Giurisdizione per principi e certezza del diritto
La diretta applicazione da parte dei giudici comuni dei principi costituzionali, laddove manchi la disciplina legislativa del caso, solleva interrogativi sul piano della prevedibilità del diritto e del peso degli orientamenti soggettivi di valore, interrogativi riconducibili al più ampio dibattito su democrazia e costituzionalismo. Quando il giudice risolve la controversia mediante il bilanciamento dei principi costituzionali in relazione alle circostanze del caso, o mediante la concretizzazione di clausole generali, si appella al bilanciamento ideale o all’ideale di norma contenuto nella clausola generale. Allo scopo di garantire la sicurezza giuridica, quale elemento fondamentale dello Stato di diritto, deve riconoscersi che, in sede di giurisdizione per principi o per clausole generali, è operante anche nei sistemi di civil law la regola dello stare decisis. Un esempio di diritto del caso concreto, dove trova applicazione la regola della vincolatività del precedente giudiziario, è quello del contratto iniquo e gravemente sbilanciato in danno di una parte.
1. Dalla fattispecie ai principi
Dopo le costituzioni del Novecento, la forma del diritto nell’Europa continentale non è più circoscrivibile allo schema della fattispecie legale, con cui Max Weber l’aveva fatta coincidere nelle grandi pagine di Economia e società. Per Weber la moderna razionalità formale risponde alla logica dei mezzi, non dei fini, e nell’ambito di tale razionalità il diritto deve rispondere a requisiti di prevedibilità e calcolabilità quale strumento al servizio della moderna economia capitalistica. Lo schema della fattispecie, quale sussunzione del caso concreto all’interno di uno schema astratto e prestabilito, risponde a queste esigenze di prevedibilità e calcolabilità del diritto. I postulati della sublimazione del concreto nell’astratto sono così definiti da Weber: 1) la giurisdizione è applicazione di uno schema astratto a una fattispecie concreta; 2) per ogni fattispecie concreta deve essere sempre ricavabile una decisione dal sistema delle fattispecie astratte; 3) l’ordinamento giuridico deve essere, o deve venir trattato come se fosse, privo di lacune; 4) ciò che non è sussumibile nella forma astratta è anche irrilevante per il diritto; 5) ogni agire umano deve essere sussumibile in una regola precostituita[1]. I postulati della fattispecie legale trovarono la loro compiuta espressione nelle codificazioni dell’Ottocento europeo.
Le costituzioni novecentesche dell’Europa continentale, nella parte dedicata ai diritti fondamentali – come ha evidenziato una letteratura ormai sterminata – sono formulate per principi[2]. La formulazione per principi delle norme costituzionali introduce una forma del diritto assai distante da quella della fattispecie legale. Ronald Dworkin, in pagine classiche sorte, peraltro, in un ambiente estraneo alla tradizione europeo-continentale, ha definito in modo chiaro la differenza fra principio e regola, quest’ultima corrispondente a quella che italiani e tedeschi chiamano fattispecie legale o tatbestand[3]. Nella disciplina del caso concorrono una pluralità di principi, i quali non solo sono necessariamente plurali, ma sono anche equiordinati, nel senso che condividono la medesima precettività rispetto al caso. Ai fini della disciplina del caso, i principi devono, pertanto, essere bilanciati e la regola del caso risulta da questo bilanciamento, il quale si traduce nell’applicazione dell’un principio fino alla soglia di ponderazione con l’altro principio, secondo nessi di prevalenza e soccombenza. Il principio soccombente recede nei limiti del criterio di proporzionalità. Il bilanciamento impedisce che vi sia un sacrificio integrale di un principio a favore dell’altro e risponde a una logica chiaroscurale di applicazione fino a un certo limite. La regola è, invece, disciplina esclusiva del caso, per cui l’applicazione dell’una regola al caso impedisce l’applicabilità delle altre. A differenza dei principi, le regole hanno la forma del collegamento degli effetti giuridici a determinati presupposti di fatto per cui, in presenza della verificazione di quei presupposti, non possono che conseguirne gli effetti previsti da quella regola – e soltanto da quella.
I postulati weberiani della sussunzione nella fattispecie astratta sono chiaramente individuabili nella forma della regola e non in quella del principio[4]. La domanda da porsi è la seguente: nel passaggio dalla regola, o fattispecie legale, al principio si perde il requisito della prevedibilità e della calcolabilità del diritto nel quale Weber ravvisava uno degli elementi fondamentali della moderna organizzazione sociale? Deriva, di qui, una seconda domanda: se è vero che l’applicazione della fattispecie legale risponde a un criterio di razionalità formale, e dunque a una logica di mezzi e non di fini, vuol dire che applicare un principio comporta la ricaduta nella razionalità materiale, dettata da scopi individuali, e dunque nell’arbitrio dei valori soggettivi[5]? Senza la mediazione della fattispecie, il giudice non farebbe altro che seguire «il demone che tiene i fili della sua vita», per dirla ancora con Weber[6].
Le preoccupazioni in termini di perdita di prevedibilità del diritto e dominio del soggettivismo valoriale derivano da un’ulteriore caratteristica delle costituzioni novecentesche dell’Europa continentale: esse non sono solo norma di organizzazione del potere pubblico e criterio di legittimità delle norme ordinarie, ma sono anche, in quanto fonte del diritto, norme direttamente giustiziabili in mancanza della disciplina legislativa del caso. Nell’epoca del dominio della forma-codice, prima dell’apparizione novecentesca del modello della costituzione rigida, le pretese soggettive erano giustiziabili a condizione che corrispondessero a una posizione soggettiva prevista dalla fattispecie legale, espressamente o in forma analogica. Con la comparsa della costituzione formulata per principi e operante quale fonte del diritto, non vi è più un limite legalistico alla giustiziabilità delle pretese soggettive. L’unico limite di tutela delle posizioni soggettive è quello della loro conformità a giustizia, da intendere quale bilanciamento dei principi in relazione alle circostanze del caso. Vi è un diritto da tutelare se lo consente la ponderazione dei principi concorrenti.
A fronte della carenza di una specifica fattispecie legale nella quale sussumere il caso, spetta quindi al giudice del caso concreto ricostruire la regola di giudizio attingendo direttamente ai principi costituzionali e provvedendo al loro bilanciamento, come affermato dalla giurisprudenza costituzionale[7]. La regola del caso concreto può essere fissata dal giudice comune anche all’esito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di un’omissione legislativa da parte della Corte costituzionale, la quale somministra il principio cui il giudice comune è abilitato a fare riferimento per porre rimedio all’omissione, nell’attesa dell’intervento legislativo[8]. La giurisdizione comune per principi costituzionali trova, oggi, un terreno particolarmente fecondo nella materia dei diritti della persona e nei nuovi scenari aperti dal biodiritto[9]. Vi è da aggiungere che la stessa classica operazione di sussunzione nella fattispecie legale è destinata a mutare quando si entra nell’universo dei principi costituzionali. La sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta è mediata dai principi, nel senso che la regola – attraverso la quale si procede alla sussunzione – è resa conforme a Costituzione mediante l’interpretazione adeguatrice al bilanciamento fra principi.
Secondo i critici della giurisdizione comune per principi, soprattutto quando è individuazione della regola del caso concreto, in questo tipo di giurisdizione vi è un deficit di prevedibilità e domina il soggettivismo dell’interprete. Quest’ultimo aspetto in particolare evoca una delle critiche di fondo che sollevate all’indirizzo dello stesso costituzionalismo contemporaneo e all’idea del controllo di costituzionalità delle leggi: l’affidamento del destino di una comunità alle scelte discrezionali di un’aristocrazia giudiziaria anziché alla procedura democratica.
2. Democrazia versus costituzionalismo
Benché il costituzionalismo contemporaneo venga definito costituzionalismo democratico, democrazia e costituzione rappresentano i poli di una dialettica che è stata assai viva nel pensiero occidentale del secolo scorso e che oggi, guardando alle obiezioni che solleva una giurisdizione comune per principi, avvertiamo come ancora presente. La polemica democratica contro il costituzionalismo ha conosciuto due stagioni importanti: la prima in Europa continentale, nella prima metà del Novecento; la seconda negli Stati Uniti, nella seconda metà del secolo. La prima stagione è quella della celebre polemica fra Hans Kelsen e Carl Schmitt[10]; la seconda è quella che ha visto, da una parte, autori come John Hart Ely e Jeremy Waldron (con un’eco, in Europa, nelle posizioni di Jürgen Habermas) e, dall’altra, Ronald Dworkin[11]. Il dilemma della giustizia costituzionale è stato così espresso da Ely: «a body that is not elected or otherwise politically responsable in any significant way is telling the people’s elected representatives that they cannot govern as they’d like»[12]. Si apre qui la forbice fra costituzionalismo e democrazia, secondo una vasta e risalente corrente di pensiero.
La divaricazione fra democrazia e costituzionalismo non ha solo carattere teorico, ma risponde anche allo sviluppo storico dei modelli costituzionali. Il modello europeo-continentale, in quanto risalente alla rivoluzione francese, propone un’idea di costituzione quale indirizzo fondamentale dei poteri orientato alla trasformazione sociale, mentre quello statunitense, risalendo all’evento storico dell’indipendenza dalla madrepatria inglese, pone al centro il tema della garanzia dei diritti e della dispersione del potere in una pluralità di centri[13]. Non è un caso che per l’antesignano di ogni lettura del costituzionalismo in termini di primato della politica, e cioè Carl Schmitt, una teoria della costituzione sorga solo nell’anno 1789, in Francia[14]. Secondo Schmitt, l’origine della costituzione non risiede in una norma fondamentale (Kelsen), ma nella decisione politica fondamentale del popolo sovrano il cui potere costituente, contrariamente alle letture della costituzione secondo la metafora del legarsi come Ulisse di fronte alle sirene, non si esaurisce con il suo iniziale esercizio, ma resta permanente. Il punto di arrivo di questo movimento di pensiero è nell’identificazione di costituzionalismo e garanzia del mero rispetto della procedura democratica, secondo quanto proposto da Habermas, che lascia però aperta la domanda posta da Robert A. Dahl: «e quando il diritto al processo democratico entra in conflitto con un altro diritto fondamentale, quale altro processo dovrebbe dirimere la controversia?»[15]. La dialettica fra costituzionalismo politico e costituzionalismo giuridico si ripropone oggi, su scala sovranazionale, nella dialettica fra ordinamenti nazionali, concreta espressione del demos di una comunità, e ordinamenti internazionali (quale la Convenzione europea dei diritti dell’uomo), affidati a corti e autorità avvertite come tecnocratiche dal punto di vista dei teorici del primato della sovranità nazionale.
La discussione su democrazia e costituzione è una grande discussione: in questa sede, vi si potrà solo fare cenno; nondimeno, siccome alle corti è affidata la custodia dei diritti sanciti dalle costituzioni, è bene delineare i contorni del modello di giudice che il costituzionalismo propone quale risposta alla critica democratica dell’aristocrazia giudiziaria. Sulla base della natura contro-maggioritaria del costituzionalismo quale limitazione del potere, due immagini sono identificabili. Una prima visione è legata al liberalismo classico, di cui è efficace rappresentazione il giudice che, ne La democrazia in America di Tocqueville, oppone alla foga dei disegni della sovranità popolare il suo procedere con lentezza e la protezione della lex terrae contro gli arbitri di una ragione astratta. Si avverte, qui, l’eco della polemica romantica contro il razionalismo e l’illuminismo, la garanzia del pluralismo dei valori contro la freddezza e l’astrattezza del progetto moderno di razionalizzazione della società[16]. L’idea del giudice garante della tradizione non è più proponibile nel contesto della postmodernità e delle società secolarizzate, nelle quali la pluralità di valori non è il punto di resistenza del passato rispetto a un’avanzante modernità, ma è il presente di un mondo compiutamente politeistico, caratterizzato dalla progressiva moltiplicazione delle differenti concezioni del bene.
Parte dal disaccordo contemporaneo sulle concezioni di vita buona una critica radicale dell’affidamento delle costituzioni alle corti: proprio la controversia radicale sulle visioni di bene giustifica, per Waldron, la superiorità della procedura democratica rispetto a quella del controllo giurisdizionale di legittimità costituzionale[17]. Alla tesi del mero rapporto fra procedure, tale da rendere preferibile la procedura democratica, potrebbe prestare supporto la visione, sostenuta dai teorici del positivismo giuridico – come Herbert L.A. Hart e Joseph Raz –, dell’agire dei giudici come guidato da una piena discrezionalità dettata da considerazioni extra-giuridiche. Per la confutazione di questa visione, il costituzionalismo ha trovato il proprio alfiere nel Dworkin de L’impero del diritto. Quando il giudice risolve una controversia in base ai principi, punta all’integrità quale «migliore interpretazione costruttiva delle nostre distinte prassi giuridiche»[18]. Nel dirimere la controversia, il giudice non segue il soggettivismo delle proprie convinzioni di valore, come accade nella discussione all’interno dell’agone democratico, ma si appella a un ideale cui conforma il proprio agire interpretativo. Si tratta di un punto collocato all’infinito e, come tale, inattingibile; ciò nondimeno, esso governa l’attività interpretativa delle corti quale paradigma della ragione pubblica, come direbbe il John Rawls di Liberalismo politico. Nel processo democratico, il confronto è fra convinzioni soggettive di valore; in una Corte si mira all’idea-limite del giusto, quale equa ponderazione e sacrificio proporzionato dei principi concorrenti.
Interviene, qui, in favore del costituzionalismo una famiglia teorica che vede, fra i suoi protagonisti, anche Rawls (si può sostenere che il giudice che si appella all’ideale indossa il velo d’ignoranza che, per Rawls, caratterizza la posizione originaria al momento in cui si stabilisce una costituzione) e Kelsen, e che può farsi risalire a Kant. È vero che, a differenza di Rawls e Kelsen, Dworkin è accostabile più alla filosofia ermeneutica che non a quella trascendentale di origine kantiana, ma ciò che accomuna questi autori è l’identificazione del diritto con un ideale regolativo e l’affermazione, in tal modo, del primato della costituzione rispetto alla politica.
Kelsen è ben lontano dalla giurisdizione per principi perché, secondo la sua dottrina pura del diritto, il mondo giuridico è un mondo di fattispecie legali, organizzato in modo piramidale e di cui le sentenze dei giudici, collocate in basso nella gerarchia, rappresentano una mera esecuzione. Tuttavia, nel porre all’origine della costituzione, diversamente da Schmitt, una norma fondamentale e non una decisione politica, Kelsen rende evidente che il diritto è una forma ideale che richiede di essere concretizzata. La norma fondamentale dell’ordinamento giuridico non è posta come esistente, ma è una norma presupposta, una «condizione logico-trascendentale» di pensabilità del sistema[19]. Al momento di instaurare un ordinamento giuridico, la decisione politica fondamentale non è dettata dalla propria mera forza o da un’unilaterale volontà, ma da un ideale regolativo, che è il diritto nella sua forma pura consegnata dalla norma fondamentale, presupposta a ogni possibile norma.
Allo stesso modo, quando le corti interpretano le costituzioni, esse si appellano a un ideale, che è quello della migliore interpretazione della civiltà giuridica di una comunità, per riprendere Dworkin. Il controllo giurisdizionale di legittimità costituzionale non è una mera procedura nella quale si agitano volontà empiriche, ma è la sede di un impegno a favore di una forma ideale[20].
3. Principi e clausole generali
Il bilanciamento dei principi, cui provvede il giudice costituzionale in sede di sindacato di costituzionalità della legge o il giudice comune in sede di risoluzione di un caso concreto non sussumibile in una fattispecie legale, non è esercizio di mera discrezionalità, ma tensione normativa verso un ideale di bilanciamento. La controversia giudiziaria innanzi al giudice comune rende evidente che quel bilanciamento non è mai in astratto, ma è relativo alle circostanze del caso; tuttavia, il giudice assume una responsabilità, che è quella del perseguimento di una forma ideale. Deve essere chiaro che il giudice, mediante il bilanciamento dei principi, costruisce la regola del caso concreto. Bisogna liberarsi dalla mistica della scoperta giurisdizionale del diritto. Quando il giudice bilancia i principi costituzionali in relazione alle circostanze del caso, non rinviene un diritto preesistente, che si rispecchi nella sua decisione, ma costruisce la disciplina relativa alla singola controversia. Egli si appella, tuttavia, all’ideale bilanciamento in concreto dei principi, il quale non è una realtà attingibile, bensì un ideale regolativo[21]. Il giudice si uniforma all’imperativo della liberazione dagli orientamenti soggettivi di valore e del perseguimento della forma ideale.
La pratica della decisione mediante l’appello a un ideale è particolarmente evidente nell’applicazione di norme ordinarie formulate per clausole generali. Le norme cosiddette “elastiche”, quali la buona fede, la diligenza o il danno ingiusto, non rappresentano la regolazione del caso, ma la disciplina ideale cui la regolazione di ciascun caso concreto deve tendere. La clausola generale non fissa il contenuto della regola giuridica, in via generale e astratta, secondo la tecnica della norma a fattispecie, ma fissa il criterio di identificazione della regola giuridica relativa al caso concreto. La disposizione che contempla una clausola generale non enuncia, quindi, una norma in senso proprio, ma un ideale di norma cui attingere per l’identificazione della norma del caso concreto. Come scrive Josef Esser, il quale definisce la clausola generale «forma-limite», «al giudice viene tolta l’illusione di una fattispecie fissa e già preparata e gli viene palesato l’impegno comunque presente di “capire in modo giusto” la norma con un giudizio di valutazione conforme al dovere»[22]. Identificare la norma individuale corrisponde, per l’interprete, all’assunzione di un impegno normativo nella direzione del parametro costituito dall’idea-limite. La buona fede, la diligenza o il danno ingiusto sono un telos[23].
Principi costituzionali e clausole generali hanno in comune il riferimento al caso concreto per l’individuazione delle loro condizioni di applicabilità. Non c’è un ordine gerarchico dei principi: essi trovano le loro infinite combinazioni e bilanciamenti in relazione alle circostanze del caso. L’ordine dei principi non è astratto e formale, ma in costante e incessante adeguamento alla materia viva del mondo dei fatti. Emerge qui la peculiare concretezza del diritto costituzionale. Il parametro di legittimità costituzionale della norma risiede non nella lista dei principi una volta per tutte e in via preventiva, ma nella graduazione che si manifesta nel caso concreto. La regola di legittimità fa la propria apparizione in relazione alle circostanze che, volta a volta, si presentano e all’esito dell’operazione di bilanciamento fra i principi concorrenti. Il compito dei principi è quello di generare regole in occasione del presentarsi del fatto. Le regole che risultano dal concorso dei principi non sono regole ermeneutiche[24], ma fattispecie normative vere e proprie[25], come sarà illustrato meglio più avanti. La norma è illegittima non per diretta violazione dell’astratto principio o della forma logica del bilanciamento, bensì per violazione della norma risultante dal bilanciamento in concreto dei principi. Quali regole, esse hanno la forma della fattispecie, e cioè di valutazioni di determinati presupposti di fatto. Tali fattispecie di ordine costituzionale costituiscono il parametro di legittimità della norma che quei fatti in via generale e astratta abbia valutato; oppure, spostandosi dal piano della giurisprudenza costituzionale a quello della giurisprudenza comune, rappresentano la regola del caso concreto, risolto mediante un diretto appello alla forza gius-generativa dei principi costituzionali in mancanza di una fattispecie legislativa.
Allo stesso modo, le clausole generali o norme elastiche, quali puri ideali di regolazione, sono determinabili solo in relazione alle circostanze del caso: possono, cioè, essere predicate solo come norme individuali. Non c’è la buona fede, ma un comportamento conforme a buona fede, date determinate circostanze di fatto. Allo stesso modo dei principi, le clausole generali generano regole del caso concreto. In entrambi i casi – principi e norme elastiche – l’identificazione della regola individuale risulta da un appello all’ideale: nell’un caso, l’ideale bilanciamento dei principi in relazione alle circostanze del caso; nell’altro, l’ideale di norma espresso dalla clausola generale.
Emergono, però, anche le differenze. La tecnica di applicazione dei principi è quella del bilanciamento; la tecnica di applicazione delle clausole generali corrisponde alla concretizzazione. La clausola generale non è suscettibile di bilanciamento perché, nel corso della sua concretizzazione, incontra solo le circostanze fattuali e non anche valori normativi concorrenti, come accade invece nel caso dei principi costituzionali. Mentre la normatività di questi ultimi è condivisa con altri principi, caratteristica della regola – come si è detto – è il carattere esclusivo della disciplina. Della regola la clausola generale, in quanto ideale di regola, recepisce l’esclusività della disciplina pur essendo, quale puro ideale, priva della forma della fattispecie. Questa differenza rinvia al diverso piano su cui operano principi e clausole generali – l’uno costituzionale, l’altro ordinario – e consente di illustrare come nasce un ordinamento.
All’origine di un ordinamento giuridico vi sono i principi costituzionali, non i valori. Il valore è un bene finale, non bilanciabile con altri valori, mentre i principi sono beni iniziali, che si realizzano fino a un certo grado, risultante dal bilanciamento con gli altri principi[26]. Un ordinamento nasce, in definitiva, come segue. Grazie al bilanciamento dei principi, che compete in primo luogo al legislatore in un ordinamento fondato sulla forma di legge, viene identificato un valore. Il valore può essere positivizzato come tale, ad esempio il dovere di comportarsi secondo buona fede, e sorge una norma ordinaria elastica, la quale richiederà le concretizzazioni da parte del giudice allo scopo della sua applicazione. Quel valore può, però, costituire per il legislatore il criterio per collegare a un determinato fatto, previsto in via astratta e generale, determinati effetti giuridici. Sorge così la fattispecie legale, la cui applicazione avviene mediante sussunzione. La concretizzazione legislativa del valore può essere reiterata per una diversità di tipologie astratte di fatti e si avranno, quindi, diverse concretizzazioni del valore per una molteplicità di disposizioni legislative. Quel valore diventa allora un principio generale dell’ordinamento (generale perché relativo a una pluralità di norme ordinarie nel quale si è concretizzato[27]), ma la differenza con il principio costituzionale è chiara: il principio generale è il valore, risultante dal bilanciamento fra principi costituzionali, che si è concretizzato in una pluralità di disposizioni legislative (la buona fede, ad esempio, non è solo positivizzata come tale, ma è concretizzata dal legislatore in una pluralità di fattispecie, operando quale criterio di collegamento degli effetti giuridici al fatto previsto dalla norma in via generale e astratta); il principio costituzionale è la fonte dei bilanciamenti alla base delle norme ordinarie. Ai bilanciamenti fra principi costituzionali provvedono anche il giudice costituzionale, in sede di controllo di legittimità della norma ordinaria, e il giudice comune, in sede di risoluzione di una controversia non disciplinata dalla legislazione ordinaria (o di interpretazione della norma ordinaria in modo conforme a Costituzione). Quando il giudice comune concretizza una clausola generale non opera bilanciamenti perché la norma elastica è già il risultato di un bilanciamento fra principi, cui ha provveduto il legislatore ponendo quella norma. Al giudice non resta che concretizzare la clausola generale (e cioè il valore identificato dal legislatore sulla base del bilanciamento fra principi) sulla base delle circostanze del caso.
Prevede l’art. 12, comma 2, delle disposizioni sulla legge in generale in apertura del codice civile italiano che «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato». Se il caso della vita, ad esempio una questione inedita in materia di diritti della persona, sfugge ai bilanciamenti di principi operati dal legislatore, per cui non solo manca una norma espressa mediante cui disciplinare il caso, ma difetta anche un valore positivizzato in norme (e dunque la norma da applicare analogicamente o il principio generale) cui fare riferimento, non resta al giudice che identificare, mediante il bilanciamento fra principi costituzionali, il valore attraverso il quale collegare al fatto concreto gli effetti giuridici.
4. Garantire la sicurezza giuridica
Come si è detto, il giudice che bilancia principi o concretizza clausole generali non scopre un diritto preesistente, ma costituisce la regola del caso concreto, appellandosi tuttavia a un ideale e non seguendo le proprie convinzioni di valore. Si tratta di un diritto che non viene dal sovrano democratico nella forma della legislazione, ma dal giudice nella forma della giurisdizione. Nel caso dei principi, la soglia di costituzione del diritto è anche più elevata perché, mentre nell’ipotesi delle clausole generali si tratta di concretizzare un valore identificato dal legislatore, quando si tratta di dare diretta attuazione ai principi mediante il loro bilanciamento, il valore attraverso cui collegare gli effetti giuridici al fatto concreto è identificato dal giudice.
Al diritto che non viene dal sovrano democratico sembra mancare una delle caratteristiche identificative della forma di legge, la prevedibilità degli effetti giuridici delle condotte umane. Significativa è l’obiezione che fu sollevata all’indomani della rilettura della responsabilità civile, operata da Stefano Rodotà, in termini di clausola generale del danno ingiusto e di principio costituzionale di solidarietà sociale: nel passaggio dalle fattispecie di condotte illecite alla clausola generale del danno ingiusto, quale criterio ordinatore della responsabilità civile, si perde l’oggettività degli elementi descrittivi del sistema di fattispecie tipiche a garanzia del principio di legalità[28]. L’obiezione che si può muovere alla giurisdizione per principi o clausole generali è più radicale di quella dell’assenza di prevedibilità del diritto come fatto sociale. Il piano della calcolabilità del diritto è quello sociologico individuato da Weber, che vedeva nella fattispecie uno strumento essenziale della moderna economia di mercato. Dopo l’ingresso del principio di rigidità costituzionale, la prevedibilità del diritto diventa certezza del diritto, espressione a sua volta del diritto fondamentale alla sicurezza giuridica. Ricorrente nella giurisprudenza costituzionale a proposito, per vero, dell’esercizio del potere legislativo, è il richiamo al legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica quale elemento fondamentale dello Stato di diritto[29]. La stessa Corte europea dei diritti umani, pur escludendo l’esistenza di un diritto a una giurisprudenza costante (perché il principio della certezza del diritto non impone il divieto per la giurisprudenza di modificare i propri indirizzi)[30], in più occasioni ha ammonito gli Stati aderenti alla Convenzione a evitare marcate diversità di vedute all’interno dell’organo avente il compito di dare uniformità alla giurisprudenza a salvaguardia del canone della certezza del diritto[31]. Il legittimo affidamento nella sicurezza giuridica e la certezza del diritto sono proiezione del principio di eguaglianza. Con quest’ultimo stride apertamente l’evenienza che due fattispecie concrete di analogo contenuto siano decise dal giudice in modo difforme.
La codificazione, che si affermò sul continente europeo nel XIX secolo, assolse alle esigenze di sistematicità, certezza e prevedibilità del diritto. A quelle esigenze ha corrisposto nel mondo anglo-sassone la regola dello stare decisis, anch’essa impostasi nel XIX secolo[32]. In un’opera risalente sul diritto giurisprudenziale si osservò che, negli ordinamenti dell’Europa continentale, la certezza del diritto è meglio garantita, rispetto al regime del precedente giudiziale, da «un codice organico, inteso a regolare integralmente una materia attraverso anticipate formulazioni generali»[33]. Come abbiamo detto all’inizio, il codice civile ha rappresentato l’espressione più compiuta della tecnica della fattispecie legale. Sembra che il tempo di quel codice «organico» non possa più tornare, non solo perché la forma-codice è stata grandemente relativizzata da una straordinaria proliferazione della legislazione speciale, ma anche perché, se per un verso si va diffondendo nello stesso codice il tipo della norma a clausola generale, per l’altro la forma-costituzione in funzione di fonte del diritto penetra in tutti gli interstizi e gli spazi vuoti lasciati dal codice civile. Rispetto alla giurisdizione per principi o per clausole generali, la forma-codice e il diritto per fattispecie non assolvono evidentemente ad alcuna funzione di calcolabilità e prevedibilità del diritto. La funzione di certezza del diritto rispetto al diritto per principi o per clausole generali non può che essere assolta dal precedente giudiziario. È alla regola dello stare decisis che può, allora, affidarsi il compito di garantire la sicurezza giuridica quando il giudice dirime le controversie attraverso i principi costituzionali o le clausole generali.
Negli ordinamenti di civil law, informati al dominio della forma di legge, la tecnica della fattispecie legale continua ad assolvere la fondamentale funzione di garanzia della certezza del diritto. Peraltro, l’espansione di una giurisdizione per principi costituzionali o per clausole generali impone l’adozione, anche nei sistemi di civil law, della regola dello stare decisis. In realtà, non si tratta di adottare in senso proprio una siffatta regola, ma di prendere atto della sua operatività laddove la controversia è risolta mediante la diretta applicazione dei principi o mediante la concretizzazione di una clausola generale. Questo riconoscimento va contemperato con il principio di soggezione del giudice alla legge che caratterizza i sistemi di civil law. Tale è la portata dell’art. 101 della Costituzione italiana e dell’art. 230 della Costituzione colombiana, il quale tuttavia prevede che «l’equità, la giurisprudenza, i principi generali del diritto e la dottrina sono criteri ausiliari dell’attività giudiziale»[34]. In un sistema informato al diritto di fonte legislativa, la forza vincolante del precedente non può che derivare dal diritto positivo. Se il giudice è soggetto alla legge, solo quest’ultima può stabilire i margini di vincolatività del precedente, e può farlo in misura più o meno estesa. È quanto accade con l’art. 374, comma 3, del codice di procedura civile italiano: esso prevede che, se la sezione semplice della Corte di cassazione ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite della medesima Corte, rimetterà a queste ultime la decisione del ricorso. Al precedente enunciato dalle sezioni unite non è, però, vincolato il giudice di primo o secondo grado, il quale, motivando sul punto, può appellarsi alla legge contro il precedente e riaprire il circuito della nomofilachia. Sarà la Corte suprema, a questo punto, ad assicurare l’«esatta osservanza» della legge.
Il precedente giudiziario del common law, in quanto relativo a un diritto che non deriva dalla legge, è dotato di una vincolatività propria, ontologica, che trova fondamento nel principio di tradizione[35]. L’efficacia vincolante del precedente, con riferimento alla giurisdizione per principi o per clausole generali, discende dalla circostanza che il diritto che il giudice applica, anche laddove concretizzi una clausola generale prevista dalla legge, costituisce il diritto del caso concreto. Il riconoscimento dell’esistenza della regola dello stare decisis in un sistema di civil law deriva, quindi, dall’individuazione di un ambito di giurisdizione nel quale non trova applicazione il diritto di fonte legislativa, ma una norma concreta di diritto. In tale ambito – come si dimostrerà a breve – il precedente giudiziario, come nel common law, è dotato di una vincolatività propria, che non deriva quindi dalla legge.
Non può sfuggire, infine, che il principio di tradizione, su cui è radicata la regola dello stare decisis, costituisce un fattore di mitigazione potente dell’influenza degli orientamenti soggettivi di valore del singolo giudice. Nell’ambito di un’importante discussione germinata nell’ambiente filosofico statunitense, si è precisato che il vincolo al caso precedente non corrisponde a un rapporto fra le individualità dei giudici, ma alla partecipazione a una comune tradizione cui il giudice attuale e il suo predecessore, con minore o maggiore successo, mirano a essere fedeli[36]. Nel vigore della regola dello stare decisis, il rapporto del giudice con il caso è mediato non dalla fattispecie, ma dalla tradizione rappresentata dalla catena dei precedenti. La presenza di una mediazione (la tradizione o la fattispecie) rappresenta un ostacolo decisivo all’irruzione delle individuali convinzioni di valore del singolo giudice.
5. Lo stare decisis nel civil law
Il caso da disciplinare mediante i principi costituzionali conosce diversi livelli di intensità: si va da un massimo di astrattezza e generalità, che ricorre nel giudizio di costituzionalità quando viene in rilievo la classe generale e astratta contemplata dalla norma oggetto di scrutinio costituzionale, al massimo di concretezza che contraddistingue la controversia innanzi al giudice comune per la tutela di un diritto non disciplinato dalla legge ordinaria. Il diritto rilevante, in entrambi i casi, corrisponde non ai principi oggetto di bilanciamento, ma alla norma – relativa alle circostanze – in cui sfocia il bilanciamento medesimo e in base alla quale è sindacata la legittimità costituzionale della norma ordinaria, o decisa la controversia relativa a un caso non previsto dalla legge. Del resto, anche il legislatore, quando pone una norma, bilancia principi: il diritto, in tal caso, corrisponde ovviamente alla norma legislativa, non ai principi dalla cui ponderazione risulta quella norma. Allo stesso modo, il diritto corrisponde alla norma concreta, e non ai principi costituzionali, quando il giudice comune, chiamato al bilanciamento dei principi costituzionali di fronte a un hard case non disciplinato dalla legge, dichiara (non pone, stante il vincolo di soggezione del giudice al diritto) la regola del caso concreto.
La regola di cui il giudice comune fa applicazione è la norma concreta di diritto che consente la risoluzione della controversia. Si tratta di una norma senza disposizione, in quanto identificata solo in via interpretativa mediante il bilanciamento dei principi, e non risultante da un enunciato linguistico posto. Una norma concreta di diritto identifica pur sempre una fattispecie, solo che vi è piena convergenza di fattispecie concreta e norma. Gli elementi di fatto della fattispecie normativa sono rappresentati direttamente dalle circostanze del caso concreto. La concretizzazione della clausola generale ben illustra questo fenomeno.
Il dovere di comportarsi secondo buona fede, per riprendere un esempio illustre di clausola generale, esprime una forma ideale di norma. La norma in senso tecnico che trova applicazione non è l’ideale di norma espresso dalla clausola generale, ma la norma individuale. La disciplina del caso non è affidata alla clausola generale, priva, in quanto puro ideale, di forza precettiva in relazione alle circostanze del caso, ma alla norma concreta. La clausola generale non regola una classe di azioni o eventi, illustrando invece l’ideale di regolazione per le discipline relative ad azioni ed eventi eterogenei. Essa esprime il valore che il legislatore ha identificato bilanciando i principi, ma poi spetta al giudice identificare la norma quale collegamento dell’effetto giuridico al fatto concreto sulla base di quel valore. La disciplina dell’azione o evento individuale è affidata alla norma concreta, la quale è, pertanto, una norma giuridica a tutti gli effetti, una norma senza disposizione, risultante dalla concretizzazione giudiziale del valore enunciato dal legislatore nella norma elastica o clausola generale.
Si viene così dispiegando, in parallelo all’ordinamento positivo risultante dalla disciplina generale e astratta che caratterizza la forma di legge, un ordinamento concreto risultante dai singoli bilanciamenti di principi costituzionali o dalle singole concretizzazioni di clausole generali; un ordinamento, cioè, di fattispecie concrete e non astratte e generali. Il principio di diritto enunciato dalla sentenza e corrispondente alla norma concreta di diritto ha tutte le caratteristiche della ratio decidendi secondo il common law. Mentre nel civil law la ratio decidendi della sentenza ha pur sempre la forma della previsione astratta e generale – in quanto è applicazione, mediante la tecnica della sussunzione, della disposizione legislativa a nuovi casi, oppure è interpretazione della stessa portata normativa della disposizione –, nel common law la ratio decidendi è inferita dalle circostanze del caso concreto e da queste non è separabile[37]. La ratio decidendi in un sistema legalistico è priva della forza propria dello stare decisis perché non è altro che sussunzione del fatto nella fattispecie legale (o interpretazione di quest’ultima) e, dunque, ciò che trova applicazione nei casi successivi è pur sempre la norma di legge. Invece, nel caso di ratio decidendi corrispondente alla norma concreta di diritto, la quale è precetto giuridico non svincolabile dalle circostanze del caso concreto, il decisum è in quanto tale suscettibile di reiterazione in casi successivi connotati dai medesimi requisiti fattuali. Si può parlare, a questo proposito, di nomofilachia del concreto.
Il meccanismo operante è quello della riconduzione e non della sussunzione. Quest’ultima presuppone una fattispecie generale e astratta, definita da una serie di elementi determinati e tutti necessari, nella quale riportare un caso concreto attraverso la selezione degli elementi corrispondenti all’ipotesi astratta. È necessario che tutti gli elementi della fattispecie astratta siano presenti in quella concreta, che è così dedotta dalla prima. Nel caso della norma concreta, il procedimento logico non è deduttivo, ma induttivo. In essa, la fattispecie ha carattere concreto perché consta di un complesso di elementi non tutti necessari – come per la fattispecie astratta. Non è richiesto che tutti gli elementi della fattispecie concreta siano rinvenibili nel nuovo caso. Il rapporto non è fra astratto e concreto, ma fra concreto e concreto. Ai fini dell’ulteriore applicazione della norma inferita dalle circostanze del precedente caso, si procede mediante il raffronto fra casi concreti, riconducendo il nuovo caso al primo sulla base degli elementi in comune fra i due casi, che hanno rilevanza ai fini del precetto normativo. Trattandosi non di sussunzione, ma di riconduzione, la corrispondenza fra i casi potrà essere più o meno intensa. Stanti le diverse graduazioni di somiglianza che possono ricorrere, il rapporto fra i casi va regolato secondo le raffinate tecniche del distinguishing e del limiting elaborate dal giudice anglosassone. Si procede attraverso accostamenti per successive approssimazioni, secondo la logica incrementale e cumulativa del diritto casistico[38].
L’enunciazione del principio di diritto, anche quando è relativa alla giurisdizione per principi o per clausole generali, resta pur sempre formalmente interpretazione e non atto normativo, perché il giudice dichiara e non pone il diritto. Il suo termine di riferimento è, però, non la norma a fattispecie astratta e generale, la quale è suscettibile di uno spettro più o meno ampio di applicazioni, bensì una norma concreta, la cui applicazione non è svincolabile dalle circostanze del caso singolo contemplato dalla norma medesima. L’enunciato del principio di diritto corrisponde non a una delle possibili puntualizzazioni interpretative della norma, bensì direttamente alla norma, ma non nel senso che quell’enunciato abbia efficacia normativa sul piano del sistema delle fonti. L’efficacia normativa è sempre quella della norma (concreta), non del principio di diritto che la enuncia. La norma concreta non è suscettibile di puntualizzazioni interpretative in relazione ai casi perché è già essa, quale norma individuale, una puntualizzazione normativa. Non c’è una disposizione che trapassi in norma, ma direttamente la norma, la quale si manifesta esclusivamente in sede interpretativa. Quale norma senza disposizione, la norma individuale si manifesta infatti solo nel principio di diritto enunciato dalla sentenza. La vis normativa non coincide con quest’ultima, ma la sentenza, nella misura in cui il diritto è solo del caso concreto, esprime la norma. In definitiva, il principio di diritto enunciato dalla sentenza non è attuativo, ma ostensivo della norma.
Il vincolo che, a questo punto, deriva dalla pronuncia giudiziale non è meramente persuasivo, ma normativo. Il precedente giudiziario è giuridicamente vincolante perché solo in esso fa la sua apparizione la norma, ma ciò che in realtà vincola non è il principio di diritto, ossia la sentenza, bensì la norma concreta che vi appare. L’efficacia vincolante del precedente giudiziario va così identificata in quella della norma cui viene imputato il principio di diritto[39]. Il giudice è soggetto a quella norma, alla stregua di qualsiasi vincolo di diritto, non solo nel processo in cui ne è invocata per la prima volta l’applicazione, ma anche nei successivi, in cui ne è domandata l’applicazione in presenza dei medesimi requisiti fattuali rilevanti, una volta che si sia pervenuti all’enunciazione del relativo principio di diritto da parte della Suprema corte. L’efficacia vincolante del precedente giudiziario non è, come si è detto, un attributo della sentenza come tale, ma è l’efficacia normativa del diritto concreto che in quella sentenza si è manifestato a rendere vincolante il precedente. Solo nella pronuncia giudiziaria, e non altrove, si è infatti manifestato il diritto.La giurisdizione è sempre dichiarativa, non costitutiva del diritto. Costituisce, però, precedente vincolante perché il diritto che dichiara corrisponde a una norma senza disposizione. Una volta che quella norma concreta sia stata enunciata, gli altri giudici, alla stessa stregua del giudice che l’ha enunciata, vi sono vincolati per quei casi che hanno in comune i requisiti fattuali rilevanti. Il principio dello stare decisis è pienamente operante, quale effetto proprio della soggezione del giudice al diritto (concreto). Diversamente da ciò che accade quando si fa applicazione del diritto posto dal legislatore, i margini di vincolatività del precedente non sono fissati dalla legge, ma sono dettati dalla natura propria del fenomeno giuridico. L’efficacia di precedente vincolante è originaria, e non derivata da una previsione legislativa[40].
Il fondamento dello stare decisis nei sistemi di civil law riposa, quindi, nell’applicazione di norme concrete di diritto in sede di giurisdizione per principi costituzionali o per clausole generali. Proprio perché fra il giudice e il caso non si interpone la legge, acquista vigore la norma applicata nel singolo caso e identificata attraverso il bilanciamento in concreto dei principi o la concretizzazione della norma elastica. Mediante la riconduzione del caso al precedente, si persegue la garanzia della sicurezza giuridica nel campo della giurisdizione per diretta attuazione dei principi costituzionali. Si tratta, per il giudice di civil law, di acquistare un nuovo strumentario, che è quello del ragionare non per sussunzioni in previsioni astratte e generali, ma per raffronti fra casi concreti, inferendo, da come è stato risolto il caso precedente, la regola per dirimere il nuovo caso. Soprattutto, però, non si tratta di inserire un corpo estraneo in un sistema basato sulla forma di legge, ma di scoprire che, quando il giudice decide la controversia bilanciando i principi o concretizzando clausole generali, la regola dello stare decisis è già all’opera.
6. Un esempio di diritto del caso concreto: il contratto iniquo e gravemente sbilanciato in danno di una parte
Sia per i giuristi di civil law che per quelli di common law, «the courts do not make contracts for the parties». Gli scrittori di civil law affermano che il giudice non può dichiarare la nullità del contratto se il regolamento di interessi non è equo ed è gravemente sbilanciato in danno di una parte, perché le parti sono i giudici migliori dei loro interessi. La questione dello squilibrio contrattuale appartiene non al giudizio di validità del contratto, ma al merito delle valutazioni delle parti, non sindacabile dal punto di vista del diritto. Per la tradizione di civil law, lo squilibrio contrattuale rileva esclusivamente alle condizioni previste dalla legge. Ad esempio, lo squilibrio rileva se la parte avvantaggiata dal regolamento iniquo si è comportata, in sede di formazione del contratto, in modo riprovevole, esercitando una minaccia o approfittando di uno stato di bisogno. Lo squilibrio in quanto tale resta, però, esterno al diritto e appartiene al merito del regolamento non sindacabile dal punto di vista del diritto. Questa è la conclusione cui conduce la prospettiva della fattispecie legale. È possibile immaginare che il giudice trovi un rimedio per il contratto iniquo e gravemente sbilanciato in danno di una parte mediante il diretto riferimento ai principi costituzionali? La domanda potrebbe essere riformulata nei termini seguenti: la giuridicità del contratto si esaurisce nella fattispecie legale o vi è lo spazio per un diritto contrattuale che trascenda la fenomenologia degli effetti della fattispecie e da affidare ai principi? Se c’è una disciplina del contratto affidata alla diretta attuazione dei principi costituzionali, si apre, anche in materiale contrattuale, tutta la problematica del diritto del caso concreto e dello stare decisis.
Per sciogliere il nodo, occorre prendere le mosse da quello che è possibile definire come l’enigma dell’autonomia privata. Si deve al magistero di Emilio Betti la definizione dell’autonomia privata come fenomeno sociale e dell’intervento dell’ordinamento giuridico come regolazione di un fatto sociale, che precede l’ordinamento, e non attribuzione di una potestà normativa. Il fatto sociale dell’autonomia privata non è riducibile al comune fatto giuridico, come il possesso o l’acquisto per usucapione, perché qui, a differenza che negli altri casi, la fattispecie concreta «contiene già essa stessa l’enunciazione o l’attuazione di un precetto»[41]. Il contratto è regola posta dall’autonomia sociale, che l’ordinamento giuridico recepisce e trasforma in precetto giuridico, munendola della sanzione del diritto. Esso non è, quindi, riducibile allo schema del mero fatto sottoposto alla valutazione del diritto. L’ordinamento giuridico collega a quel fatto l’effetto del vincolo giuridico (il contratto ha «forza di legge tra le parti» secondo l’art. 1372 del codice civile italiano), ma le conseguenze che ne derivano in termini di costituzione, modificazione o estinzione di rapporti giuridici sono quelle previste nella regola posta dai privati già sul piano sociale e prima dell’intervento del diritto[42]. L’enigma dell’autonomia privata risiede nel fatto che, per un verso, il contratto in quanto regolamento non è riducibile al comune fatto giuridico; per l’altro, data la sua origine sociale, non acquista la qualità di fonte di diritto in senso formale. La concezione di Kelsen del negozio giuridico quale «fattispecie produttrice di norme»[43] collocata in basso alla struttura piramidale dell’ordinamento è rimasta isolata, mentre ha prevalso la concezione dell’autoregolamentazione sociale che precede l’intervento dell’ordinamento giuridico.
Se il contratto fosse una fonte formale di diritto, il giudizio di conformità al diritto si esaurirebbe nel sindacato alla luce della norma superiore, come avviene nel caso del controllo di legittimità della legge in base alla Costituzione. Proprio perché il sindacato di legittimità della legge si esaurisce nel controllo di costituzionalità, resta non sindacabile il merito della scelta politica della volontà che ha posto l’atto legislativo. Anche il provvedimento amministrativo partecipa della stessa dialettica fra merito e legittimità che si incontra a proposito della legge. La valutazione di interessi, che residua al giudizio di legittimità, è qui non sindacabile non per l’esistenza della gerarchia delle fonti, cui il provvedimento amministrativo resta estraneo, ma perché il provvedimento è emesso sulla base del potere attribuito dalla norma. Non c’è un potere amministrativo di regolazione degli interessi prima dell’attribuzione normativa del potere. Vagliata la legittimità dell’esercizio del potere sulla base della norma che lo ha attribuito, non resta che il merito quale espressione della volontà che ha posto l’atto.
Non così nel contratto, dove l’autoregolazione degli interessi ha una genesi sociale e non deriva da un potere attribuito dall’ordinamento. Il diritto si limita a disciplinare un fatto sociale che lo precede e che ha una peculiare struttura precettiva. Nel caso del contratto, il giudizio di legittimità alla stregua della fattispecie legale non esaurisce la valutazione giuridica perché il contratto, in quanto autoregolamentazione di interessi, non è un comune fatto giuridico. All’esito delle riduzioni e integrazioni del regolamento cui provvede la disciplina della fattispecie, resta sporgente una regolazione d’interessi che la struttura di fattispecie legale non può assorbire e che, pertanto, non può essere concepita come merito insindacabile. Il presupposto della non sindacabilità delle scelte della volontà che ha posto l’atto è l’esaurimento del giudizio di conformità al diritto sulla base del controllo di coerenza alla norma costituzionale, come avviene nel caso della legge, o alla norma attributiva del potere, come nel caso del provvedimento amministrativo. Il giudizio di conformità al diritto non si esaurisce, invece, nel controllo del contratto alla luce della fattispecie legale perché il negozio è autoregolazione sociale che precede il sistema normativo di attribuzione dei poteri e non fonte formale di diritto. Inoltre, in quanto regolazione, eccede la struttura della fattispecie. Permane, quindi, una carica regolamentare non riducibile a merito, inteso come espressione della volontà che ha posto l’atto. Tale carica regolamentare resta valutabile dal punto di vista del diritto e, trattandosi di materia non circoscrivibile nel perimetro della fattispecie contemplata dalla legge (e residuata al filtro di quest’ultima), non resta che il diritto costituzionale, e segnatamente i principi costituzionali.
Si apre un territorio inesplorato per il sindacato del giudice di civil law. Il controllo giudiziale di un regolamento di interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte ricade nella sfera del bilanciamento dei principi costituzionali relativo alle circostanze del caso. Volontà privata non sindacabile è solo quella che resiste al giudizio di conformità alla regola giuridica del caso concreto derivante dal bilanciamento dei principi. È quest’ultima regola che fornisce il criterio per valutare se c’è uno squilibrio rilevante per il diritto. Il giudice provvede all’individuazione della norma concreta di diritto bilanciando, in relazione alle circostanze del caso, il complesso dei principi costituzionali che vengono in rilievo sulla base del particolare esercizio dell’autonomia privata. Quali sono i rimedi cui attingere per il sindacato giudiziale sul contratto attraverso i principi costituzionali?
La nullità non può venire in rilievo, perché è istituto inerente alla fattispecie legale. Non viene in gioco neanche la categoria d’inefficacia. L’efficacia, quale produzione degli effetti giuridici, è ancora manifestazione della fattispecie, e qui siamo oltre la fattispecie. Ciò che rileva è, più propriamente, l’attuazione del contratto, valido ed efficace. Va qui ripresa la distinzione fra efficacia ed esecuzione: la prima quale estrinsecazione della fattispecie legale mediante la produzione dell’effetto giuridico e la seconda quale realizzazione del programma d’interessi sul piano del fatto[44]. Il sindacato del giudice sul contratto mediante i principi costituzionali, in quanto estraneo (e successivo) a quello relativo alla fattispecie legale, incide non al livello degli effetti, e cioè della validità e dell’efficacia, ma al livello del fatto, e cioè dell’esecuzione. Il regolamento d’interessi iniquo e gravemente sbilanciato in danno di una parte è un regolamento legalmente valido e produttivo di effetti giuridici, ma la parte contrattuale pregiudicata, convenuta in giudizio per l’esecuzione del negozio, può eccepirne la non opponibilità alla luce del bilanciamento in concreto dei principi che consenta di qualificare l’accordo negoziale in termini di grave iniquità. A quel regolamento, valido ed efficace, non può essere prestata esecuzione perché lo squilibrio che connota il programma d’interessi è fatto impeditivo della sua attuazione. Il negozio non è inefficace, ma la possibilità materiale di metterlo in esecuzione è impedita dall’eccezione di squilibrio significativo.
La vicenda diventa, a questo punto, tutta processuale perché il diritto rimediale acquista visibilità quale tutela essenzialmente processuale. Come nello ius honorarium che scaturì dalla giurisdizione dei pretori a Roma, il diritto della parte convenuta in giudizio per l’adempimento del contratto gravemente squilibrato si presenta nella forma della possibilità di sollevare una exceptio.Uno strumento a disposizione della prassi è quello della paralisi in sede processuale dell’eseguibilità di un accordo valido mediante l’exceptio doli generalis, ma in un’ottica puramente rimediale altre forme di tutela possono essere identificate nella risoluzione delle singole controversie.
Il sindacato sul contratto alla luce dei principi costituzionali rinvia alla formazione di un diritto casistico nel quale il punto di appoggio del giudice è la catena dei precedenti al cui sviluppo anch’egli è chiamato a contribuire attivamente. Se non viene posto in questa prospettiva, il sindacato del giudice diventa fattore di incertezza del diritto ed espressione di convinzioni soggettive di valore. Anche qui bisogna presumere un appello all’ideale bilanciamento dei principi in relazione alle circostanze del caso e ritenere operante l’efficacia vincolante del precedente giudiziario cui il nuovo caso sia riconducibile. Le parti del contratto devono confidare sulla sicurezza e prevedibilità del traffico giuridico. Un’esigenza analoga emerge, del resto, quando il giudice dirime la controversia in materia contrattuale mediante la concretizzazione della clausola generale sulla buona fede prevista dal codice civile.
L’applicazione della regola dello stare decisis, con riferimento a una giurisprudenza sul contratto iniquo e gravemente sbilanciato in danno di una parte, apre nuovi scenari per il giudice di civil law.
[1] M. Weber, Economia e società, vol. III, Edizioni di Comunità, Milano, 1980, p. 17.
[2] Qui è sufficiente richiamare R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, Il Mulino, Bologna, 2012; per una recente ricostruzione della discussione in argomento, si veda G. Pino, Il costituzionalismo dei diritti, Il Mulino, Bologna, 2017.
[3] R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 90 ss.
[4] Cfr. R. Alexy, On Balancing and Subsumption. A Structural Comparison, in Ratio Juris, vol. XVI, n. 2/2003, pp. 433 ss.
[5] Per questa visione dell’applicazione del principio quale forma del diritto alternativa alla fattispecie, si veda N. Irti, Un diritto incalcolabile, Giappichelli, Torino 2016.
[6] M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1980, p. 43.
[7] Corte cost., 5 febbraio 1998, n. 11, in Foro it., 1998, I, c. 996 e 26 settembre 1998, n. 347, ibid., c. 3042.
[8] Cass., 25 gennaio 2017, n. 1946, ibid., 2017, I, c. 477, con note di N. Lipari, Giudice legislatore e G. Amoroso, Pronunce additive di incostituzionalità e mancato intervento del legislatore.
[9] Esemplare è Cass., 16 ottobre 2007, n. 21748, ibid., 2008, I, c. 2609, relativa a un celebre caso di autorizzazione, da parte del giudice, all’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione mediante sondino nasogastrico di soggetto in stato vegetativo permanente e irreversibile.
[10] Ha ricostruito, da ultimo, questa decisiva polemica B. De Giovanni, Kelsen e Schmitt oltre il Novecento, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018.
[11] I riferimenti fondamentali sono a: J. H. Ely, Democracy and Distrust. A Theory of Judicial Review, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1980; J. Waldron, Law and Disagreement, Oxford University Press, Oxford, 1999; J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano, 1996; R. Dworkin, Freedom’s Law. The Moral Reading of the American Constitution, Harvard University Press, Cambridge, (Mass.) 1996. Un’utile rassegna delle posizioni germinate nella critica “democratica” del costituzionalismo è in M. Goldoni, Cos’è il costituzionalismo politico?, in Diritto e questioni pubbliche, vol. 10, 2010, pp. 337 ss.
[12] J. H. Ely, Democracy and Distrust. A Theory of Judicial Review, op. cit., pp. 4 ss.
[13] M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne. Le libertà fondamentali, Giappichelli, Torino, 1995.
[14] C. Schmitt, Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano, 1984, p. 113.
[15] R. A. Dahl, La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma, 1990, pp. 275 ss.
[16] I. Berlin, Le radici del Romanticismo, Adelphi, Milano, 2001, p. 183 ss.
[17] J. Waldron, A Right – Based Critique of Constitutional Rights, in Oxford journal of legal studies, vol. 13, n. 1/1993, pp. 32 ss.
[18] R. Dworkin, L’impero del diritto, Il Saggiatore, Milano, 1989, p. 204.
[19] H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1975, p. 227.
[20] Allo scopo di porre un argine al soggettivismo giudiziale, Alexy mira a formalizzare mediante algoritmi il criterio della proporzionalità alla base del bilanciamento fra principi (R. Alexy, Constitutional Rights, Balancing, and Rationality, in Ratio Juris, vol. XVI, n. 2/2003, pp. 131 ss; Id., On Balancing and Subsumption. A Structural Comparison, op. cit., pp. 433 ss.), ma qui vale l’obiezione di Dworkin, secondo cui non c’è un algoritmo che possa essere utilizzato al cospetto delle corti perché l’interpretazione costituzionale non è una scienza esatta (R. Dworkin, L’impero del diritto, op. cit., 382; Id., La giustizia in toga, Laterza, Roma-Bari, 2010, 139). Il criterio del bilanciamento è riposto nel caso concreto, il quale sfugge alla forma astratta dell’algoritmo: il giudice si appella, tuttavia, all’ideale bilanciamento in relazione alle circostanze del caso e assume uno specifico impegno normativo in tale direzione.
[21] Osserva R. B. Brandom, A Hegelian Model of Legal Concept Determination: The Normative Fine Structure of the Judges' Chain Novel, in G. Hubbs e D. Lind (a cura di), Pragmatism, Law, and Language, Routledge, New York, 2014, p. 39, che la prospettiva del realismo giuridico, secondo la quale il giudice pone il diritto, guarda solo al lato dell’autorità, mentre quella che evidenzia la scoperta del diritto da parte del giudice guarda solo al lato della responsabilità, laddove – invece – un resoconto esaustivo dell’attività giudiziaria è solo quello che contempla entrambi i lati e la loro interrelazione (che Brandom riconduce alla dialettica del reciproco riconoscimento di Hegel).
[22] J. Esser, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane (ESI), Napoli, 1983, p. 57.
[23] Per maggiori approfondimenti, rinviamo a E. Scoditti, Concretizzare ideali di norma. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, in G. D’Amico (a cura di), Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 167 ss.
[24] L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Giuffrè, Milano, 1996, p. 125.
[25] R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano, 1992, p. 41.
[26] Precisa J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, op. cit., 302 ss., che i principi hanno un senso deontologico, mentre i valori hanno un senso teleologico; si veda anche G. Zagrebelsky, Diritto per: valori, principi o regole, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, vol. XXXI, 2002, pp. 865 ss.
[27] Quali concretizzazione legislativa dei valori, i principi generali sono caratterizzati da «un’eccedenza di contenuto deontologico (o assiologico) in confronto con le singole norme, anche ricostruite nel loro sistema» (cfr. E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Giuffrè, Milano, 1971, p. 316).
[28] I riferimenti sono a S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 1964, e A. Baratta, Responsabilità civile e certezza del diritto, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1965, pp. 28 ss.
[29] Fra le tante: Corte cost., 24 luglio 2009, n. 236, in Foro it., 2009, I, c. 2921 e 26 gennaio 2007, n. 11, ibid., 2007, I, c. 1053.
[30] Corte Edu, Unedic c. Francia, ric. n. 20153/04, 18 dicembre 2008.
[31] Ad esempio: Corte Edu, Beian c. Romania, ric. n. 30658/05, 6 dicembre 2007; Tudor c. Romania, ric. n. 6928/04, 15 giugno 2006.
[32] L. Antoniolli Deflorian, Il precedente giudiziario come fonte di diritto: l’esperienza inglese, in Rivista di diritto civile, n. 1/1993, pp. 136 e 142 ss.
[33] L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Giuffrè, Milano, 1967, p. 584. Occorre considerare che il codice civile ha da principio trovato applicazione non in modo diretto, ma attraverso la mediazione delle categorie dogmatiche elaborate dalla dottrina. Prima dell’apparizione del modello di costituzione rigida, gli istituti giuridici assolvevano al ruolo costituzionale di limite del potere legislativo (G. Rebuffa, Costituzioni e costituzionalismi, Giappichelli, Torino, 1990, p. 129 ss.). Ha osservato G. Samuel, A Short Introduction to the Common Law, Edward Elgar Publishing, Northampton (Mass.), 2013, p. 103, che la teoria di Dworkin del diritto come integrità richiama, dall’interno del common law, la costruzione dogmatica del diritto come sistema coerente, espressione propria del civil law.
[34] La Corte costituzionale colombiana, nel caso C-836/01, Rodrigo Escobar Gil, 9 agosto 2001, ha riconosciuto che seguire il precedente della corte superiore salvaguarda il principio di prevedibilità del diritto, il diritto di eguaglianza, l’ideale della coerenza del diritto e la supremazia della Costituzione.
[35] Il riferimento allo standard esistente è il primo canone del giudice di common law (M.A. Eisenberg, La natura del common law, Giuffrè, Milano 2010); contrappone la concezione legislativa e creazionistica del diritto a quella giudiziale ed evoluzionistica M. Barberis, Contro il creazionismo giuridico. Il precedente giudiziale fra storia e teoria, in Materiali per una storia della cultura giuridica, vol. XLIV, n. 1/2015, pp. 67 ss.
[36] R. Brandom, Some Pragmatist Themes in Hegel’s Idealism: Negotiation and Administration in Hegel’s Account of the Structure and Content of Conceptual Norms, in European journal of philosophy, vol. VII, 1999, pp. 179 ss. e J. McDowell, Comment on Robert Brandom’s “Some Pragmatist Themes in Hegel’s Idealism”, ibidem, pp. 192 ss.
[37] R.C. Gonzales, From JurisprudenceConstante to Stare Decisis: the Migration of the Doctrine of Precedent to Civil Law Constitutionalism, in Transnational legal theory, vol. VII, n. 2/2016, pp. 257 ss.
[38] Secondo N. Irti, Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Rivista di diritto processuale, 2016, p. 919, anche nel decidere secondo precedenti opera il giudizio sussuntivo perché «il giudice, estraendo la norma dalle sentenze già emesse, delinea di necessità una fattispecie, cioè sale dal caso deciso ad uno schema tipico entro cui riconduce il nuovo fatto sottoposto alla sua cognizione». Di contro, va osservato che nell’ipotesi dello stare decisis il rapporto è fra concreto e concreto e non opera il giudizio sussuntivo: se è vero che ricorre l’applicazione di una norma di diritto (altrimenti si avrebbe la decisione secondo equità), è pur vero che la norma ha carattere concreto, è relativa alle circostanze del caso; ne discende che il caso successivo non può essere sussunto in una norma avente carattere concreto, ma solo ricondotto a essa, in forma più o meno intensa.
[39] A Pizzorusso, Delle fonti del diritto, Zanichelli, Bologna, 2011, p. 728.
[40] Per ulteriori approfondimenti rinviamo a E. Scoditti, Dire il diritto che non viene dal sovrano, questa Rivista trimestrale, n. 4/2016, pp. 129 ss. (www.questionegiustizia.it/rivista/2016/4/dire-il-diritto-che-non-viene-dal-sovrano_402.php) e Id., Concretizzare ideali di norma. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, op. cit.
[41] E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Utet, Torino, 1950, p. 48.
[42] R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Jovene, Napoli, 1969, pp. 304 ss.
[43] H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, op. cit., p. 287.
[44] A. Di Majo Giaquinto, L’esecuzione del contratto, Giuffrè, Milano, 1967.