Comunicazione della giustizia sulla giustizia
Come non si comunica
Le modalità di pubblica comunicazione dei magistrati hanno dato luogo a frequenti critiche secondo cui essi parlerebbero per rafforzare il peso dell’accusa o la propria immagine. Si tratta di accuse quasi sempre infondate, ma che traggono spunto da innegabili criticità: basti pensare alla prassi delle conferenze stampa teatrali e dei comunicati stampa per proclami, o all’autocelebrazione della proprie inchieste con connesse accuse a chi si permette di esprime dubbi e critiche. Bisogna spiegare ai magistrati “come non si comunica”, convincendoli ad evitare i tentativi di “espansione” a mezzo stampa del proprio ruolo fino ad includervi quelli degli storici e dei moralizzatori della società. Il dovere di informare è naturalmente irrinunciabile, purché esercitato nei limiti della legge, del rispetto della privacy e delle regole deontologiche, ma è anche necessario che i magistrati si guardino bene dal contribuire a rafforzare un’ormai evidente degenerazione informativa, che spesso determina febbre “giustizialista”, alimentata da mostruosi talk-show ed attacchi alla politica ingiustificatamente generalizzati. I magistrati non sono ovviamente gli unici responsabili di questa pericolosa deriva cui contribuiscono anche strumentalizzazioni ad opera di appartenenti alle categorie degli avvocati, dei politici e degli stessi giornalisti che spesso producono informazioni sulla giustizia prive di approfondimento e di verifiche, e che sono caratterizzate dalla ricerca di titoli e di forzature delle notizie al solo scopo di impressionare il lettore. È necessaria, dunque, per venir fuori da questo preoccupante labirinto, una riflessione comune su informazione e giustizia tra magistrati, avvocati e giornalisti.
Premessa
Il corretto rapporto tra giustizia ed informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri su cui si fonda la credibilità dell’amministrare giustizia. All’opposto, la comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, in sostanza disinformazione, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura e conseguente perdita della sua credibilità.
Non è per caso che il Consiglio superiore della magistratura, pur nell’ambito di un interventismo talvolta eccessivo, abbia emanato nella seduta dell’11 luglio 2018 le «Linee guida per l’organizzazione degli Uffici giudiziari “ai fini di una corretta comunicazione istituzionale», quale espressione della necessità di trasparenza, controllo sociale e comprensione – da parte dei cittadini – della giustizia intesa come servizio, come funzione, come istituzione.
Del resto, come è stato osservato[1], il magistrato non è più, in sé, simbolo di prestigio sociale e, tanto meno, di autorevolezza, fiducia, credibilità. La percezione sociale del magistrato e della giustizia – e dunque la maggiore o minore fiducia, il maggiore o minore rispetto, la maggiore o minore credibilità – si nutre sempre di più anche del “costume giudiziario”, ovvero di come i magistrati si pongono, parlano, scrivono, si comportano, e si relazionano con le parti del processo e con il pubblico.
La giustizia viene comunicata quotidianamente all’esterno con vari strumenti, inclusi avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, sentenze, ma oggetto di questo intervento, non sono le tecniche di redazione dei provvedimenti giudiziari, quanto le modalità di comunicazione esterna attraverso interviste, conferenze, comunicati-stampa che spesso appaiono la spia di diffuse propensioni dei magistrati ad accrescere, per quelle vie, la popolarità della propria immagine.
Le conseguenze delle modalità di comunicazione fanno sì che questa non può essere appannaggio soltanto di pochi – capi degli uffici e loro delegati – ma dev’essere una consapevolezza (e una competenza) “diffusa” ad ogni livello, pur se, anche in ragione dell’esperienza professionale di chi scrive, appresso si parlerà soprattutto dei doveri e degli errori dei pubblici ministeri, i magistrati più esposti a critiche per le modalità comunicative di cui sono spesso protagonisti.
Sarà utile passare in rassegna le più diffuse criticità del modo di comunicare di molti magistrati e le accuse che conseguentemente piovono addosso all’ordine giudiziario. Bisogna precisare, però, che non è accettabile alcuna generalizzazione di vizi e di certe pessime abitudini di alcuni magistrati, anche perché essi non sono certo gli unici protagonisti di una deriva insopportabile che ormai si manifesta sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione: intendo riferirmi, anche in questo caso evitando rischi di ingiuste generalizzazioni, a certi atteggiamenti che sono propri di forze di polizia giudiziaria, di avvocati, politici e perfino, se non soprattutto, di giornalisti.
Il tema in questione va comunque esaminato con freddezza e ragione partendo da una affermazione netta ed inequivoca: l’informazione sulla giustizia è certamente necessaria, rivestendo anzi la dimensione di un dovere da parte di chi deve diffonderla e di un diritto da parte di chi ne è destinatario.
1. Si parla per rafforzare il peso dell’accusa?
Una delle accuse, spesso strumentali, rivolte ai magistrati è quella secondo cui – specialmente se pubblici ministeri – essi si servirebbero dei media per rafforzare il peso dell’accusa in vista del processo
Personalmente, pur dando per scontati vizi e pessime abitudini di cui si parlerà, non credo affatto che sia diffusa tra i pubblici ministeri la convinzione che, incrementando il rilievo mediatico delle proprie inchieste, sia possibile far crescere le probabilità di ottenere la condanna degli imputati, specie in processi difficili.
Se qualche pubblico ministero la pensasse in questo modo, il che non può essere in assoluto escluso, egli non meriterebbe stima e fiducia, ma solo di essere additato come l’opposto del modello di pubblico ministero che il nostro sistema prevede. Sempre che non violi norme disciplinari o penali: in tal caso meriterebbe anche severe condanne.
Comunque, non credo affatto che il possibile protagonismo di certi pubblici ministeri possa produrre conseguenze sulle decisioni dei Tribunali, pur se non possono non essere stigmatizzate dichiarazioni di alcuni giudici che, dopo la lettura del dispositivo, hanno sia pur sommariamente anticipato la motivazione di una sentenza. In generale, va detto che i giudici sono piuttosto le vittime potenziali del clamore mediatico. Basti pensare al caso di un’assoluzione che faccia seguito ad una ormai diffusa convinzione di colpevolezza degli imputati: il giudice diventa facilmente bersaglio di dure accuse, tra cui quella di non avere voluto affermare la verità a causa di condizionamenti o di mancanza di coraggio o per timore di ripercussioni sulla propria carriera.
Ecco perché credo che il “giusto processo”, specie in casi eclatanti, sarebbe tale anche grazie a notizie giuste e vere, contenenti esclusivamente riferimenti ai fatti che ne sono oggetto.
2. I magistrati parlano per rafforzare la propria immagine
La tendenza al protagonismo individuale è, in effetti, un problema reale connesso alla convinzione di alcuni pubblici ministeri di potersi proporre al Paese, attraverso la diffusione mediatica di notizie sulle proprie indagini, spesso enfatizzate, come eroi solitari, unici interessati alle verità che i poteri forti intendono occultare.
Sono preferibili, invece, quei magistrati che non cercano consenso (specie nelle piazze gremite) e che lavorano con riservatezza e determinazione: il modello ideale è stato, e rimane, Francesco Saverio Borrelli il quale ripeteva che la solitudine è lo stato ordinario del nostro lavoro. Il nostro dovere è quello di indagare con determinazione, senza fermarci dinanzi ad ostacoli di qualsiasi natura, al solo fine di provare la verità dei fatti e la responsabilità di chi ne è autore.
3. L’informazione necessaria non è quella delle conferenze stampa teatrali e dei comunicati stampa per proclami
Tuttavia l’informazione serve ai cittadini, ma va data con misura e quando lo sviluppo delle indagini lo consente. Cerco di spiegarlo con esempi concreti.
Partiamo, intanto, dal dovere deontologico che esiste per tutti i magistrati di non parlare dei processi in corso e da quello dei dirigenti di assicurare una corretta informazione per fatti di pubblico rilievo rispettando i doveri di verità e sobrietà informativa, specie quanto i fatti sono oggetto di indagine e non ancora di una sentenza, sia pure di primo grado. Per i dirigenti degli Uffici giudiziari, in particolare per i procuratori della Repubblica, esiste anche il dovere di intervenire per correggere le fake news: serve farlo con misura e precisione per evitarne l’enfatizzazione, così come per far fronte al rischio di «pregiudizio alle indagini, ai diritti delle persone coinvolte, all’immagine di imparzialità e correttezza del singolo magistrato, dell’ufficio giudiziario e, nei casi più gravi della stessa funzione giudiziaria»[2].
Quanto alle conferenze stampa, mi permetto subito un riferimento personale: per il periodo in cui ho diretto la Procura della Repubblica di Torino, cioè dalla fine del mese di giugno del 2014, ne ho tenute solo tre: la prima per denunciare pubblicamente, insieme agli avvocati, il grave deficit di personale amministrativo dell’Ufficio; la seconda per illustrare i risultati ostensibili delle indagini sui gravi fatti verificatisi in Torino, in Piazza San Carlo, il 3 giugno 2017 (che avevano scosso l’intera città) e l’ultima per presentare pubblicamente le direttive emesse il 9 luglio 2018 in tema di priorità da accordare alla trattazione dei reati connotati da odio razziale ed al fine di velocizzare le procedure relative ai ricorsi avverso il rigetto delle richieste di protezione internazionale (argomenti, cioè, che richiamavano attualità e diritti fondamentali delle persone).
Non è a mio avviso apprezzabile, invece, la pratica delle conferenze stampa che vedono appartenenti alle forze di polizia schierati in divisa al fianco dei magistrati o dietro di loro: l’ho fatto una sola volta in oltre 40 anni e me ne sono presto pentito. Preferisco comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate. Come avviene a Torino, i pubblici ministeri, anche per dare ulteriore concretezza al principio della direzione della Polizia giudiziaria che la Costituzione ed il codice di rito loro attribuiscono, dovrebbero sempre ricevere preventivamente dai vertici locali dei presidi di Polizia giudiziaria operanti nel Circondario o, a seconda delle competenza, nel Distretto, i comunicati stampa che essi intendono diffondere in ordine a rilevanti indagini effettuate e, in caso di necessità, sottoporli alle valutazioni del procuratore. Tale prassi è utile anche per pervenire a contenuti, modalità e tempi della diffusione delle notizie di interesse pubblico improntati anche al rispetto dei diritti e delle garanzie spettanti agli indagati per qualsiasi reato.
In sostanza, vanno evitati eccessi comunicativi della Polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie – con o senza tweet – che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni. Queste, infatti, non si esauriscono nel momento dell’arresto di un ricercato o dell’avvenuta effettuazione di controlli e perquisizioni: talvolta, ad es., l’arrestato può chiedere di essere interrogato ed occorre che il pubblico ministero vi provveda subito se l’atto si presenta utile. Altre volte il materiale sequestrato può determinare ulteriori urgenti attività. E gli esempi potrebbero continuare. È importante, dunque, che pubblico ministero, Polizia giudiziaria e vertici delle strutture operanti condividano la cultura della informazione appropriata per contenuto e tempistica, che può persino essere frutto di oculata elaborazione di strategie investigative, quando, ad es., si diffonde ad hoc una specifica notizia perché ciò può determinare utili ed importanti sviluppi.
Il più efficace esempio di tale cultura è stato da me vissuto il 4 aprile 1981, data dell’arresto a Milano di Mario Moretti ed Enrico Fenzi, vertici delle Brigate Rosse. L’arresto era ovviamente clamoroso, anzi storico e, come sempre in questi casi, gli organi di polizia avevano il comprensibile desiderio di convocare conferenze stampa o diramare comunicati. D’altro canto, non potevo permetterlo finché non fossi stato certo che la divulgazione della notizia non avrebbe danneggiato possibili sviluppi investigativi. Ma arrivò la risolutiva telefonata del Ministro dell’interno Virginio Rognoni che mi chiamò personalmente: ero un giovane pubblico ministero di trentadue anni e mi disse: «Lei sa quanto per noi sia importante l’arresto di Moretti e quanto lo sia darne la notizia. Però prima di ogni altra esigenza vengono quelle dell’autorità giudiziaria. Lei faccia tutto quello che ritiene necessario, però le rivolgo una preghiera: quando avrà finito, mi chiami personalmente per dirmi che posso dare la notizia alla stampa. Vorrei ricevere questo nulla osta direttamente dalla sua voce, non da altri». Lo ringraziai. Lavorammo intensamente per ore: interrogammo Moretti e Fenzi e studiammo poi le poche carte che avevano addosso, dopodiché telefonai a Rognoni. Il ministro mi ringraziò e diffuse la notizia. Questo era Virginio Rognoni, un ministro di esemplare correttezza e cultura, pur se bisogna ammettere che nel 1981 non esistevano cellulari, sms e tweet.
Quanto ai comunicati ed alle conferenze stampa, è però inaccettabile la prassi di quei pubblici ministeri che, presentando pubblicamente le proprie indagini, usano lanciare veri e propri proclami del tipo «si tratta della più importante indagine antimafia del secolo» o «finalmente abbiamo scoperto la mafia al Nord», così proponendosi come icone – categoria purtroppo in espansione – per le piazze plaudenti.
Recentemente, sono stati anche diffusi comunicati in forma non condivisibile: troppo lunghi nel testo e perfino contenenti, da un lato, brani oggetto di conversazioni registrate durante le indagini preliminari, dall’altro spunti critici verso giudici o avvocati, oppure affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pubblici ministeri esposte nei comunicati rappresentino la verità inconfutabile, definitivamente accertata, insomma un anticipo di sentenza. Niente di più lontano, insomma, dal senso del limite e dall’etica del dubbio cui devono conformarsi le parole di un pubblico ministero prima della decisione del giudice.
I comunicati stampa, invece, oltre a dover essere ovviamente chiari, sintetici ed efficaci, non possono che riguardare informazioni di effettivo interesse pubblico e contenere brevi riferimenti alla natura dei reati per cui si procede, alla provvisorietà delle valutazioni del giudice (non del pubblico ministero) sulle responsabilità delle persone sottoposte a misura cautelare, evitando citazione di nomi e diffusione di fotografie o comunicazione di dati sensibili almeno ove tali nomi ed immagini non siano noti per altri fatti oggettivi (ad es., arresti in flagranza o diffusione di notizie, come è avvenuto, da parte degli stessi indagati).
Particolare attenzione va riservata alla necessità di evitare in qualsiasi modo che notizie segrete o comunque riservate possano essere anche indirettamente propalate o intuite: i danni alle indagini sono in questi casi evidenti e finiscono con il legittimare le accuse sistematicamente rivolte ai magistrati – in quanto detentori delle notizie – di determinarne le cd. “fughe”.
4. No all’“espansione” a mezzo stampa del ruolo dei magistrati
Vanno anche criticate altre improponibili modalità di comunicazione attuate e perseguite da quanti, anche in un passato non troppo lontano che purtroppo non appare ancora abbandonato, hanno affermato, in una logica di autolegittimazione preventiva e di ricerca del consenso delle folle, che il proprio lavoro investigativo, pure in caso di eventuale insuccesso processuale, sarebbe comunque servito a ricostruire la storia del Paese o a moralizzarlo: con ciò dimenticando che l’oggetto dei processi penali non può mai essere una pura valutazione storica dell’epoca in cui i fatti si collocano o un mero giudizio etico, politico o di opportunità di certi comportamenti, mentre lo è solo l’accusa di avere violato specifiche norme penali
Va cioè respinta l’immagine del magistrato unico (o quasi) depositario della morale collettiva. Il compito dei magistrati non è quello di formulare ipotesi affascinanti, ma di mettere a nudo la verità con prove inconfutabili. E questo comporta un limite: se quelle prove non si raggiungono, il magistrato, pur se convinto del fondamento della ipotesi accusatoria da cui si è mosso, ha esaurito il suo ruolo, deve considerare i limiti della giustizia umana e se è un pubblico ministero deve saper ragionare come un giudice e comunque rimettersi alla decisione finale dei Tribunali e delle Corti rispettandola fino in fondo. Altrimenti, finirà con il favorire proprio quei poteri criminali che si propone di contrastare. Diversamente, l’aspirante moralizzatore diventerà forse una icona per una parte del Paese ma certamente l’esercizio del potere giudiziario rischierà di apparire arbitrario, sganciato da regole certe, incomprensibile. Ed il pubblico ministero o il giudice, approdato ad un ruolo che non gli appartiene, finirà con il dare la sensazione di essere stato condizionato da quell’abbraccio della folla che ha cercato o non evitato e, involontariamente, finirà con il favorire con il compromettere l’autorevolezza della giustizia.
Tocca allo storico o alla politica, invece, analizzare le sentenze e gli atti processuali e trarne conclusioni che riguardano le loro competenze ed il loro ruolo. E se da un’indagine o da un processo emergono comportamenti di indagati ed imputati eticamente o deontologicamente riprovevoli, toccherà ad altri valutarli, e se gli imputati sono politici o aspiranti tali, toccherà innanzitutto agli elettori, prima del voto,capirne e conoscerne la natura, poiché anche per i cittadini esiste il dovere della effettiva conoscenza di fatti e persone, specie se per queste ultime è chiamato ad esprimere il voto.
Non potrò dimenticare l’amico e collega fiorentino Gabriele Chelazzi che, dinanzi alla Commissione parlamentare Antimafia nel 2002, espose la sua tesi secondo cui non si può chiedere al giudice di andare oltre una certa soglia, avendo egli l’obbligo di provare la responsabilità degli autori dei reati con riscontri oggettivi.
E – concludeva Chelazzi – le connessioni e le conseguenze sulla società di fatti di grave entità, come ad es. le stragi, non possono che essere accertate da una Commissione parlamentare, competente per approfondimenti sotto altri profili.
5. L’esposizione mediatica, frutto della degenerazione informativa, può determinare febbre “giustizialista”?
Probabilmente i comportamenti sin qui descritti sono conseguenti alla progressiva degenerazione dei rapporti tra giustizia e informazione manifestatasi negli ultimi venticinque anni, soprattutto a seguito del rilievo che hanno assunto indagini e processi penali nella vita politica italiana.
Di qui il moltiplicarsi di non pochi casi di eccesso di protagonismo da parte di alcuni pubblici ministeri, sia pure, come si è detto, senza ricadute negative sulla serenità dei giudici.
Minoranze di colleghi, però, indipendentemente dalla loro anzianità, manifestano talvolta eccessiva attenzione al rilievo mediatico del proprio lavoro, il che è anche effetto di involuzioni e cambiamenti nel modo di fare giornalismo: la pubblicazione in rilievo della notizia di un’importante indagine sui giornali rischia in tal modo di diventare per molti più importante della futura sentenza, di cui qualche giudice – come prima si è detto – ha talvolta persino anticipato la motivazione.
Da tutto ciò deriva un’altra accusa che viene rivolta ai magistrati: l’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa rischia di favorire il diffondersi di una “febbre giustizialista” nell’opinione pubblica, anche al di là degli effetti reali sullo svolgimento dei processi.
Ad esempio, si assiste spesso a processi mediatici ed alla costruzione di verità alternative rispetto a quelle accertate o da accertare nei dibattimenti: in particolare, trovano ampio ed immediato spazio le “verità” che si fondano su misteri senza fini, nell’ambito dei quali tutto si lega: qualcuno ha recentemente affermato che Cia, Kgb, Mossad, Servizi segreti italiani, Massoneria, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra, settori deviati della Polizia e dei Carabinieri furono gli organizzatori del sequestro di Moro e della strage della sua scorta cui aveva materialmente partecipato almeno un rappresentante di ciascuna di tali “entità”. Questa tesi – che ha spopolato e passa ormai per verità finalmente accertata – è maturata nella Commissione parlamentare Stragi e Terrorismo in cui operano, come “consulenti”, alcuni magistrati. E cosa dire del nesso che qualcuno ha affermato esistere tra la caduta del muro di Berlino, la sua caduta, lo stesso sequestro Moro, la strage di Falcone, Borsellino e delle loro scorte? E le teorie su Piazza Fontana e sull’11 settembre? Mi fermo qui. Ma tant’è: basta il titolo ad effetto per rendere credibili costruzioni alternative della verità e processi mediatici. Ed è grave, a mio avviso, che certe teorie trovino spazio anche in ambiti istituzionali: basti pensare anche a quelle prive di qualsiasi fondamento che l’Ordine dei giornalisti di Milano ha messo in campo a proposito dell’omicidio Tobagi, con l’avallo di un magistrato intervenuto in occasione della loro pubblica presentazione, nonostante molte sentenze definitive le avessero già del tutto smentite.
Anche in relazione alla logica sottesa alla esaltazione di certi presunti misteri, in sostanza, è possibile individuare contributi non secondari di magistrati che spesso richiamano responsabilità di imprecisate entità esterne e dei soliti “poteri forti”, senza nome e senza volto, così fungendo da interlocutori del peggiore giornalismo, quello lontano anni luce dal vero giornalismo d’inchiesta di cui ovunque vi è bisogno.
Vale anche per i magistrati, dunque, il motto che i giornalisti inglesi usano per stigmatizzare quei loro colleghi che rifiutano di accertare/accettare il reale andamento dei fatti pur di non indebolire le loro fantasiose ipotesi: «Non permettere ai fatti di rovinare una bella storia!».
6. Magistrati, tra i “nuovi mostri dei talk-show”[3].
Le interviste - spettacolo
La presenza eccessiva di alcuni magistrati o ex magistrati nei talk show televisivi, che ormai ammorbano le serate degli italiani, costituisce una ulteriore ragione di perdita di credibilità dell’ordine giudiziario: sembra impossibile che tanti colleghi non si rendano conto del fatto che l’inflazione di interviste e dichiarazioni, specie se riferibili ad inchieste in corso, costituisce un fattore delegittimante della nostra funzione, così come quelle che anche su altri temi – dalle riforme della giustizia alle seriali accuse di clientelismo rivolte alle componenti dell’Anm – vengono interrotte solo dagli applausi “ordinati” a comando negli studi televisivi.
Si pensi alle numerose interviste di pubblici ministeri che hanno criticato la riforma delle intercettazioni telefoniche trascurando almeno due decenni di dibattito attorno alla condivisa necessità di evitare la indebita diffusione di conversazioni non pertinenti alle indagini. Affermazioni immotivate come quella secondo cui, a seguito della riforma – Orlando, sarebbe la Polizia giudiziaria a decidere cosa rendere noto e cosa segretare, oltre a dimostrare una non corretta visione del ruolo di direzione della Polizia giudiziaria che Costituzione e codice di rito affidano al pubblico ministero[4], sono servite a far riemergere la diffusa convinzione secondo cui i giornali hanno diritto a pubblicare subito tutto ciò che viene registrato e che ritengano rilevante, come se le intercettazioni delle comunicazioni fossero a ciò finalizzate, anziché alla ricerca delle prove per i reati per cui si procede.
Si sono anche visti magistrati sottoposti a protezione per i rischi connessi alla loro attività professionale rilasciare interviste in uno spazio aperto, circondati dai poliziotti di scorta che guardavano in alto, verso i muri del vicino Palazzo di giustizia, evidentemente alla ricerca di cecchini. Possiamo permetterci rappresentazioni simil-teatrali quando parliamo ai cittadini di temi delicati e importanti? E se rischi esistono, non è meglio rilasciare interviste nel proprio ufficio anziché all’aperto, mentre si è circondati dagli uomini di scorta?
Connesso al tema delle interviste-spettacolo è quello della costruzione e del mantenimento di canali informativi privilegiati tra magistrati ed esponenti del mondo dell’informazione, che – come ammonisce il Csm – producono discriminazione tra giornalisti e testate. Ricordo quando, da procuratore aggiunto a Milano, ebbi a ricevere nel mio ufficio un giovane giornalista che, presentandosi come nuovo addetto della sua importante testata alle cronache giudiziarie milanesi, mi rassicurò sul fatto che avrebbe mantenuto segreta la fonte di ogni notizia riservata che gli avrei passato. Mentre lo sbattevo fuori dall’ufficio, pensai che qualcuno doveva avergli detto che così si fa con i magistrati e che i magistrati lo accettano e magari lo gradiscono. E non è difficile ipotizzare che, purtroppo, ciò possa effettivamente avvenire fino a determinare l’“abbandono” di uno dei più importanti obiettivi che le corrette modalità di comunicazione impongono, cioè quello della massima spersonalizzazione delle notizie: ciò significa, ad es., che si può ben dare informazione – nei limiti sin qui precisati – circa un’indagine di pubblico interesse, ma questa deve essere attribuita all’Ufficio e non al singolo pubblico ministero che l’ha condotta.
7. Gli attacchi alla politica ingiustificatamente generalizzati
In un suo famoso pezzo dell’88, Political world, il premio Nobel Bob Dylan sostiene – in sintesi – che la politica vuole la sconfitta degli altri e l’impunità per sé. Non la penso affatto così e mi spiace dissentire per una volta dalla mia stella polare, il menestrello di Duluth, che spero non lo venga a sapere. Dissento dunque anche dai tanti colleghi che la pensano allo stesso modo e che lo ripetono in ogni tipo di pubblica esternazione. Io penso che la politica meriti rispetto e costituisca un’alta funzione, sia pur piena di criticità e (come anche la magistratura) frequentemente “praticata” da persone che non meritano la fiducia degli elettori.
Dunque, quando al di fuori degli atti giudiziari parliamo di politici corrotti o collusi con altri poteri criminali, possiamo farlo a seguito di sentenze di condanna o di episodi inconfutabili e ormai pubblici (si pensi all’arresto in flagranza di un politico che riceva una mazzetta dal corruttore o ad una conversazione registrata ed ormai pubblica perché depositata in un processo). Anche in questo caso, però, bisogna farlo con sobrietà e misura, evitando improprie generalizzazioni di sapore qualunquistico (del tipo «i politici sono corrotti»), così evitando di offrire spunti per affermazioni altrettanto generalizzanti, quelle ben note e frequenti secondo cui l’esercizio obbligatorio dell’azione penale sarebbe in realtà conseguenza degli orientamenti politici dei magistrati. In un caso e nell’altro sono la democrazia e le sue istituzioni che perdono credibilità.
Si è già detto che protagonisti necessari della comunicazione relativa alla giustizia non sono solo i magistrati ma anche la Polizia giudiziaria (se ne è già parlato nel par. 3), gli avvocati, i politici ed i giornalisti.
Quest’intervento non è specificatamente dedicato anche a queste categorie, ma – avviandomi alla conclusione – qualche osservazione in merito è necessaria.
8. Avvocati e informazione
Ricordo quando Virginio Rognoni (sì, ancora lui), da ex vice presidente del Csm, ebbe a definire virtuoso il protagonismo dei magistrati e degli avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità.
Ma, così come è stato sin qui fatto per le criticità comunicative dei magistrati, non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano.
Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che – maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati – diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di giustizia e della sentenza cui è finalizzato. Senonché, come ha scritto Luigi Ferrarella[5], «su questo piano nessuno si salva, perché nel processo mediatico vince comunque il più scorretto, a prescindere dal lavoro che fa. Vince il magistrato più ambizioso o più vanitoso, come viene lamentato spesso; ma vince anche l'avvocato più aggressivo e scorretto; vince l’imputato (se mi si concede l’errore) più "eccellente", vince il poliziotto-carabiniere-finanziere meglio introdotto nel circuito mediatico ai fini della sua progressione in carriera o della sua logica di cordata interna; e vince il giornalista più spregiudicato. Con un risultato micidiale anche sul modo in cui in una collettività democratica viene amministrata la giustizia».
Ed a ciò deve anche aggiungersi che il consenso popolare viene televisivamente ricercato da qualche avvocato anche quale mezzo di proliferazione della propria clientela
Inesistente, o comunque rara, è peraltro qualsiasi forma di autocritica della categoria anche rispetto a quegli avvocati che, subito dopo la pronuncia di una sentenza di condanna dei loro assistiti, anziché formulare, come è ben possibile, legittime critiche in modo pacato ed eticamente consentito, si lasciano andare a commenti delegittimanti nei confronti dei giudici che hanno emesso la sentenza.
Senza questo tipo di atteggiamenti i talk-show non avrebbero seguito e le telecamere non avrebbero ragione di popolare le aule di giustizia.
9. I politici che strumentalizzano l’informazione sulla giustizia
Non intendo qui far riferimento alle conosciute modalità di reazione a processi, condanne e assoluzioni da parte di politici a vario titolo incriminati. Il tema mi interessa poco anche perché è ovviamente prevedibile che un imputato, a qualsiasi categoria appartenente, ben difficilmente potrà essere riconoscente nei confronti di quanti lo hanno incriminato e condannato.
Mi interessa invece qualche breve cenno al comportamento di quei politici, con incarichi governativi o meno, che sono ben attenti a sfruttare le nuove modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto: come si dirà appresso, si moltiplicano giornalisti inclini non tanto all’approfondimento della notizia dai politici propalata con insopportabile retorica, ma a determinarne comunque il massimo clamore .
Basti pensare a come, per mero scopo di supporto alle proprie scelte e posizioni, esponenti di rilievo di vari Governi hanno presentato ai cittadini i famosi “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009,o acome sono stati diffusi infondati allarmi sui rischi derivanti per l’Italia dal terrorismo internazionale (notizie riguardanti inesistenti scuole di kamikaze; inesistenti progetti di attentati a seggi elettorali, alla cattedrale di Bologna, alle stazioni metropolitane; o, ancora, la massiccia presenza dell’Isis a Roma, i numeri esagerati di foreign fighters espulsi, la balla del marocchino arrestato in provincia di Milano – e poi scarcerato dai giudici – perché complice dell’attentato al Bardo di Tunisi), così come va ricordata la propalazione di pulsioni xenofobe nei confronti degli immigrati, in particolare di quanti arrivano in Italia sui barconi, tra i quali si dice – contrariamente al vero – vi sarebbero terroristi ed aspiranti kamikaze.
Insomma la notizia che dovrebbe informare correttamente serve in realtà ad enfatizzare il problema sicurezza, così da allarmare i cittadini ed insieme rassicurarli grazie a continui riferimenti alla capacità di chi governa di saperli tutelare attraverso apparati di intelligence e leggi sapienti. Zygmunt Bauman ci aveva già avvertito in ordine al senso di questa strategia politica che serve a far passare in second’ordine – rispetto all’abusato tema della sicurezza – problemi sociali ed economici, doveri costituzionali ed incapacità di guida politica del Paese. E per tutto questo, ora, basta un tweet o un sms di 160 caratteri: forse lo stesso Bauman non l’aveva immaginato!
10. I giornalisti che producono l’informazione sulla giustizia
I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria, la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili.
Cito un altro episodio personalmente vissuto più di vent’anni fa allorché effettuai un lungo viaggio di studio negli Stati Uniti, trovandomi a discutere, a Chicago, con il locale prosecutor federale, in ordine al livello di indipendenza possibile dei procuratori designati dal Presidente degli Stati Uniti (nel sistema di giustizia federale) o eletti (nel sistema di giustizia statale). Gli chiedevo se i pubblici ministeri non fossero condizionati dalla fonte politica della loro nomina. La risposta fu «Caro collega, qui c’è la stampa!». Non disse «... la stampa libera». Alludeva al ruolo di cane da guardia del giornalismo d’inchiesta, forse troppo citato, ma che, come è noto, ha consentito – negli Stati Uniti – di far venire alla luce scandali di portata storica.
Il giornalismo d’inchiesta, in sostanza, negli Stati Uniti e dovunque, grazie ad approfondimenti seri, documentati e soprattutto liberi, dovrebbe ricercare la verità dei fatti, come spetta al pubblico ministero nelle sue indagini giudiziarie.
E’ così anche in Italia? Purtroppo non è sempre così. Ho prima citato, a proposito dei politici, i vizi originati della moderna informazione, in modo particolare di quella ormai dominante (o quasi) sul web, che impone assoluta rapidità di diffusione delle notizie. Ma se ciò avviene senza approfondimenti e senza le dovute precisazioni, non è affatto una buona informazione, specie ove si pensi che, nei frequenti casi di diffusione via web di informazioni imprecise e superficiali, è molto difficile che l’indomani, i quotidiani titolari dei siti web possano correggere ed ammettere l’errore.
Si sono però diffuse altre modalità poco corrette di interlocuzione ed informazione nel settore della giustizia (al quale mi limito): una parola di saluto e commento informale di un magistrato diventa intervista mai rilasciata o autorizzata, titoli in rilievo e virgolettati lasciano pensare a contenuti degli articoli ad essi conformi ed a dichiarazioni rilasciate da persona intervistata, mentre quasi mai quelle parole sono state pronunciate da alcuno e spesso i contenuti degli articoli ne smentiscono i titoli.
Parlandone con qualche autorevole giornalista amico, mi è stato risposto che quella è ormai la moderna tecnica utilizzata dai giornali per attirare l’attenzione del lettore.
E c’è molto altro: presenza di telecamere non autorizzate nei palazzi di giustizia, i cui utilizzatori sono pronti a riprendere persone che si recano negli uffici dei magistrati per essere esaminati o interrogati, con conseguente violazione della privacy; giornalisti che, come si è detto, pretendono di dar vita a rapporti confidenziali con i magistrati per avere accesso prioritario a notizie riservate o che nelle interviste pongono domande dai toni e contenuti provocatori per generare imbarazzo negli intervistati e perché ne resti traccia nei servizi televisivi; articoli che tendono ad assecondare le peggiori pulsioni populiste dei lettori etc.. Sono questi i principali vizi del giornalismo moderno che si occupa della giustizia, fermo restando che non intendo spendere una sola parola sui professionisti disonesti. Ce ne sono infatti anche tra magistrati ed avvocati e non vi è necessità di alcun commento in proposito. Onore, invece, ai tanti giornalisti che fanno il loro dovere con assoluta professionalità e correttezza, senza sconti per alcuno. Ed onore a coloro che, in ogni parte del mondo, sono morti o sono stati perseguitati nell’adempimento del loro dovere.
Il mio sogno è di vedere il nostro mondo della giustizia popolato da giornalisti “fact checkers”che peraltro, anziché cercare documenti in modo scorretto, provvedano ad eventualmente richiederli con formali istanze (come da prassi introdotta a Torino) ai sensi dell’articolo 116 cpp. Meglio ancora sarebbe, come da anni proposto da Luigi Ferrarella, disciplinare legislativamente il loro accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti.
11. La necessità di una riflessione comune su informazione e giustizia tra magistrati, avvocati e giornalisti
Sono da tempo intervenuti codici deontologici per magistrati, avvocati e giornalisti, cioè per tre delle principali categorie protagoniste del rapporto tra comunicazione e giustizia: tali codici sono sempre più mirati a disciplinare diritti e doveri connessi all’esercizio delle rispettive citate funzioni, ma i vizi sin qui esposti – ed altri ancora – permangono ed anzi rischiano di amplificarsi.
Non occorre – allora – invocare nuove regole deontologiche e sanzioni, quanto un confronto diffuso, serrato e sincero tra le categorie interessate a dar luogo a prassi corrette. Citando il mio ufficio per l’ultima volta, devo dire che sono stati organizzati a Torino negli ultimi anni vari incontri con i giornalisti ed un’assemblea anche con gli avvocati per discutere dell’irrinunciabile importanza della informazione sulla giustizia e dei connessi diritti – doveri, di cui, però, vanno anche conosciuti i confini, diversi a seconda delle fasi del processo e comunque giustamente condizionati dal rispetto delle regole poste a tutela della privacy delle persone.
L’auspicio è che tutti i magistrati, qualunque sia la funzione da loro svolta (ma in particolare i pubblici ministeri, categoria cui ha appartenuto chi scrive per tutta la sua carriera), siano ben consapevoli che la propria autorevolezza e credibilità non dipendono dallo spazio e dal rilievo eventualmente riservati dalla informazione alla loro attività professionale, ai loro volti ed ai loro nomi, ma dai risultati attestati nelle sentenze definitive. È anche questo che dà corpo alla fiducia nella Giustizia.
Il magistrato, dunque, sia protagonista virtuoso di corretta comunicazione e di ogni utile interlocuzione nel dibattito sui temi della giustizia! Ma sia capace di esserlo con misura, anche in questo difficile contesto storico in cui qualsiasi intervento tecnico, persino in ordine ad un disegno di legge o in tema di diritti fondamentali, genera in automatico sempre la stessa risposta: «il magistrato taccia o scenda in politica», come se a tale tipo di interlocuzione fossero abilitati solo i politici! Deve essere ben chiaro, allora, che dipenderà soprattutto da noi se i cittadini comprenderanno quali sono le ragioni per cui nessuno può farci tacere.
[1] Documento di presentazione di un Corso di studi tenutosi nel giugno 2017 presso la Scuola superiore della magistratura di Scandicci.
[2] Citata delibera del CSM dell’11 luglio 2028.
[3] Si tratta di espressione che costituisce il titolo di un articolo, per altro non certo riferibile solo a magistrati, a firma di Andrea Miniz, pubblicato su Il Foglio dell’1.12.2018.
[4] Solo un pubblico ministero non del tutto capace di dirigere la Polizia giudiziaria, infatti, può lasciarsi da questa dettare o imporre (anche fraudolentemente) le scelte di pubblicazione ed utilizzo delle conversazioni intercettate.
[5] L. Ferrarella, Proposta minoritaria di ecologia giornalistica, in I problemi dell’informazione, n. 4/2066, www.rivisteweb.it/isni/10642.