisioni giurisdizionali a criteri razionali che ne consentano la tendenziale prevedibilità, ma a patto di riconoscere che si tratta pur sempre di una prevedibilità tendenziale, e perciò relativa, destinata eventualmente a recedere di fronte alla necessità di adeguare il giudizio alle peculiarità di ciascun singolo fatto. Ed occorre perciò saper accettare, anche in quest’ambito, quel certo inevitabile tasso d’imprevedibilità, che è insito in qualunque aspetto della vita umana al quale è puerile volersi ribellare, rinunciando a quella esasperata quanto vana ricerca di certezza ad ogni costo da cui traspare il crescente sentimento d’insicurezza che sembra attanagliare l’uomo contemporaneo.
Per evidenti ragioni generazionali chi, come me, è nato e si è formato prima che esplodesse la rivoluzione digitale guarda con disagio e timore alla prospettiva di una giustizia abitata da algoritmi: sia quelli predittivi, che dovrebbero influenzare la decisione del giudice in base al calcolo di serie storiche pregresse, sia soprattutto quelli decisori, che dovrebbero financo direttamente determinare la decisione della causa. Ammetto di saperne troppo poco per azzardare giudizi, ma confesso che la giustizia robotica mi spaventa, benché mi renda conto che il modo di essere della giurisdizione non può restare immobile mentre tutto il mondo intorno si muove in una certa direzione. Bisogna certo imparare a servirsi di ogni moderno strumento anche nel campo della giustizia, ma continua a tornarmi in mente il monito di Siri Hustvedt (Le illusioni della certezza, Einaudi 2016, p. 167) secondo cui non è possibile “ragionare bene in assenza di emozioni”, ed è difficile tanto programmare un computer capace di comprendere gli stati emotivi o di provare emozioni quanto giudicare di vicende umane senza poterne comprendere anche gli aspetti emotivi. Né posso fare a meno di avvertire una certa quale inquietudine quando m’interrogo sul modo in cui gli eventuali algoritmi dovrebbero essere elaborati, sull’individuazione dei soggetti legittimati a farlo e su come sia possibile controllarne la plausibilità nei termini in cui oggi si può ancora pretendere di vagliare invece la ragionevolezza della motivazione di un qualsiasi provvedimento giurisdizionale.
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La questione cui da ultimo ho fatto cenno, quella del controllo sul modo in cui la giurisdizione è esercitata, conduce immediatamente al secondo tema del quale questo numero della Rivista si occupa: il tema della comunicazione.
Non si può intendere il significato della giustizia al di fuori di un mondo di relazioni, che per ciò stesso postula la comunicazione. A questa elementare constatazione non si sottrae l’esercizio della giurisdizione, che può svolgere appieno il suo ruolo solo se riesce a far comprendere le ragioni che ispirano le sue decisioni, le quali altrimenti risulteranno e saranno inevitabilmente percepite come espressione di un potere imperioso, magari efficace, ma arbitrario. La giurisdizione, certo, è espressione di sovranità ed il suo concreto esercizio non può prescindere, almeno in parte, dall’opera di un corpo di funzionari cui è demandato il potere di decidere, ma ciò si accorda con i principi di uno Stato democratico solo a condizione che quel potere sia esercitato in modo trasparente: che sia cioè in grado di far conoscere alle parti ed all’intero corpo sociale i criteri che ispirano le sue decisioni. L’obbligo costituzionale di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali ha per l’appunto tale significato, ma è evidente che per assolvere la sua funzione comunicativa la motivazione dev’esser chiara e comprensibile non soltanto nella ristretta cerchia dei giuristi ma anche per tutti coloro che, a cominciare dalle stesse parti in causa, pur non essendo dottori in legge sono interessati a comprendere le ragioni della decisione. Il che evoca il delicato, ma assai antico tema del linguaggio dei giuristi, di quanto esso possa essere tecnico senza divenire per ciò stesso esoterico.
Non di questo solo, però, si tratta. Il funzionamento della giurisdizione, ovviamente, non interessa soltanto le parti coinvolte in ciascuna singola causa, bensì la collettività nel suo insieme, e questo pone – con tanta maggiore urgenza in società quali le nostre, che amano definirsi “società dell’informazione” ed in cui effettivamente i mezzi d’informazione e di comunicazione si sono enormemente sviluppati – l’urgente problema di come la giustizia (o meglio: la giurisdizione) si manifesta e viene percepita nella pubblica agorà. Tema delicatissimo perché vi si innestano esigenze diverse, ma solo apparentemente contrapposte: da un lato quella, cui già s’è fatto cenno e che si radica profondamente nei principi democratici, di dar conto di come un potere – in questo caso il potere giurisdizionale – viene effettivamente esercitato; dall’altro lato quella di evitare che, sull’onda dell’emozione inevitabilmente provocata da vicende che colpiscono l’opinione pubblica, si generino spinte demagogiche capaci di condizionare impropriamente il convincimento di chi deve giudicare o, peggio, di sollecitare nel giudice o nell’inquirente forme non commendevoli di protagonismo che mal si conciliano col corretto esercizio della giurisdizione. Mi sembra però evidente che, per ovviare a questi ultimi inconvenienti, non si può più oggi indulgere a forme di chiusura verso l’esterno caratteristiche di un modo di porsi del giudice verso la società assai diffuso in tempi passati ma ormai assolutamente impensabile: giacché, per comprendere le esigenze sociali alle quali è chiamato a dare risposta, il giudice, lungi dal restare chiuso nella sua mitica torre d’avorio, deve calarsi nel vivo della società e dialogare comunicando con essa. Sono i modi della comunicazione a dover essere ben calibrati, ma una comunicazione trasparente e corretta, oltre alle esigenze democratiche di cui già s’è detto, è indispensabile al buon esercizio della stessa funzione giurisdizionale che, per assolvere bene il proprio compito deve poter riscuotere la fiducia dei cittadini e deve perciò riuscire a farsi comprendere da loro.
L’augurio è che le molte suggestioni contenute a tal riguardo nelle pagine di questa Rivista – proprio perciò aperte non soltanto a giuristi – aiutino a trovare i giusti registri comunicativi ed a favorire lo sviluppo di un positivo dialogo tra chi amministra la giustizia e coloro in nome del quale essa è amministrata.
Gennaio 2019