Il giurista e la comunicazione
La sfida per l’inclusività della comunicazione giuridica non si vince con il solo richiamo alla semplificazione del linguaggio. La posta in gioco è più alta, chiama in causa la relazione del giurista con gli innumerevoli attori sociali della complessità globale e richiede un investimento forte sul piano dei modelli culturali.
Indubbiamente non semplice affrontare – con riflessioni minime e, per quanto possibile, portatrici di senso – il tema dell’informazione giuridica e del ruolo ascrivibile al giurista nel firmamento della comunicazione. Le ragioni di tale difficoltà risiedono in due ordini di considerazioni di assoluta evidenza.
Primo: la natura di per sé comunicativa dell’uomo, che dalle altre forme viventi e senzienti si distingue – come, da Aristotele in poi, usiamo ripetere – per il suo essere soggetto “politico”, ne fa un portatore di modelli di socialità (dalla famiglia sino allo Stato) che si inverano attraverso il linguaggio e la sfera di relazioni che ad esso conseguono.
Secondo: questa naturale, “ontologica” attitudine dell’essere umano rispetto alla dimensione comunicativa ha conosciuto, a partire dalla seconda metà del novecento, una dilatazione elefantiaca senza precedenti nella storia dell’umanità. Complice il moltiplicarsi dei mezzi d’informazione, che dalla carta stampata sono approdati alle onde radiofoniche e televisive sino alla galassia degli apparati tecnologico-digitali, la comunicazione ha assunto nel nostro tempo una pervasività tale che a buon diritto possiamo definire la società attuale come società della comunicazione: nella quale la comunicazione – orale o scritta che sia – avvolge di sé ogni piega del vivere quotidiano e la riflessione su di essa si insinua in ogni sapere che afferisca all’area delle scienze umane e sociali: dalla semiotica alla psicologia, dall’antropologia alla politica e all’economia: sino al diritto.
Invero, è una posizione di assoluta preminenza quella occupata dal diritto in tale ambito. E bene lo sa chi, da storico del diritto romano antico, ha studiato la nascita del ius quale sistema disciplinante costruito non sulla forza simbolica di una volontà divina rivelata attraverso segni, ma sulla forza significante della parola dell’uomo, sul logos che si incardina in un dialogo razionale. Ma questa originaria connotazione del ius rende ancor più difficile, per il giurista contemporaneo, muoversi senza andamenti ondivaghi tra le infinite suggestioni legate ai risvolti comunicativi del diritto, alla ricerca di precisi parametri e modelli di riferimento.
Tutte le difficoltà sin qui rappresentate non esonerano, però, da responsabilità: che sono infatti emerse, con stringente cogenza, in rapporto a quello che può dirsi il luogo per eccellenza del discorso giuridico: il processo. L’ordinamento, nel farsi carico di tale responsabilità, l’ha orientata secondo la logica più urgente, e per certi versi drammatica, del sistema giustizia nel nostro Paese: la logica dei tempi processuali. L’usata invocazione alla «ragionevole durata del processo» si è pertanto venuta traducendo nell’invocazione alla «ragionevole estensione dei documenti processuali» e il postulato della «sinteticità» (e conseguente chiarezza) degli atti di parte e dei provvedimenti del giudice, divenuto regola legislativa, è finito sotto i riflettori di un’interpretazione attenta a definire i criteri strutturali dei documenti del processo, la loro uniformità redazionale quale presupposto per garantirne l’efficacia argomentativa e l’efficienza procedimentale, veicolo a loro volta di una palingenesi della stessa giurisdizione nel rapporto tra giudice, parti private ed amministrazione.
Ma tutto ciò non chiude la questione. Le maglie di questa riflessione sulla comprensibilità del testo giuridico sono ben più ampie, superano le aule di giustizia per abbracciare le aule parlamentari e ci pongono in dialogo con una tematica che scavalca i confini nazionali: dal 1999 la giurisprudenza costituzionale francese ha affermato l’objectif de valeur constitutionnelle d’accessibilité et d’intelligibilité de la loi, condizioni per l’effettivo esercizio di quei diritti di libertà ed eguaglianza che presuppongono une connaissance suffisante des normes. La posta dunque si alza, investe l’autorappresentazione di senso da parte del diritto, rende il principio di chiarezza un postulato per la formazione e la trasmissione dell’intero sapere giuridico, chiama in causa l’appartenenza nella cittadinanza: l’accessibilità del diritto come garanzia insostituibile di partecipazione democratica.
In questo orizzonte di straordinaria densità problematica, la prospettiva strategica che normalmente vediamo invocata, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, è quella dell’adeguamento linguistico secondo il noto paradigma anglosassone del plain language. L’intellegibilità del discorso giuridico si presenta dunque, in primo luogo, come il risultato da raggiungere attraverso una decisa, coraggiosa revisione lessicale che sfrondi il messaggio giuridico da verbosità eccessive, metafore e circonlocuzioni faticose, ridondanti latinismi.
Superfluo sottolineare l’apprezzamento per questi obiettivi di deontologia espressiva, che possono ricondursi a quella «lealtà» della comunicazione (come è stata definita) che significa semplicemente rispetto per il proprio interlocutore e per la sua intelligenza. Ma, tutto ciò premesso, a mio modo di vedere il problema di una comunicazione giuridica inclusiva non trova risposta nella sola riforma del linguaggio dal quale si espungano parole e locuzioni che configurano categorie tecniche o che riflettono usi fraseologici consueti, forti di radicate tradizioni di pensiero, e come tali intrinsecamente caratterizzanti.
Intendiamoci. L’esigenza di una “pulizia” del lessico giuridico trovava voce già in Ludovico Muratori. E la «cura delle parole», come ci ricorda Gustavo Zagrebelsky, è esercizio di democrazia. Del resto, sono fin troppo numerosi e noti i casi in cui la lingua giuridica ci appare come una fonte di marginalità e di esclusione, un vocabolario iniziatico che crea barriere nel momento in cui legittima abusi e privilegi: cosicché, il curato più famoso della storia della letteratura italiana si sottrarrà alle responsabilità del suo ufficio elencando un rosario di impedimenti dirimenti – «error conditio votum cognatio crimen...» – di fronte ai quali un esasperato Renzo potrà soltanto replicare, con la foga di chi soffre una discriminazione senza strumenti per far valere il proprio diritto: «Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?».
Ma sarebbe riduttivo, se non anche fuorviante, fermarci qui. Perché è la stessa Carta costituzionale a ricordarci, accanto al divieto di discriminazione sancito dall’articolo 3, che la lingua rappresenta, come stabilisce l’articolo 6, un patrimonio identitario che la Repubblica si impegna a difendere e valorizzare. E dal punto di vista del giurista, questa attitudine identitaria del fattore linguistico scopre prospettive di senso non banali: perché il diritto stesso si invera attraverso un vocabolario dall’infungibile tecnicismo. La lingua del diritto è dunque essa stessa componente identitaria, momento costruttivo di uno statuto epistemologico e di una specificità professionale, garanzia di riconoscibilità reciproca tra giuristi: per richiamare, parafrasandola, la pagina di un capolavoro del Novecento italiano quale Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, potremmo dire che la responsabilità aquiliana, «ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone».
Non è questione, come potrebbe apparire, di compiacimento elitario né, tanto meno, di difesa corporativa. Il punto è che, di fronte al processo di disintermediazione creato dalla galassia social, secondo il dogma di una comunicazione tanto più efficiente quanto più immediata, la disponibilità infinita di informazioni prontamente accessibili, ma tecnicamente incontrollabili, favorisce il prodursi di un fenomeno particolarmente rischioso per una società complessa come la nostra: quello della banalizzazione dei saperi e dei conseguenti vuoti di professionalità. In gioco non c’è dunque la rendita di posizione di un ceto privilegiato di giuristi: in gioco c’è l’aspettativa che un sistema sociale altamente complesso e sofisticato nutre nei confronti del diritto le cui risposte – oggi sempre più interpretativo-applicative – devono potersi accreditare in razionalità e riconoscibilità anche grazie al livello di competenza, attenta e qualificata, che esprimono. Senza questa interazione, fondata su una rappresentazione diffusa di affidabilità sapienziale, la “vita” del diritto “vivente” si risolve in una petizione di principio e la crisi del principio di legalità, ovverosia l’inadeguatezza del precetto legislativo ad interpretare l’istanza regolamentativa espressa dalla società, dilaga in quella crisi del senso di legalità, nella quale la società non appare in grado di esprimere alcuna istanza regolamentativa condivisa che non sia «il costume di osservare la norma giuridica solo quando conviene».
La partita per una comunicazione giuridica autenticamente inclusiva sul piano sociale si giocherà dunque, a mio modo di vedere, alzando l’asticella, accogliendo la sfida per una professionalità che sappia coniugare la più alta qualificazione tecnica con la più ampia riconoscibilità e credibilità del proprio messaggio, vuoi nel dibattito tra giuristi, vuoi nel circuito sociale delle idee. E la partita sarà persa se, nel costruirne la strategia, ci si dovesse fermare al livello delle pur imprescindibili questioni morfologico-lessicali senza aggredire il livello della dimensione etica rispetto a quella funzione di servizio che il giurista assolve nei confronti del corpo sociale.
Cicerone non era propriamente un giurista: era un intellettuale, un retore. In quanto avvocato, però, conosceva a fondo il mondo del diritto e dei giuristi, verso i quali si mostrava spesso tutt’altro che generoso, non lesinando censure severe nei confronti di quanti, con atteggiamenti talvolta capziosi, contribuivano, anche per il proprio tornaconto, a rendere la iuris civilis scientia una realtà «difficilem et obscuram». Ma le pagine dedicate a Servio Sulpicio Rufo ci mostrano un registro espressivo del tutto diverso: a Servio, Cicerone riconosce la straordinaria virtù, una vera e propria “ars”, di saper ricondurre l’intera sfera del diritto civile «ad facilitatem aequitatemque»: a fronte degli altri giuristi, e delle loro pronunce rese in modo “confuso”, Servio si distingue per la sua capacità di “portare luce” («adtulit ... lucem»). Ma non già – questo è il punto decisivo- grazie alla sua pur nota “eleganza verbale”, bensì grazie al rigore del metodo che, in una consequenzialità mai allentata fra premessa e conclusioni, vede susseguirsi nel discorso serviano il “definire”, l’“interpretare”, il “distinguere” («latentem explicare definiendo, obscuram explanare interpretando, ambigua primum videre deinde distinguere»). Si tratta di un protocollo molto rigido che Servio, tuttavia, declina secondo facilitas ed aequitas, con ciò dimostrando che la rigorosa qualità tecnica del discorso giuridico non pregiudica, ma al contrario favorisce l’immediata evidenza e ricevibilità di quella pronuncia che, adeguata alle peculiarità del caso concreto, possa manifestare la propria “luminosa” aderenza a paradigmi di intellegibile razionalità.
Il miracolo della storia è nel far dialogare il passato con il futuro. Le trasformazioni che stiamo vivendo, e che concorrono a disegnare quel «nuovo orizzonte» nel quale il giurista del terzo millennio dovrà iscrivere il proprio apparato concettuale ed il proprio strumentario tecnico, ci dicono, a mio modo di vedere, che la certezza del diritto, ormai non più pensata come assoluta “calcolabile” predittività della norma, potrà declinarsi nell’unica sintassi possibile, quella della credibilità del diritto: intesa, ora come razionalità riconoscibile dei suoi processi logici, ora come “illuminante” autorevolezza di servizio dei soggetti in essi coinvolti.
L’opacità di una informazione giuridica non discenderà dunque dalle forme linguistiche impiegate ma dal rapporto che il giurista saprà instaurare con i propri interlocutori. In questa prospettiva, affrontare il tema dell’inclusività sociale della comunicazione giuridica significherà spostarsi dall’oggetto al soggetto, dal medium allo scopo, dalla deontologia professionale alla dignità professionale.
«It’s all in how you look at things». Così si legge in un celebre libro per l’infanzia (The Phantom Tollbooth), scritto agli inizi degli anni ’60 per spiegare, giocosamente, l’importanza delle parole e del loro uso. Un cambiamento autentico richiede – ma l’impresa è ardua – un cambiamento della propria prospettiva; guardare diversamente a ciò che si fa è il solo modo per dare al proprio agire un vero, diverso significato. L’“attenzione” al proprio interlocutore (si tratti dello studente di fronte al giurista accademico, del privato cittadino davanti a un avvocato o un pubblico funzionario, della parte processuale di fronte al giudice), la sua percezione non come mero destinatario di una strumentale strategia comunicativa ma come soggetto dialogico di una relazione socialmente costruttiva, costituiscono il fondamento di un’autentica inclusività.
La lingua è uno strumento duttile, come la vibrazione dell’aria che produce un suono o il segno a matita che la mano traccia sulla carta. L’uso che se fa, inclusivo o discriminatorio, trasparente od opaco, leale o malfido, democratico o elitario, dipendono dalla formazione culturale del giurista e dal suo modo di porsi di fronte alla società. Il diritto è funzione di servizio e non ruolo di potere, è sapere dialogante e non dogma autoreferenziale, è l’espressione di un’arte dell’uomo e non una scienza esatta. Declinare tutto questo, e sin dalle aule universitarie, potrà dare un significato nuovo e più forte alla voce del giurista fra gli innumerevoli attori sociali di un palcoscenico globale sempre più complesso.