Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione civile
Nell’ambito della riforma attuata dal d.lgs n. 40/2006, il dinamismo nomofilattico esce rafforzato dalla portata del novellato articolo 374, comma 3, cpc. Nel delicato equilibrio tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, la riforma attribuisce al rapporto tra sezioni semplici e sezioni unite uno specifico valore complementare, non gerarchico, in grado di prevenire contrasti «inammissibili» attraverso il vincolo di coerenza, per le prime, rispetto al principio di diritto alla base del decisum enunciato dalle seconde – o comunque ricavabile dalla sentenza. Tale sistema è coerente con la possibilità che hanno le sezioni semplici di sollecitare, mediante ordinanza interlocutoria, il mutamento di giurisprudenza, e non pregiudica la loro legittimazione a sollevare dubbi di costituzionalità o di compatibilità con il diritto dell’Ue in merito all’interpretazione resa dalle sezioni unite di detto principio.
Le esperienze dell’ultimo decennio (esplicitate, nell’ultimo paragrafo, da tre esempi significativi, due dei quali hanno portato all’overruling delle sezioni unite) fanno concludere per un bilancio positivo del meccanismo introdotto dalla riforma, quale strumento capace di assicurare una ordinata evoluzione del diritto vivente, nel consapevole equilibrio tra innovazione e coerenza argomentativa e sistematica.
1. L’introduzione del vincolo di coerenza nel rapporto tra sezioni semplici e sezioni unite
Nella dialettica tra sezioni unite e sezioni semplici, alla ricerca di una stabilità aperta all’evoluzione del prodotto giurisprudenziale che la Corte di cassazione, nel suo insieme, consegna a operatori e interpreti, un particolare rilievo riveste la previsione del terzo comma dell’articolo 374 cpc, secondo cui «se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso».
Si tratta di una norma introdotta dal d.lgs 2 febbraio 2006, n. 40, nella prospettiva della prevenzione e del superamento dei contrasti, quindi del rafforzamento della funzione nomofilattica assegnata dall’articolo 65 della legge di ordinamento giudiziario alla Corte di cassazione e, in particolare, della garanzia della uniforme interpretazione e applicazione del diritto oggettivo.
La norma in esame presenta una forte valenza di principio, perché con essa si afferma, per la prima volta nel nostro ordinamento, «un (sia pur circoscritto) valore legale del precedente»[1], prevedendosi un vincolo di coerenza al quale la sezione semplice della Corte di cassazione è tenuta ad attenersi nel concreto esercizio della giurisdizione[2]. Il meccanismo introdotto implica, per la sezione semplice, un vincolo negativo a non adottare l’interpretazione contrastante con quella già espressa dalle sezioni unite: se giunge a un convincimento diverso da quello affermato dalle sezioni unite in una vicenda processuale simile e non intende, pertanto, aderire al precedente, la sezione semplice dovrà reinvestire queste ultime mediante ordinanza motivata, volta a provocarne un ripensamento[3].
Si rileva particolarmente proficuo oggi, a distanza di oltre due lustri, effettuare un bilancio dell’esperienza applicativa di tale previsione normativa: non solo perché tale analisi incrocia il dibattito sul rapporto tra certezza e prevedibilità della risposta giurisprudenziale, da un lato, ed esigenze del cambiamento, dall’altro, con la Corte di cassazione chiamata a ricondurre a sistema le linee interpretative che emergono nell’impetuosa fluidità del diritto contemporaneo; ma anche, e soprattutto, perché un meccanismo parallelo al terzo comma dell’articolo 374 cpc è stato introdotto, di recente, a opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, anche per il processo penale di cassazione, con l’aggiunta del comma 1-bis all’articolo 618 cpp.
2. Le ragioni della scelta normativa
Può, innanzitutto, essere opportuno ricordare che l’introduzione del nuovo terzo comma dell’articolo 374 cpc è stata accolta da valutazioni prevalenti di condivisione della scelta legislativa che ne è alla base, ma non sono mancate perplessità e riserve.
La condivisione è stata espressa da quanti hanno sottolineato come la previsione normativa, ancorata a un meccanismo che esibisce il carattere della duttilità, sia volta a impedire «quegli sbalzi interpretativi che tanto inquietano gli operatori», offrendo «nel contempo la massima garanzia possibile di correttezza istituzionale verso il risultato della certezza interpretativa e applicativa della legge»[4]. Nella stessa direzione, si è messo in luce[5] che l’innovazione legislativa mira a impedire che, una volta che il contrasto di giurisprudenza sia stato composto grazie all’intervento delle sezioni unite, questo poi possa perpetuarsi attraverso decisioni difformi delle sezioni semplici, ciò costituendo un fenomeno di «patologia giudiziaria»; si è, inoltre, precisato che la norma, lungi dal determinare un appiattimento acritico della giurisprudenza di legittimità sulle posizioni delle sezioni unite, si risolve, grazie al meccanismo dell’ordinanza interlocutoria diretta a sollecitare il mutamento di giurisprudenza, in una «esaltazione della complessa funzione di nomofilachia e del ruolo assegnato dall’ordinamento all’intera Corte».
D’altra parte, già anteriormente alla riforma del 2006, v’era chi immaginava che fosse configurabile, de iure condito, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario e dell’articolo 376, ultimo comma, cpc, un vincolo delle sezioni semplici al principio enunciato dalle sezioni unite, secondo la soluzione oggi esplicitata dal novellato articolo 374, comma 3, cpc.[6] Così, si riteneva «essenziale»[7] che, dopo la decisione delle sezioni unite, la singola sezione vi adeguasse le proprie pronunce, limitandosi, qualora non condividesse l’orientamento da esse espresso, a rimettere la questione alle sezioni unite, appunto con l’ordinanza prevista dall’ultimo comma dell’articolo 376 cpc.
Non sono, tuttavia, mancate opinioni critiche. Si sono manifestati dubbi di compatibilità con l’articolo 101, comma 2, Cost.: muovendo dalla premessa che il nuovo terzo comma dell’articolo 374 cpc crea, per la sezione semplice, «un vincolo più o meno analogo a quello che deve subire il giudice di rinvio» ai sensi dell’articolo 384, comma 2, cpc («il che, se è giustificabile per quest’ultimo che partecipa dello stesso giudizio proposto dinanzi alla Corte, è difficilmente concepibile per un giudice autonomo, qual è un’altra sezione della Corte, che deve occuparsi di un’altra controversia»), si è rilevato che il principio di soggezione del giudice «soltanto alla legge» non tollera l’idea di un’opzione interpretativa della legge fatta da un giudice (sia pure nella sua massima composizione) che possa vincolare un altro giudice, al pari di quanto possa fare la legge stessa[8]. Ancora, si è sottolineato che l’autorità delle decisioni delle sezioni unite discende «dalla loro intrinseca persuasività, e non certo dall’introduzione di un “vincolo” giuridico, come in effetti avviene nel nuovo terzo comma dell’articolo 374 cod. proc. civ.»[9]. E già nel dibattito dottrinale che ha preceduto l’introduzione della norma si è paventato il rischio che, legandosi le sezioni semplici al precedente delle sezioni unite, le prime rischino di trasformarsi in «organi di bassa cucina», poste nella «scomoda alternativa tra autoescludersi o rendere ossequio al precedente»[10].
Le critiche espresse da una parte della dottrina non sembrano condivisibili.
L’articolo 374, comma 3, cpc non impone alcun adeguamento mero alla precedente pronuncia delle sezioni unite e non esprime una visione verticale, o declinata in senso gerarchico, della nomofilachia. Piuttosto, esso riconosce «la fluidità e la fallibilità del precedente, seppur formatosi al massimo livello dell’ordinamento giudiziario» e costruisce «una regola di metodo che conferisce ordine discorsivo al dinamismo nomofilattico»[11].
In sostanza, la previsione normativa non crea un obbligo positivo per la sezione semplice di conformarsi al principio enunciato dalle sezioni unite: esiste, per la prima, un vincolo meramente negativo[12] a non adottare l’interpretazione di una norma contrastante con quella già espressa dalle sezioni unite. Nondimeno, resta fermo il suo potere di dissentire, con l’obbligo, in questo caso, di porre in essere un procedimento idoneo a comporre il potenziale contrasto attraverso «un’ordinanza interlocutoria che ha il contenuto di una dissenting opinion in funzione di anticipatory overruling», affinché siano le stesse sezioni unite «a rimuovere il precedente che tale vincolo crea»[13].
Si tratta di un vincolo – attinente non al contenuto, ma all’iter processuale – diverso da quello che, ai sensi dell’articolo 384, comma 2, cpc, impone al giudice di rinvio di conformarsi al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione quando sia accolto un ricorso proposto per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Uniformarsi al principio di diritto è, per il giudice di rinvio, «un obbligo privo di alternative (dunque, un obbligo vero e proprio), perché alla medesima osservanza è tenuta la Corte di cassazione, investita di un ulteriore ricorso in caso di ribellione del giudice di rinvio»: «per quanto persuasivi possano essere gli argomenti addotti da quest’ultimo per convincere la Corte di cassazione che il principio di diritto enunciato in sede di annullamento è erroneo e per quanto i giudici della Corte siano soggettivamente convinti della bontà di questi argomenti, la Corte di cassazione è obbligata ad annullare la sentenza del giudice di rinvio che si sia ribellato al principio di diritto a suo tempo enunciato»[14]. Viceversa, il vincolo ai sensi dell’articolo 374, comma 3, cpc, avente come destinatario non il giudice del processo ad quem, ma la sezione semplice della stessa Corte di cassazione che si trova, in qualsiasi altro giudizio, a dover fare applicazione della norma cui si riferisce il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, non assume alcuna rilevanza sul piano della validità della decisione, «nel senso che la sua violazione non è rimediabile con uno strumento impugnatorio ordinario o straordinario»[15] [16].
Su queste basi, correttamente è stato rilevato che l’articolo 374, comma 3, cpc non colloca la sezione semplice in una «posizione subordinata», ma, con formula organizzatoria modellata sul bilanciamento tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, «ne coordina, in termini di complementarietà, il ruolo specifico rispetto a quello delle sezioni unite in funzione di una maggiore forza e stabilità» del prodotto giurisprudenziale della Corte di cassazione: di una stabilità, tuttavia, aperta all’evoluzione, con la sezione semplice chiamata a segnalare, attraverso lo strumento dell’ordinanza motivata, «le ragioni che inducono ad un ripensamento» del precedente[17]. In altri termini, la norma assicura, per un verso, la fisiologica possibilità che l’interpretazione in precedenza accolta dalle sezioni unite in sede di composizione di contrasto di giurisprudenza, o di risoluzione di questione di massima di particolare importanza, muti su impulso della sezione semplice; per l’altro verso, affida allo stesso organo – le sezioni unite – che ha enunciato quel principio di diritto di valutare l’effettiva sussistenza delle ragioni del cambiamento prospettate[18]. Viene così impedito al sistema «tanto di sclerotizzarsi in indirizzi immutabili quanto di cedere al disordine casistico»[19].
3. L’ambito applicativo del vincolo
Il terzo comma dell’articolo 374 cpc incentra il vincolo della sezione semplice al «principio di diritto enunciato dalle sezioni unite».
Un primo problema applicativo concerne l’ambito di tale vincolo: se, cioè, esso si ponga con riferimento a ogni principio di diritto enunciato dalle sezioni unite ai sensi dell’articolo 384 cpc, o se esso vada limitato ai casi in cui il principio di diritto sia stato enunciato in sede di composizione di contrasto di giurisprudenza o di risoluzione di questione di massima di particolare importanza.
È stata autorevolmente prospettata la conclusione più ampia. Si è, infatti, rilevato[20] che non è necessario, affinché sorga il vincolo, che il principio di diritto affermato riguardi proprio la questione in ragione della quale il ricorso è stato rimesso alle sezioni unite: non essendo prevista tale limitazione, basterebbe che il principio di diritto sia affermato dalle sezioni unite nell’enunciazione formale ai sensi dell’articolo 384 cpc, non occorrendo anche che il principio di diritto afferisca a quella questione – sulla quale è insorto un contrasto di giurisprudenza, ovvero di massima di particolare importanza – che ha attratto il ricorso alla competenza delle sezioni unite.
Ritengo preferibile la tesi restrittiva, che limita il vincolo ai principi di diritto enunciati dalle sezioni unite per dirimere un contrasto ovvero per risolvere una questione di massima di particolare importanza, dovendosi ritenere prive dell’efficacia potenziata di cui al terzo comma dell’articolo 374 cpc le decisioni che le sezioni unite abbiano reso, ai sensi dell’articolo 142 disp. att. cpc, sui motivi di ricorso di spettanza delle sezioni semplici, all’esito di una valutazione di opportunità e dopo avere deciso i motivi di propria competenza[21].
Convergono in questa direzione la lettera e la ratio della disposizione.
Sul piano letterale, infatti, la previsione – nell’articolo 374, comma 3, cpc – di un limite alla possibilità per le sezioni semplici di decidere sul ricorso in maniera difforme dall’eventuale principio già affermato dalle sezioni unite, fa seguito alla disposizione del comma 2, il quale, indicando i casi nei quali il primo presidente può rimettere la causa alle sezioni unite, vi include i «ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici» e «quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza». È pertanto da escludere che abbiano le caratteristiche richieste le affermazioni di principio sulle questioni che si pongono al di fuori dei casi delineati nel secondo comma. Difatti, il congegno delineato nel terzo comma si appalesa, in un certo senso, come il completamento della previsione che radica nelle sezioni unite la composizione del contrasto di giurisprudenza insorto all’interno delle sezioni semplici o la risoluzione della questione di massima di particolare importanza, «e nella stessa logica va letto»[22], non avendo senso devolvere alle sezioni unite il superamento del contrasto o la decisione della questione di massima di particolare importanza, se poi la sezione semplice potesse sic et simpliciter discostarsi dal precedente delle sezioni unite[23].
Sul piano della ratio, poi, l’introduzione, con il terzo comma, di una regola procedurale della nomofilachia improntata al vincolo di coerenza, si giustifica in relazione all’esigenza di evitare quelli che la dottrina[24] aveva chiamato i «contrasti assolutamente inammissibili», che si hanno «specie quando sorgano su questioni di cui le sezioni unite erano già state investite a causa di un precedente contrasto o di una questione di massima di particolare importanza». In questo contesto, il vincolo per la sezione semplice a non emettere una decisione di contenuto difforme e a convogliare il dissenso in un’ordinanza che investa della decisione le sezioni unite, si impone là dove queste abbiano in precedenza enunciato un principio di diritto nell’esercizio della loro attribuzione istituzionale.
Così, ad esempio, rispetto alla sentenza delle sezioni unite 5 agosto 2016, n. 16598, l’efficacia potenziata ai sensi del terzo comma dell’articolo 374 cpc assiste il principio – enunciato a composizione del sollevato contrasto di giurisprudenza – secondo cui la tempestiva costituzione dell’appellante con la copia dell’atto di citazione (cd. “velina”) in luogo dell’originale non determina l’improcedibilità del gravame ai sensi dell’articolo 348, comma 1, cpc, ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall’articolo 165 cpc, sanabile - anche su rilievo del giudice – entro l’udienza di comparizione di cui all’articolo 350, comma 2, cpc mediante deposito dell’originale da parte dell’appellante, ovvero a seguito di costituzione dell’appellato che non contesti la conformità della copia all’originale (e sempreché dagli atti risulti il momento della notifica ai fini del rispetto del termine ex articolo 347 cpc), salva la possibilità per l’appellante di chiedere la remissione in termini per la regolarizzazione della costituzione nulla, dovendosi ritenere, in mancanza, consolidato il vizio e improcedibile l’appello. Un analogo vincolo di coerenza non discende dal principio – che la stessa sentenza delle sezioni unite enuncia specificamente in esito allo scrutinio, ai sensi dell’articolo 142 disp. att. cpc, di un altro motivo di ricorso, diverso da quello che veicolava la questione oggetto del contrasto – sulla portata e sull’ambito dell’articolo 2697 cc (la cui violazione si configura «se il giudice di merito applica la regola di giudizio sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni») e sulle condizioni per dedurre la violazione del paradigma dell’articolo 115 cpc (che si ha allorché «il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti», non quando «il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’articolo 116 cpc»).
4. L’enunciazione del principio di diritto
Il vincolo di coerenza delle sezioni semplici concerne il «principio di diritto enunciato dalle sezioni unite».
Dal collegamento tra il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, di cui al terzo comma dell’articolo 374 cpc, e la nuova formulazione dell’articolo 384, comma 1, cpc, introdotta dall’articolo 12 d.lgs n. 40/2006, che prevede appunto l’«enunciazione del principio di diritto» nelle decisioni della Corte di cassazione, è stato tratto l’avviso che il vincolo negativo per le sezioni semplici riguarderebbe solo la «espressa e formale enunciazione» del principio di diritto «contenuta nella decisione delle sezioni unite»[25].
Ora, non v’è dubbio che l’enunciazione del principio di diritto a corredo della composizione del contrasto di giurisprudenza o della risoluzione della questione di massima di particolare importanza dovrebbe essere esplicita, ed è questo ciò che, di regola, accade.
Peraltro capita, talora, che nella pronuncia delle sezioni unite, emessa ai sensi del secondo comma dell’articolo 374 cpc, manchi una siffatta specifica enunciazione.
Una ricerca tra le pronunce delle sezioni unite emesse nell’ultimo periodo consente di evidenziare che, in almeno due casi, l’esito compositivo del contrasto o risolutivo della questione di massima di particolare importanza non è stato trasfuso nella enunciazione – espressa e formale – richiesta dall’articolo 384. Tanto è avvenuto, ad esempio, nella sentenza 7 maggio 2013, n. 10532, sulla inopponibilità allo Stato dell’ipoteca iscritta su di un bene immobile confiscato ai sensi della legislazione antimafia, e nella sentenza 22 dicembre 2015, n. 25767, che ha escluso il diritto del nato disabile ad agire per il risarcimento del danno da nascita indesiderata.
Anche in questi casi, nondimeno, è configurabile l’efficacia potenziata ai sensi del terzo comma dell’articolo 374 cpc, occorrendo considerare la sentenza nel suo insieme per ricavare da essa, pur in difetto di una specifica enunciazione, il principio di diritto che le sezioni unite hanno così inteso affermare.
5. Principio di diritto “vincolante” e (limiti alla) rilevanza dell’apparato argomentativo della pronuncia
La giurisprudenza si è posta l’interrogativo se il vincolo per le sezioni semplici di non emettere una decisione di contenuto difforme concerna solo il principio di diritto affermato, ovvero si debba estendere anche alle argomentazioni svolte, contenute nella motivazione del dictum delle sezioni unite.
L’occasione per sollevare tale quesito si è profilata a seguito della sentenza delle sezioni unite 4 settembre 2012, n. 14828, sul rapporto tra azione di risoluzione del contratto e rilievo officioso delle nullità contrattuali.
Con l’ordinanza interlocutoria 3 luglio 2013, n. 16630, la seconda sezione civile, nell’invocare il revirement di tale precedente non integralmente condiviso, ha in via preliminare sollecitato le sezioni unite a chiarire se l’onere di conformazione gravante sulla sezione semplice investa il solo principio di diritto enunciato, o se la regula iuris debba «ricavarsi solo dalla motivazione nella sua integralità e nel confronto con la fattispecie concretamente esaminata», anziché «da una specie di “automassimazione” della pronuncia (…) da parte del collegio decidente».
Le sezioni unite, con la sentenza 12 dicembre 2014, n. 26242, hanno quindi chiarito che l’onere di conformazione deve intendersi riferito «all’applicazione del solo principio di diritto posto a fondamento del decisum delle sezioni unite e che costituisce la ratio decidendi della fattispecie concreta, senza estendersi a tutte le ulteriori argomentazioni svolte in guisa di obiter dictum o comunque contenute nella parte motiva della sentenza».
Si tratta di un approdo condiviso dalla dottrina, la quale ha evidenziato che la regula iuris della decisione si ricava dal complesso motivazionale della pronuncia e solo come tale può costituire un “precedente”: «una cosa è il “principio di diritto” enunciato dalla Corte ai sensi dell’articolo 384, primo comma, cpc, facilmente individuabile nella sentenza, altra cosa la regula iuris enucleabile dal complesso della motivazione della pronuncia delle sezioni unite, alla quale dovranno attenersi le sezioni semplici, ai sensi del terzo comma dell’articolo 374» [26].
6. L’ambito temporale del vincolo di conformazione
Nella pratica applicativa si è posto il problema dell’ambito temporale del vincolo di conformazione stabilito dal terzo comma dell’articolo 374 cpc: se, cioè, esso riguardi solo le pronunce per le quali opera la prescrizione dell’articolo 384, comma 1, novellato, quindi soltanto le “nuove” pronunce delle sezioni unite emesse nella vigenza della riforma del 2006[27].
Messa di fronte a questo interrogativo, la giurisprudenza delle sezioni semplici non ha dato risposte uniformi.
Un esempio di applicazione del meccanismo delineato dall’articolo 374, comma 3, cpc, anche in presenza di un dictum nomofilattico delle sezioni unite antecedente al 2006, può cogliersi nell’ordinanza interlocutoria della sezione lavoro 8 marzo 2012, n. 3639. Chiamata ad applicare il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite con la sentenza 23 dicembre 2005, n. 28498, sull’onere dell’appellante, quale che sia stata la posizione da lui assunta nella precedente fase processuale, di produrre – o ripristinare in appello, se già prodotti in primo grado – i documenti sui quali egli basa il proprio gravame (o comunque di attivarsi, anche avvalendosi della facoltà, ex articolo 76 disp. att. cpc, di farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti), perché questi documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello, la sezione lavoro, con la citata ordinanza, ha affidato “le ragioni del dissenso” a una diretta investitura delle sezioni unite, richiamando espressamente la norma che affida alle stesse la competenza dell’overruling del precedente.
Diverso è stato l’approccio seguito dalla prima sezione civile in rapporto alla sentenza delle sezioni unite 29 novembre 1990, n. 11490, in tema di assegno di divorzio. Qui si è, in un primo tempo, ritenuto[28] che l’orientamento espresso – quasi ventisette anni prima – dalle sezioni unite non fosse più attuale, e che ciò esimesse il collegio dall’osservanza del precetto dell’articolo 374, comma 3, cpc, abilitandolo a discostarsi direttamente dal precedente delle sezioni unite. Quest’ultimo aveva individuato il presupposto per concedere l’assegno di divorzio nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Si è poi affermato, in un’altra pronuncia confermativa del nuovo orientamento in tema di autosufficienza economica del coniuge divorziato[29], che l’articolo 374, comma 3, cpc «va considerato disposizione di natura ordinamentale più che processuale», operativa «solo per i principi affermati dalle sezioni unite dopo la sua entrata in vigore, e non per quelli (…) enunciati anteriormente, per i quali permane il profilo di grande autorevolezza dell’insegnamento delle sezioni unite, il punto più alto nella interpretazione e nella nomofilachia, ma non vincolante per le sezioni semplici».
Appare preferibile la tesi che ritiene applicabile il procedimento di rimessione disegnato dall’articolo 374, comma 3, cpc anche quando la pronuncia delle sezioni unite che ha composto il contrasto o risolto la questione di massima sia anteriore al 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del d.lgs n. 40/2006. Se infatti, come si è visto, il principio di diritto a fondamento del decisum, anche quando non specificamente enunciato, è ricavabile dal contesto della sentenza nomofilattica delle sezioni unite, allora il vincolo di coerenza per la sezione semplice non richiede neppure un collegamento temporale con quanto il novellato articolo 384 cpc prescrive in generale, in tema di enunciazione del principio di diritto, per le pronunce della Corte di cassazione.
7. Principio di diritto “vincolante” e incidente di costituzionalità
Il vincolo di coerenza imposto dal citato articolo 374 riguarda l’interpretazione della legge consegnata nel principio di diritto, non la sua validità costituzionale.
Il collegio della sezione semplice non è posto di fronte alla secca alternativa tra l’uniformare la propria decisione al principio di diritto enunciato dalle sezioni unite – per dirimere un contrasto o una questione di massima di particolare importanza – e la rimessione con ordinanza interlocutoria del ricorso alle sezioni unite, esponendo le ragioni del dissenso.
Il collegio della sezione semplice può sottrarsi a questa alternativa attivando l’incidente suscettibile di condurre a una declaratoria di incostituzionalità, e quindi alla rimozione, della disposizione sottostante al principio enunciato dalle sezioni unite.
Emblematica appare la vicenda delle ricadute sulla decorrenza del termine lungo per l’impugnazione, nel caso in cui le attività di deposito della sentenza e di effettiva pubblicazione della stessa abbiano luogo in due momenti diversi.
In proposito, la sentenza delle sezioni unite n. 13794 del 1° agosto 2012, risolvendo il contrasto insorto precedentemente tra le sezioni semplici, aveva statuito che la sentenza del giudice esiste giuridicamente e tutti ne hanno «scienza legale» con la pubblicazione a cura del cancelliere, e che la pubblicazione è effetto legale della certificazione da parte del cancelliere della consegna ufficiale della sentenza; in tal modo, egli completa il procedimento di pubblicazione che la norma prevede senza soluzione di continuità tra la consegna e il deposito. È, dunque, una irregolarità – avevano precisato le sezioni unite – l’«inconveniente di fatto» che il cancelliere dapprima attesti, ai fini e per gli effetti di cui agli articoli 2699 cc e 57 cpc, la data di deposito della sentenza, originale, completa, non necessitante di integrazione alcuna e successiva collazione, e successivamente dichiari, in altra data da lui autonomamente determinata, che la sentenza “è pubblicata”. Da qui, per la Corte di cassazione a sezioni unite, l’esigenza di ricondurre a unità il sistema: se sulla sentenza sono state apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento depositato contiene la minuta della sentenza, e l’altra di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono dalla data del suo deposito.
La seconda sezione ha convertito le ragioni del dissenso da questo approdo ermeneutico in profili di dubbio di legittimità costituzionale degli articoli 133 e 327 cpc, così come interpretati dalle sezioni unite, per la possibile violazione degli articoli 3, comma 2, e 24, commi 1 e 2, Cost. Qui preme sottolineare che l’ordinanza 22 novembre 2013, n. 26251, che ha sollevato la questione, ha precisato preliminarmente che l’articolo 374, comma 3, cpc non impedisce al collegio della sezione semplice di sollecitare la verifica della compatibilità dell’esito interpretativo sotteso al principio di diritto enunciato dalle sezioni unite con i principi costituzionali in concreto involti dalla questione risolta.
Si tratta di un percorso convalidato, con riguardo alla legittimazione del collegio della sezione semplice a sollevare il dubbio di costituzionalità, dalla Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 3 del 2015, ha scrutinato il merito della questione, pervenendo a una pronuncia interpretativa di rigetto[30] che ha rappresentato la base per il successivo revirement[31] delle sezioni unite[32].
8. ... E rinvio pregiudiziale
Il meccanismo disegnato dall’articolo 374, comma 3, cpc neppure espropria la sezione semplice, ove essa dubiti della compatibilità con il diritto dell’Ue del principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, del potere-dovere di rivolgersi, quale giudice di ultima istanza, alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
In una fattispecie nella quale venivano in rilievo la norma corrispondente, contenuta nell’articolo 99, comma 3, cpa, e l’obbligo della sezione del Consiglio di Stato investita di una questione attinente al diritto dell’Unione, in caso di disaccordo con la decisione dell’adunanza plenaria, di rinviare a quest’ultima tale questione, la Grande Sezione della Corte di giustizia, con la sentenza 5 aprile 2016, Puligienica Facility Esco Spa c. Airgest Spa, ha infatti statuito che l’organo nazionale investito di una controversia, qualora ritenga che, nell’ambito della medesima, sia sollevata una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, ha la facoltà o l’obbligo, a seconda del caso, di adire la Corte in via pregiudiziale. Ciò senza che detta facoltà o detto obbligo – inerenti al sistema di cooperazione fra gli organi giurisdizionali nazionali e la Corte, instaurato dall’articolo 267 Tfue, e alle funzioni di giudice incaricato dell’applicazione del diritto dell’Unione affidate dalla citata disposizione agli organi giurisdizionali nazionali – possano essere ostacolati da norme nazionali di natura legislativa o giurisprudenziale.
Deve pertanto ritenersi che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, la sezione semplice della Corte di cassazione, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione delle sezioni unite, non è tenuta a rinviare la questione alle sezioni unite in ottemperanza al vincolo di coerenza imposto dall’articolo 374, comma 3, cpc, ma è tenuta ad adire la Corte di giustizia ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 Tfue.
9. Un bilancio dell’esperienza applicativa
Un bilancio di questo decennio di applicazione consente di pervenire alla conclusione che il meccanismo orizzontale e circolare delineato dal terzo comma dell’articolo 374 si presenta come uno strumento capace di assicurare una ordinata evoluzione del diritto vivente, garantendo che le spinte innovative provenienti dalle sezioni semplici si realizzino e si incanalino in un contesto di coerenza e di solidità argomentativa ed evitando, nel contempo, che il revirement determini incalcolabilità del diritto, imprevedibilità della decisione e disuguaglianza tra gli utenti del servizio giustizia.
Le sezioni unite si mostrano pronte a farsi carico delle ragioni nuove prospettate dai collegi delle sezioni semplici e ad affidare, così, alla comunità un prodotto giurisprudenziale frutto di un dialogo più avanzato e di una consapevolezza più matura.
Per dimostrare questa conclusione, indicherei tre esempi.
Il primo, in tema di procedibilità del ricorso per cassazione quando la copia notificata della sentenza impugnata, non prodotta dal ricorrente che pur abbia dichiarato l’esistenza di tale evento, sia stata depositata da un’altra parte nel giudizio di legittimità.
Con la sentenza 2 maggio 2017, n. 10648, le sezioni unite approdano a una svolta importante in materia processuale, ritenendo soddisfatta la condizione di procedibilità del ricorso per cassazione, costituita dalla produzione della relata di notifica della sentenza impugnata, anche quando il documento risulti depositato dal controricorrente o sia ritualmente presente nel fascicolo d’ufficio trasmesso dal giudice a quo.
Le sezioni unite abbandonano così il precedente indirizzo risultante dall’ordinanza 16 aprile 2009, n. 9005, con la quale le stesse sezioni unite, a composizione di contrasto, erano pervenute alla conclusione secondo cui, là dove il ricorrente – espressamente o implicitamente – alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notifica, il ricorso per cassazione deve essere dichiarato improcedibile, dovendosi escludere ogni rilievo alla eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero al deposito, da parte sua, di una copia con la relata o alla presenza di tale copia nel fascicolo d'ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell'impugnazione.
L’intrecciarsi di più aspetti, «portatori di altrettanti valori interni al sistema», ha indotto le sezioni unite ad abbracciare l’orientamento più liberale: «l’ordinato svolgersi del giudizio di legittimità, con la possibilità di avviare sollecitamente le verifiche di rito»; «il controllo sulla tempestività dell’impugnazione e sul conseguente formarsi del giudicato»; «il diritto della parte resistente di far constare i vizi del ricorso»; «la necessaria proporzionalità tra la sanzione irrimediabile dell’improcedibilità (…) e la violazione processuale commessa»; «la strumentalità che le forme processuali hanno in funzione della attuazione della giurisdizione mediante decisioni di merito»; «la giustizia della decisione (…) quale scopo dell’equo processo».
Preme, in questa sede, sottolineare che il collegio della prima sezione civile, con l’ordinanza interlocutoria[33] ai sensi dell’articolo 374 cpc, nel sollecitare il mutamento di giurisprudenza, aveva segnalato i profili di problematicità della precedente interpretazione restrittiva con riguardo al principio interno e sovranazionale di effettività della tutela giurisdizionale, e che le sezioni unite hanno esplicitamente condiviso i rilievi della sezione rimettente, inquadrandoli in un disegno coerenziatore con le più recenti acquisizioni giurisprudenziali.
Nel settore della crisi dell’impresa, con riguardo alla questione del rapporto tra i procedimenti di concordato preventivo e di fallimento, la sentenza delle sezioni unite 23 gennaio 2013, n. 1521, valorizzando l’avvenuta espunzione dal testo dell’articolo 160 legge fallimentare, come riformulato dal d.lgs 9 gennaio 2006, n. 5, dell’inciso che prevedeva la possibilità per l’imprenditore di proporre il concordato preventivo «fino a che il suo fallimento non è dichiarato», era giunta a ritenere superato il principio di prevenzione che correlava le due procedure. Di conseguenza, le sezioni unite affermavano che la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento non rappresentasse un fatto impeditivo della relativa dichiarazione, ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del debitore, non abilitato a disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare.
Questa conclusione è stata superata dalla successiva sentenza a sezioni unite 15 maggio 2015, n. 9935, la quale ha affermato il diverso principio secondo cui, in pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell'articolo 161, comma 6, legge fall., il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del pubblico ministero, può essere dichiarato soltanto quando ricorrano gli eventi previsti dagli articoli 162, 173, 179 e 180 legge fall., e cioè, rispettivamente: quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato.
Ancora una volta, l’overruling è maturato nel dialogo costruttivo e dinamico con il collegio della sezione semplice, che, ricorrendo allo strumento dell’ordinanza motivata di cui all’articolo 374, comma 3, cpc, aveva segnalato le aporie sistematiche del precedente dictum nomofilattico delle sezioni unite. In particolare, il superamento del principio di prevenzione (id est di prevalenza del concordato preventivo) e la sussistenza di una mera esigenza di coordinamento tra la procedura di concordato preventivo e quella prefallimentare non erano state condivise dalla prima sezione civile[34]. Quest’ultima aveva sottolineato che la perdurante vigenza del predetto principio è «ricavabile dal sistema, il quale attribuisce al concordato preventivo la funzione di prevenire – appunto – il fallimento attraverso una soluzione alternativa basata sull'accordo del debitore con la maggioranza dei creditori. Tale funzione preventiva comporta sia che, prima di dichiarare il fallimento, debba necessariamente essere esaminata l’eventuale domanda di concordato presentata dal debitore, per farsi luogo, poi, alla dichiarazione del fallimento solo in caso di mancata apertura della procedura minore; sia che, una volta aperta quest’ultima ai sensi dell’articolo 163 legge fall., il fallimento non possa più essere dichiarato sino alla conclusione di essa in senso negativo, ossia con la mancata approvazione ai sensi dell'articolo 179, il rigetto ai sensi dell'articolo 180, ultimo comma, ovvero la revoca dell'ammissione ai sensi dell’articolo 173».
Nel settore dei contratti assicurativi e delle clausole on claims made basis, il dissenso espresso dalla sezione semplice[35] rispetto al precedente delle sezioni unite[36] non ha condotto al sollecitato revirement, ma ha consentito alle sezioni unite[37] di approdare a un esito nomofilattico innovativo e sistematicamente più coerente (in particolare, con riferimento al controllo dell’autonomia privata, non più soggetto al giudizio di meritevolezza ex articolo 1322, comma 2, cc, bensì a quello di cui al primo comma dello stesso articolo, da effettuarsi in relazione alla causa in concreto del negozio, con lo sguardo attento ai principi costituzionali e sovranazionali), anche per il rilievo dato con il nuovo arresto ai diversi livelli di tutela di cui dispone l’assicurato, i quali investono non solo la conformazione del contenuto del contratto, ma anche la fase precontrattuale e quella di attuazione del rapporto[38].
[1] È quanto afferma R. Rordorf, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario nell’ordinamento italiano, in Foro it., 2006, V, p. 284.
[2] Sul ruolo della nomofilachia a seguito delle più recenti riforme processuali, v. L. Passanante, Il precedente impossibile. Contributo allo studio del diritto giurisprudenziale nel processo civile, Giappichelli, Torino, 2018. Sul rapporto tra precedenti e nomofilachia, v. AA.VV., Il vincolo giudiziale del passato. I precedenti, a cura di A. Carleo, Bologna, Il Mulino, 2018 (ed ivi, in particolare, i saggi di: N. Irti, Sulla relazione logica di con-formità (precedente e susseguente), pp. 17 e ss.; G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, pp. 27 e ss.;R.Rordorf, Il precedente nella giurisprudenza, pp. 89 e ss.; P. Curzio, Il giudice e il precedente, pp. 239 e ss; F. Patroni Griffi, «Consuetudini e usi giudiziari» e diritto giurisprudenziale, pp. 255 e ss.).
[3] G. Amoroso, La Corte di cassazione ed il precedente, in M. Acierno – P. Curzio – A. Giusti (a cura di), La Cassazione civile. Lezione dei magistrati della Corte suprema italiana, Cacucci, Bari, 2015, 56; C. Di Iasi, La fata ignorante (a proposito di Ufficio del Massimario e funzione di nomofilachia), in questa Rivista trimestrale, n. 3/2017 (www.questionegiustizia.it/rivista/2017/3/la-fata-ignorante_a-proposito-di-ufficio-del-massimario-e-funzione-di-nomofilachia_466.php).
[4] Così B. Sassani, Il nuovo giudizio di cassazione, in Riv. dir. proc., 2006, p. 233.
[5] Da G. Prestipino, Il nuovo ruolo delle sezioni unite, in G. Ianniruberto - U. Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 37 ss., spec. 61-62.
[6] A. Proto Pisani, nota redazionale in Foro it., 1987, I, p. 746; si veda, dello stesso Autore, Su alcuni problemi organizzativi della Corte di cassazione: contrasti di giurisprudenza e tecniche di redazione della motivazione, in Foro it., 1998, V, pp. 28 ss.; nonché Novità nel giudizio civile di cassazione, in Foro it., 2005, V, p. 254.
[7] E. Lupo, Il funzionamento della Cassazione civile, in Foro it., 1999, V, p. 205. Lo stesso avviso esprimeva S. Evangelista, La professionalità dei magistrati della Corte suprema di cassazione, ivi, 1999, V, p. 175.
[8] G.F.Ricci, Il giudizio civile di cassazione, Giappichelli, Torino, 2016 (II ed.), p. 477.
[9] A. Carratta, Commento all’articolo 374 c.p.c., in S. Chiarloni (a cura di), Le recenti riforme del processo civile., Zanichelli, Bologna, 2007 (II ed.), pp. 426-427.
[10] Così S. Chiarloni, Prime riflessioni su recenti proposte di riforma del giudizio di cassazione, in Giur. it., 2003, p. 818.
[11] G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, cit., p. 33.
[12] A. Tedoldi, La delega sul procedimento di cassazione, in Riv. dir. proc., 2005, pp. 925 ss.
[13] G. Amoroso, La Corte di cassazione ed il precedente, op. cit., pp. 56-57.
[14] Così S. Chiarloni, Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giurisprudenziale, in Riv. dir. proc., 2001, p. 629.
[15] G. Amoroso, Commento all’articolo 374 cod. proc. civ., in A. Briguglio - B. Capponi (a cura di) Commentario alle riforme del processo civile, Cedam, Padova, 2009, p. 208. Nello stesso senso M. Taruffo, Una riforma della Cassazione civile?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, p. 773, ad avviso del quale, nel caso in cui la sezione semplice non condivida il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, e tuttavia decida essa stessa il ricorso sulla base di un principio di diritto diverso, questa decisione non potrebbe «considerarsi in alcun modo viziata, soprattutto in un sistema che – come il nostro – si fonda sul principio di tassatività delle nullità processuali; tanto meno … potrebbe considerarsi come inesistente o in qualche modo abnorme». Di carattere “necessariamente imperfetto” della disposizione, nel senso che «l’eventuale sua violazione non prevede sanzione (se non, eventualmente, sul diverso piano disciplinare)», parla anche R. Rordorf, Stare decisis, cit., p. 283. P. Curzio (Il giudice e il precedente, cit., p. 253) sottolinea che «non sono previste sanzioni per la violazione della regola», ma che «se una sezione semplice dovesse esprimere un orientamento difforme dalle sezioni unite senza seguire la via tracciata dal codice, il precedente così creato risulterebbe fortemente indebolito quanto alla sua autorevolezza».Sul tema v. F. Auletta, Note intorno alla prima applicazione del cd. “vincolo delle sezioni semplici al precedente delle sezioni unite”, in Giust. civ., 2008, pp. 769 e ss.
[16] Osserva giustamente Amoroso, Commento, cit., p. 209, che la mancanza di una sanzione processuale per la decisione della sezione semplice pronunciata in spregio al vincolo derivante dal dictum nomofilattico delle sezioni unite e la circostanza che una sanzione disciplinare sia di difficile configurabilità non rendono inutile la disposizione dell’articolo 374, terzo comma, cod. proc. civ., esistendo nel sistema «“norme processuali ordinatorie che, seppur sprovviste di sanzione, devono non di meno essere osservate dal giudice e, di norma, lo sono».
[17] Così M. R. Morelli, L’enunciazione del principio di diritto, in M. Acierno - P. Curzio - A. Giusti (a cura di), La Cassazione, op. cit., p. 440.
[18] Cfr. F.P. Luiso, Il vincolo delle Sezioni semplici al precedente delle Sezioni unite, in Giur. it., 2003, pp. 820 ss., il quale sottolinea l’opportunità che venga garantito «l’apporto di tutti i magistrati della Cassazione nell’elaborazione delle pronunce delle sezioni unite, al fine di ottenere un’evoluzione giurisprudenziale alla quale possano essere chiamati a partecipare tutti i magistrati addetti alla Cassazione». Quanto al compito delle sezioni semplici, l’Autore esclude che esso sia quello di «applicare acriticamente il precedente», ma sottolinea nel contempo che esse «non possono arrogarsi il potere di discostarsene», dovendo «sollecitare il cambiamento da quella stessa struttura – le sezioni unite – che quel precedente ha posto». In altri termini, la convinzione, da parte della sezione semplice, che il caso di specie richieda l’applicazione di un differente principio di diritto non legittima una autonoma decisione del ricorso, neppure previa accurata giustificazione della scelta.
[19] C. Delle Donne, sub articolo 374 cpc, in L.P. Comoglio - C. Consolo - B. Sassani - R. Vaccarella (a cura di) Commentario del codice di procedura civile, Utet, Torino, 2013, p. 968. G. Monteleone (Il nuovo volto della Cassazione civile, in Riv. dir. proc., 2006, pp. 943 ss., spec. pp. 951-952) sottolinea che «il principio di diritto enunciato dalla Cassazione non si contrappone alla legge, ma ne costituisce una sua proiezione o esplicazione pratica e concreta: quindi uniformarsi ad esso significa, appunto, essere soggetti alla legge, come prevede l’articolo 101 Cost., e non al capriccio o al potere di un organo estraneo alla giurisdizione», e che «la sezione semplice non è obbligata a seguire passivamente l’orientamento delle sezioni unite, perché può dissentire con ordinanza motivata, rinviando il tutto al più autorevole consesso». Sulle differenze del testo finale dell’articolo 374 rispetto a quello contenuto nel progetto originario di decreto legislativo delegato, si veda A. Tedoldi, La nuova disciplina del procedimento di cassazione: esegesi e spunti, in Giur. it., 2006, p. 2011, e C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. II - Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 602-603.
[20] Da G. Amoroso, Commento, op. cit., p. 212.
[21] Così G. Ianniruberto, Il principio di diritto nelle controversie di lavoro (riflessioni sugli artt. 363 e 374 cpc riformati), in Riv. it. dir. lav., 2010, I, p. 20 («il principio, dal quale le sezioni semplici non possono discostarsi, è soltanto quello sul quale le sezioni unite hanno una “competenza istituzionale”, in quanto chiamate a pronunziarsi su un contrasto ovvero su una questione di massima di particolare importanza»). Si veda anche, dello stesso Autore, Le attribuzioni delle sezioni unite civili e l’efficacia del principio di diritto, in Corriere giuridico, 2008, p. 725.
[22] L’espressione è tratta da C. Delle Donne, sub articolo 374 cpc, op. cit., 967.
[23] Di «meccanismo interno di stabilizzazione delle decisioni adottate in sede di risoluzione di contrasto o su questione di massima di particolare importanza, ex comma secondo dell’articolo 374 (…) dalle sezioni unite della Corte regolatrice», parla M.R. Morelli, L’enunciazione, op. cit., p. 418.
[24] A. Proto Pisani, Su alcuni problemi, op. cit., p. 28.
[25] Così G. Amoroso, La Corte, op. cit., 57; Id., Commento, op. cit., p. 211.
[26] V., per tutti, A. Carratta, Commento, op. cit., pp. 430-431.
[27] Cfr. G. Amoroso, La Corte, op. cit., p. 58.
[28] Con la sentenza 10 maggio 2017, n. 11504.
[29] Cass., sez. I, 26 gennaio 2018, n. 2042.
[30] La Corte costituzionale ha infatti riconosciuto che, per costituire dies a quo del termine per l’impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, situazione che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzata solo in corrispondenza di quest’ultima. Sicché il ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende di fatto inoperante la dichiarazione dell’intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa, e di ciò il giudice non può che prendere atto traendone le necessarie conseguenze. Qualora ciò accada – ha affermato la Corte costituzionale –, il ricorso all’istituto della rimessione in termini per causa non imputabile (articolo 153 cpc) va inteso come doveroso riconoscimento d’ufficio di uno stato di fatto contra legem che, in quanto imputabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all’impugnazione, riducendone i relativi termini.
[31] Sollecitato dall’ordinanza interlocutoria della seconda sezione civile, 28 settembre 2015, n. 19140.
[32] Cass., sez. unite, 22 settembre 2016, n. 18659, ha infatti statuito che «Il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati, dovendosi identificare tale momento con quello di venuta ad esistenza della sentenza a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per la sua impugnazione. Qualora, peraltro, tali momenti risultino impropriamente scissi mediante apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, il giudice deve accertare – attraverso istruttoria documentale, ovvero ricorrendo a presunzioni semplici o, infine, alla regola di cui all'articolo 2697 cod. civ., alla stregua della quale spetta all’impugnante provare la tempestività della propria impugnazione – quando la sentenza sia divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell’elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo».
[33] Si tratta dell’ordinanza n. 1081 del 21 gennaio 2016.
[34] Cass., sez. I, 30 aprile 2014, n. 9476.
[35] Cass., sez. III, 19 gennaio 2018, n. 1465.
[36] Cass., sez. unite, 6 maggio 2016, n. 9140, aveva affermato il seguente principio di diritto: «Nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto, o comunque entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati (clausola claims made mista o impura), non è vessatoria, ma, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero – ove applicabile la disciplina del d.lgs. n. 206 del 2005 – per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali; la relativa valutazione va effettuata dal giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità quando congruamente motivata».
[37] Cass. sez. unite, 24 settembre 2018, n. 22437.
[38] Secondo le sezioni unite del 2018, infatti, «Il modello dell’assicurazione della responsabilità civile con clausole on claims made basis, che è volto ad indennizzare il rischio dell'impoverimento del patrimonio dell'assicurato pur sempre a seguito di un sinistro, inteso come accadimento materiale, è partecipe del tipo dell’assicurazione contro i danni, quale deroga consentita al primo comma dell'articolo 1917 c.c., non incidendo sulla funzione assicurativa il meccanismo di operatività della polizza legato alla richiesta risarcitoria del terzo danneggiato comunicata all’assicuratore. Ne consegue che, rispetto al singolo contratto di assicurazione, non si impone un test di meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma 2, c.c., ma la tutela invocabile dal contraente assicurato può investire, in termini di effettività, diversi piani, dalla fase che precede la conclusione del contratto sino a quella dell’attuazione del rapporto, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili implicati, ossia (esemplificando): responsabilità risarcitoria precontrattuale anche nel caso di contratto concluso a condizioni svantaggiose; nullità, anche parziale, del contratto per difetto di causa in concreto, con conformazione secondo le congruenti indicazioni di legge o, comunque, secondo il principio dell'adeguatezza del contratto assicurativo allo scopo pratico perseguito dai contraenti; conformazione del rapporto in caso di clausola abusiva (come quella di recesso in caso di denuncia di sinistro)».