Farsi capire da Adam Henry e da tutti gli altri
Una comunicazione trasparente è fondamentale per un corretto esercizio della giurisdizione, dare conto del proprio agire e del servizio reso alla generalità è questione che attiene la sua stessa legittimazione. L’informazione sull’attività degli uffici deve passare attraverso servizi dedicati, Bilanci sociali e una concezione più moderna delle relazioni dell’Ispettorato del ministero. L’informazione sui procedimenti, specie quelli di rilevante interesse per la generalità, deve trovare un punto di equilibrio tra le esigenze proprie del processo, il diritto di cronaca giudiziaria, la tutela della dignità delle persone e quella della riservatezza. Serve perciò una comunicazione gestita dagli uffici, costante, chiara, senza discriminazioni tra giornalisti. È necessario valorizzare, non mortificare l’intermediazione professionale degli operatori dell’informazione e rivedere il sistema normativo dei divieti e delle sanzioni. Condizione presupposta di una comunicazione corretta è la chiarezza, comprensibilità e appropriatezza dei provvedimenti e degli atti da comunicare. Un tentativo di conciliare le diverse esigenze nella nuova disciplina delle intercettazioni.
Nella sequenza centrale del film The children act – Il Verdetto, Emma Thompson, nel pronunciare la decisione con la quale autorizza i medici a sottoporre ad intervento chirurgico il quasi diciottenne Adam Henry, che quell’intervento vorrebbe rifiutare per coerenza con la sua convinzione religiosa e per fedeltà ai valori che fondano i suoi legami familiari, dà conto delle ragioni della sua decisione e dei passaggi che hanno portato alla sua formazione e quando afferma che il suo dovere di giudice è quello di salvaguardare la vita di Henry prima ancora che la sua dignità la decisione viene immediatamente percepita da tutti non solo come “conforme a diritto” ma anche come “giusta”. Il medesimo passaggio nel libro da cui il film è tratto occupa quasi cinque pagine e contiene la descrizione particolareggiata di come la giudice Fiona Maye ricostruisce in Aula, al momento della decisione, i termini della questione, la posizione delle parti, i precedenti dei quali deve tener conto, le ragioni giuridiche, ma anche il sistema di valori fondamentali, che sostengono le sue conclusioni, insomma una completa motivazione contestuale orale, che non serve a dare maggiore forza al dispositivo, che è un ordine semplice da eseguire, quanto a rendere la sentenza comprensibile e perciò più facile da accettare. Ha ragione Paola Perrone che su questa Rivista on line[1] ha sottolineato come, dal punto di vista di un giurista, il punto essenziale che il film, e prima ancora e meglio il romanzo da cui è tratto, affronta, è quello dei limiti tra la legittimazione che viene dalle regole e il bisogno di chi giudica di conoscere le persone la cui vita, in qualche modo, si ha momentaneamente nelle mani, ma qualche interessante spunto di riflessione lo possiamo trarre anche sul terreno della comunicazione dell’attività giurisdizionale, che è meno lontano dal primo di quanto si possa sembrare. Un giudice che prima di leggere il dispositivo concludesse, come il giudice Maye dopo l’articolata motivazione contestuale dicendo «è stata una questione non facile da risolvere. Ho tenuto nel debito conto l’età di A., il rispetto della sua religione e la dignità individuale insita nel diritto di rifiutare le cure mediche. Ma è mia opinione che la vita di A sia più preziosa della sua dignità. Pertanto, in contrasto con il volere di A e dei suoi genitori, cosi dispongo: …» sarebbe considerato qui da noi quantomeno stravagante e certamente una forma così diretta di chiarimento delle ragioni della decisione sarebbe impossibile in un processo penale con molti imputati, con imputazioni complesse, con pluralità di vicende, quei processi nei quali il solo arido dispositivo è lungo parecchie pagine. Non possiamo però liquidare la stravaganza del giudice Maye (sempre poi che Mc Ewan, notoriamente scrupolosissimo nella ricostruzione dei contesti professionali, ci abbia reso una rappresentazione realistica del giudizio) facendoci forti della diversità di contesto, della diversità di sistemi processuali, del diverso valore della motivazione scritta, delle diverse tradizioni culturali.
La comunicazione della attività e delle decisioni è un gesto di trasparenza e la trasparenza, quando riguarda il potere, è un esercizio di democrazia che non può che giovare alla società.
Se riconosciamo che il dare conto in modo diretto delle ragioni della giurisdizione e rendere trasparente il suo operato, non solo è utile, ma è doveroso, dobbiamo vedere come raggiungere questo obbiettivo nell’ambito del nostro sistema e delle nostre regole.
Sappiamo che la riflessione su questi temi è ormai più che matura, non parte da ora e non riguarda solo il nostro sistema. Nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2003[2] c’è già quasi tutto. Destinatari di quella Raccomandazione sono sia le autorità giudiziarie che gli attori della comunicazione ed il principio fondante è il primo tra quelli elencati: «Il pubblico deve poter essere informato sull’attività delle autorità giudiziarie e di polizia attraverso i mezzi di comunicazione. Pertanto, i giornalisti devono avere la possibilità di riferire e commentare liberamente il funzionamento del sistema giudiziario penale, con le sole limitazioni previste ai sensi dei principi che seguono». Le limitazioni attengono alla tutela della privacy (principio 8) alla tutela della serenità del giudizio (principio 10) alla tutela dell’identità dei testimoni (principio 16) e ad una sorta di diritto all’oblio quando la condanna sia stata definitivamente scontata (principio 18), ma in capo all’autorità pubblica vengono posti dei veri e propri doveri: di accuratezza nel fornire le informazioni (principio 3) di non discriminazione tra i giornalisti all’accesso alle informazioni (principi 4 e 5 ), di periodica e regolare informazione sui processi di particolare rilevanza (principio 6). Il taglio interessante della Raccomandazione sta proprio in questo, che non assume la prospettiva del segreto per definire quello che è lecito e quello che non lo è, ma assume quella della “comunicazione dovuta”, per definirne le modalità. Per questo non deve sorprendere se tra i principi non troviamo riferimenti ai divieti di comunicazione delle notizie segrete o di quelle che danneggiano le indagini. Anche il nostro approccio dovrebbe essere quello di regolamentare il lecito e di ridefinirne i confini con chiarezza, consentendone con coraggio la massima espansione compatibile con l’esigenza primaria del processo, che è quella dell’accertamento penale delle responsabilità.
Su quello di cui non si può parlare per esigenze investigative o perché sull’interesse alla informazione prevalgono altri diritti fondamentali costituzionalmente protetti occorre, come direbbe Wittgenstein, tacere, su tutto il resto, quando sia di pubblico interesse, bisogna dare una informazione corretta e senza discriminazioni tra giornalisti e testate.
Le «linee guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale» approvate dal Consiglio superiore della magistratura il 18 luglio del 2018, pur non prendendo posizione quanto alla necessità di ridefinire ed allargare i confini delle notizie comunicabili (né questo rientrava nella logica del documento) raccolgono e traducono in utili indicazioni le sollecitazioni e i contributi maturati in sede europea, nell’ambito della Scuola superiore ella magistratura, nella discussione aperta tra i colleghi più direttamente interessati e più sensibili a questi temi. La parte iniziale della delibera, ai punti 1 e 2, dà ampiamente conto del background documentale al quale il Consiglio ha fatto riferimento nell’elaborare le linee guida, non ultimi i lavori del seminario su Giustizia e comunicazione organizzato a Roma nell’ottobre del 2015 dalla Scuola superiore, dal Csm e dall’Ordine dei giornalisti a partire dal quale è stato promosso il Tavolo di confronto: analisi del sistema giustizia nel mondo dell’informazione, tenutosi al Ministero della giustizia nel maggio del 2017 cui hanno partecipato giudici e pubblici ministeri, rappresentanti della Scuola, del Ministero e del Csm, che è poi confluito nel corso della Scuola superiore tenuto nel giugno del 2017 sul Sistema della giustizia nel mondo dell’informazione, che in qualche modo intendeva trarre le fila di questo percorso. Sul tema della “giustizia penale e dell’informazione giudiziaria” il Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Firenze ha condotto una ricerca, coordinata dal prof. Francesco Palazzo, i cui documenti sono stati pubblicati sulla Rivista trimestrale di Diritto penale contemporaneo[3]. La ricerca ha poi visto il suo momento conclusivo nel convegno organizzato dall’Università a Firenze nel dicembre del 2017. Quegli atti costituiscono un riferimento essenziale per qualunque ulteriore elaborazione, poiché colgono tanto i nodi tecnico-giuridici che quelli politico-sociali del problema.
Quando parliamo di comunicazione e chiediamo un cambio di passo nell’approccio dei magistrati parliamo anche della comunicazione istituzionale degli uffici nelle sue varie forme. Già una risoluzione del 2010[4] il Csm coglieva lo stretto nesso tra rafforzamento della democrazia e rapporto trasparente del potere pubblico con la collettività sottolineando la necessità della costituzione presso il maggior numero possibili di uffici giudiziari, almeno presso tutte le corti d’appello, di Uffici rapporti con il pubblico che, attraverso l’attività di accoglienza e orientamento dell’utenza e di supporto alla gestione dei siti web, accorciassero le distanze e superassero le incomprensioni. Sappiamo quanto i problemi organizzativi e la carenza di personale abbiano reso difficile la crescita di queste esperienze anche negli uffici che vi avevano messo impegno. Allo stesso modo abbiamo visto come le medesime ristrettezze organizzative e l’intermittenza con la quale le amministrazioni locali sono state in grado di sostenere, anche economicamente, la predisposizione dei Bilanci sociali degli uffici, abbiano reso tali esercizi disomogenei e discontinui. Dove e quando è stato possibile dare conto in modo organico e completo alla collettività del servizio reso, delle risorse impiegate, di quelle recuperate, delle scelte organizzative fatte e delle loro ricadute sull’efficacia dell’azione pubblica, indubbiamente questo ha giovato (sempre che si sia detta la verità) a recuperare o consolidare un rapporto di fiducia con la società.
Sotto questo punto di vista l’Ispettorato del ministero può svolgere un ruolo essenziale, se vuole. L’ispezione dovrebbe essere infatti l’occasione per una revisione completa dell’organizzazione e dei servizi avvalendosi dell’esperienza e della competenza delle équipes ispettive, la relazione dovrebbe essere costruita proprio sul modello dei bilanci sociali e la pubblicazione della relazione sul sito del Ministero, secondo quanto già disposto dal ministro Orlando, dovrebbe rendere fruibile a tutti il risultato della verifica e comparabili tra loro gli uffici, specie se in condizioni dimensionali e funzionali analoghe. Tra i molti vantaggi questo renderebbe meno vaga la discussione sul rinnovo degli incarichi dirigenziali e sul conferimento di uffici direttivi quando l’aspirante ha già avuto modo di mettersi alla prova in un’altra sede, ma, per stare al tema che qui ci interessa, fornirebbe, utilizzando meglio le risorse disponibili senza assorbirne di nuove, un formidabile strumento di conoscenza e comunicazione del servizio reso dall’amministrazione.
Se si ha fiducia nella trasparenza, infatti, occorre favorirla ed avere il coraggio di praticarla.
Ma quando parliamo di comunicazione parliamo anche dei singoli procedimenti, degli atti, delle indagini, dei provvedimenti e delle sentenze e qui, prima che la pubblicità del dibattimento lasci confluire tutto in un unico bacino, abbiamo due diversi livelli: il primo, quello della comunicazione ai diretti interessati, che è interamente regolato dalle norme di procedura, e conosce regole e sanzioni, il secondo, quello della comunicazione all’esterno, che è privo di regole di condotta in positivo quanto alla comunicazione, ma è presidiato da un sistema ormai inadeguato di divieti: nessuna norma ti dice quello che devi fare ( a differenza di quelle che regolano la comunicazione degli atti alle parti) alcune norme impongono divieti (di comunicazione, di pubblicazione, di esposizione dei contenuti) accompagnate da scarsamente efficaci e comunque assai poco praticate sanzioni. Facendo chiarezza a partire da entrambi i versanti; quello delle azioni in positivo e quello delle condotte vietate, è forse possibile trovare più facilmente il punto di equilibrio tra gli interessi, tutti meritevoli di tutela, che entrano in gioco quando il processo si confronta con la pubblica opinione.
Questo secondo livello passa necessariamente attraverso la intermediazione della comunicazione ed al suo interno il processo mediatico costituisce un sottoinsieme tanto patologico quanto diffuso. Il processo mediatico è l’esasperazione dell’interesse della pubblica opinione al processo, non è l’informazione che parla del processo, ma il processo che viene celebrato direttamente nell’universo parallelo dei media, con regole, rappresentazioni, protagonisti propri e con pene assai più rapide e non meno afflittive di quelle previste dalla giustizia reale, senza appello, cassazione o corte costituzionale. Quel «processo agarantista, dinanzi al quale il cittadino interessato ha, come unica garanzia di difesa, la querela per diffamazione»[5]. Nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 il primo presidente della Corte di cassazione Giovanni Canzio rilevava la problematicità di questo nodo: «L’opinione pubblica esprime spesso sentimenti di avversione per talune decisioni di proscioglimento o anche di condanna, se ritenute miti, pronunciate in casi che hanno formato oggetto di rilievo mediatico. Si scorge una frattura fra gli esiti dell’attività giudiziaria e le aspettative di giustizia, a prescindere da ogni valutazione circa la complessità dei fatti, la validità delle prove, i principi di diritto applicati, le garanzie del processo, la tenuta logica della decisione. Il disorientamento nasce dalla discrasia spazio-temporale fra l’ipotesi di accusa, formulata nelle indagini, il pre-giudizio costruito nel processo mediatico parallelo, che s’instaura immediatamente, e le conclusioni dell’attività giudiziaria, che seguono a distanza di tempo dalle indagini, già di per sé troppo lunghe. In questa contraddizione s’annida il conflitto tra la giustizia “attesa” e la giustizia “applicata”, con il pernicioso ribaltamento della presunzione d’innocenza dell’imputato. Talora sono lo stesso pubblico ministero, titolare delle indagini, o l’avvocato difensore a intessere un dialogo con i media e, tramite questi, con l’opinione pubblica: in tal caso, il corto circuito tra il rito mediatico e il processo penale è destinato ad accentuarsi. Si conferma, anche per questo aspetto, l’urgenza dell’intervento riformatore, diretto a restaurare le linee del giusto processo, ridando respiro all’accertamento della verità nel giudizio, secondo criteri di efficienza, ragionevole durata e rispetto delle garanzie. Nello stesso tempo, mi sembra che, per un verso, debbano essere ricostruite le linee dell’attrazione ordinamentale della figura del pubblico ministero nella cultura della giurisdizione (da cui, di fatto, è visibile, in alcuni casi, il distacco, per una sorta di spiccata autoreferenzialità, anche nei rapporti con la narrazione mediatica); e che, per altro verso, meriti di essere presa in seria considerazione la proposta di aprire talune finestre di controllo giurisdizionale nelle indagini, piuttosto che prevedere interventi di tipo gerarchico o disciplinare.».
Il processo celebrato sui mezzi di informazione induce però anche un’altra deleteria deformazione, erodendo l’autorevolezza e la posizione di terzietà della magistratura e compromettendone la connaturata funzione di rafforzamento della fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Il punto è colto nella risoluzione del 2010 del Consiglio superiore sulle modalità di comunicazione degli uffici giudizi che abbiamo prima richiamato: «È stata in particolare sottovalutata la circostanza che la rappresentazione della giustizia e della magistratura è oggi, troppo spesso, affidata solo all’informazione mediatica (soprattutto a quella televisiva) con la conseguenza che gli schemi utilizzati rischiano di togliere alla magistratura il ruolo di super partes, costringendola a schierarsi e a divenire parte. Non deve sfuggire, infatti, che i media si propongono sempre di più come mezzi di rappresentazione più accessibili, più espressivi, più fedeli alla realtà e più recettivi della diversità dei punti di vista, in breve più “semplici” rispetto al quadro procedurale in cui è iscritta un’aula di udienza. Tuttavia essi disintegrano quell’unità spazio temporale in cui si svolge il processo e contribuiscono a dare un’immagine della singola vicenda giudiziaria parziale, fuorviante e distonica rispetto al sistema processuale.».
Se perciò è persino troppo evidente che la prima esigenza è quella di abbreviare la discrasia spazio-temporale rispettando la ragionevole durata imposta dal giusto processo, è altrettanto importante che la giurisdizione si faccia carico, nei limiti delle sue possibilità, del governo della comunicazione assumendo rispetto ad essa un ruolo nè antagonista nè passivo.
Certo è del tutto illusorio pensare di arginare il problema prosciugando il serbatoio delle informazioni cui i mezzi di comunicazione possono attingere, allargando ad libitum l’ambito del segreto e rafforzando i divieti. D’altra parte questo assetto sconta un elevato tasso di ipocrisia poiché anche nei confronti dei tutori naturali del segreto, i pubblici ufficiali che ne sono depositari, il sistema delle sanzioni è in effetti più apparente che reale. Rarissimi son i casi in cui sono stati aperti procedimenti penali contro noti per il reato proprio di violazione del segreto ed è del tutto sconosciuto il ricorso al capoverso dell’art. 326 cp che, sanzionando l’agevolazione colposa nella rivelazione del segreto d’ufficio, ben avrebbe in più di un caso potuto punire negligenze, imperizie o violazione di norme extrapenali di magistrati, personale amministrativo o di polizia giudiziaria.
Il punto di equilibrio tra i valori e i diritti in gioco (e li possiamo richiamare con il solo elenco degli articoli della Costituzione cui rinviano: 21, 24, 107, 111) non lo si può stabilire arbitrariamente, non solo perché questo violerebbe uno o più di essi, ma perché valori e diritti conoscono una forza espansiva autonoma che tende comunque a recuperare lo spazio che gli viene ingiustamente sottratto. Sconfinamenti arbitrari cadrebbero poi sotto la mannaia certa della Corte costituzionale e ancor di più della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che su questo tema è da sempre molto sensibile. Giustamente ha osservato Glauco Giostra, parlando dell’accesso della pubblica opinione alla giustizia penale: «Questo accesso, infatti, non si pone in termini di opportunità, ma di necessità politica: per un ordinamento democratico moderno, prima ancora che essere utile una giustizia pubblica, è inconcepibile una giustizia segreta. Sottratta ad una efficace forma di controllo da parte della società, la repressione penale, che è il più incisivo mezzo di controllo sulla società, sviluppa fatalmente l’aspetto deteriore di quella politicità che le è connaturale, divenendo pericoloso strumento di affermazione di parte.[6]»
La trasformazione della comunicazione attraverso la rete ed i social ha aggravato la situazione: in un mondo in cui una quantità indistinta di soggetti non solo vuole avere informazioni, ma pretende spesso, per averlo letto su facebook, di conoscere le cose di più e meglio dei diretti protagonisti ed in buona o cattiva fede mescola vero, probabile e falso è sempre più importante calmierare la comunicazione dando ufficialità alle informazioni e diventa prezioso valorizzare la intermediazione del giornalismo professionista che rimane pur sempre ancorato a regole, prassi di condotta ed ad un codice etico. È vero che il richiamo ai codici etici è spesso accolto con un sorrisino di circostanza e un’alzata di spalle, e lo stesso articolo 6 di quello dell’Associazione nazionale magistrati sembra totalmente sconosciuto a diversi di noi[7], ma intorno alla correttezza dell’informazione è stata costruito nel tempo, anche nel dialogo tra più ambiti professionali, un background di regole di soft law che sarebbe un errore minimizzare. Dalla Carta di Treviso, la cui prima stesura risale al 1990, sui rapporti tra informazione e infanzia[8], alla Carta di Roma del giugno del 2008 relativa all’informazione sui richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti[9], alla confluenza delle diverse iniziative nel Testo unico dei doveri del giornalista approvato dal Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti il 27 gennaio del 2016[10], senza tenere conto che la delibera 13/2008 dell’Autorità Garante delle telecomunicazioni, nel formulare l’atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni televisive, sollecita emittenti e fornitori di servizi radiotelevisivi a adottare codici di autoregolamentazione [11] e il codice della privacy (d.lgs 193/2006 ora modificato dal d.lgs 10 agosto 2018 n. 101 in adeguamento alle disposizioni del Regolamento Ue 679 del 2016)[12] attribuisce al rispetto del codice etico una più marcata vincolatività (art 2 bis, c. 4: Il rispetto delle disposizioni contenute nelle regole deontologiche di cui al comma 1 costituisce condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali.). È certo lungo l’elenco dei rimproveri che potremmo rivolgere alla categoria dei giornalisti, a molti di loro individualmente, ma è altrettanto grave il pericolo che il trionfo della disintermediazione si trasformi nella negazione della professionalità e dell’etica pubblica. D’altra parte già nel 2007 Glauco Giostra segnalava la «stretta interdipendenza tra la professionalità del cronista ed una informazione giudiziaria all’altezza del suo alto compito istituzionale» e rilevava come «Probabilmente proprio a causa del lamentato deficit di preparazione specialistica, il giornalismo giudiziario finisce sovente per trasmettere tantissime notizie e pochissima conoscenza in ordine alle cose della giustizia: il vero antidoto al segreto, infatti, non è l’accumulo delle notizie, ma l’intelligenza critica della vicenda giudiziaria”[13]. È necessario perciò tenere alto il livello professionale della mediazione giornalistica, non bypassarla.
Occorre che gli uffici giudiziari giudicanti e requirenti si facciano in prima persona carico del governo dell’informazione, con prudenza, cautela, misura, self restraint, ma con chiarezza e decisione, non ponendosi rispetto ad essa né come chi deve difendersi da un’aggressione e quando può contrattaccare a suono di divieti e sanzioni, né come uno che sale su un tram per fare più presto, godersi il panorama e scendere infastidito se non gli cedono il posto a sedere.
Gli americani hanno fatto della gestione mediatica dei procedimenti giudiziari una professione ed un servizio (Litigation public relation – Lpr) diretto a tutelare la reputazione dei soggetti e delle aziende coinvolte in un procedimento attraverso una efficace, strategica e tempestiva comunicazione con i mass media. Tradizionalmente si fa coincidere la nascita della attività di Litigation public relations agli anni 80 e alla gestione mediatica, affidata a professionisti, del processo nel quale il generale Westmoreland fece causa alla Cbs per un documentario sul Vietnam[14], di un tale supporto si è avvalsa Amanda Knox per rafforzare presso i media americani la convinzione della sua innocenza[15] e leggiamo, nella brochure dello studio australiano John Connolly e partners, che si accredita come il più importante nel settore: «senza una strategia di comunicazione che accompagni la strategia legale anche un esito giudiziario favorevole può causare significativi danni alla reputazione» e che «una comunicazione ben fatta limita i rischi, qualcosa alla quale nessuna azienda dovrebbe sottrarsi.».
È evidente che le esigenze della amministrazione della giustizia sono completamente diverse da quelle della tutela della reputazione sul mercato proprie delle compagnie, delle aziende private, dei singoli[16], ma ugualmente si deve avere la consapevolezza che il modo in cui l’amministrazione della giustizia viene percepita e comunicata è un tassello significativo del grado di fiducia che la società ripone in essa e che anche attraverso una comunicazione in qualche modo strutturata è più facile proteggere l’immagine di terzietà ed imparzialità della giurisdizione ed evitare la inutile sovraesposizione di singoli magistrati, molte volte subita, ma a volte impropriamente ricercata.
Il Comandamento per il quale «i giudici parlano solo con le sentenze», cioè attraverso i loro provvedimenti, è sacrosanto nei limiti in cui evoca in termini sintetici e discorsivi la stretta correlazione tra il principio di soggezione del giudice solo alla legge dell’articolo 101 cpv della Costituzione ed il fondamento, parimenti costituzionale, dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti previsto dall’articolo 111, c. 7, e nei limiti in cui ammonisce e al tempo stesso tutela il magistrato da possibili sovraesposizioni, ma ripetuto a sproposito, come un mantra, finisce per perdere significato e valore. Non è vero che i giudici parlano solo con le loro sentenze, parlano anche con i loro comportamenti, con il modo in cui organizzano gli uffici, con il modo in cui si pongono nei confronti di chi, vittima o reprobo che sia, incrocia il loro cammino nei luoghi della giustizia e non possono sottrarsi al dovere di rendere comprensibile il loro agire: «il giudice non parla solo con le sentenze, ma ha bisogno che le sue sentenze siano capite e comprese» ha detto Giorgio Lattanzi, presidente della Corte costituzionale, in una dichiarazione pubblica l’8 marzo del 2018. Potremmo dire perciò che è vero che il giudice parla con i suoi provvedimenti, ma è necessario che i provvedimenti “parlino” alle persone e alla generalità. E che il giudice non si esprima solo con le sentenze è doppiamente vero per il pubblico ministero che, pur non essendo giudice, è allo stesso titolo soggetto della giurisdizione, ma che sentenze non ne scrive ed i provvedimenti, sia pure motivando le richieste, per lo più li sollecita al giudice. Il problema della comunicazione si pone per le procure con specifica delicatezza perché per le procure, più che per le corti, vale l’epifania dei fatti prima della analisi dei testi (l’interesse mediatico di un procedimento esplode con l’esecuzione degli arresti, poi viene l’esegesi dell’ordinanza del tribunale della libertà e, per quanto eclatante, la condanna in primo grado pronunciata dal tribunale non è seguita dall’esecuzione in aula dell’arresto dell’imputato libero) e il loro operare è più strettamente connesso con la problematica della tutela del segreto, dei divieti di comunicazione e di pubblicazione. Non è senza una ragione se alla comunicazione delle procure si sia cercato di dare un assetto normativo e ordinamentale, rimettendo ancora quella delle corti alle raccomandazioni consiliari e all’iniziativa dei singoli.
Il problema di una comunicazione chiara ci porta così a ritroso al problema dell’oggetto della comunicazione perché tra i due momenti c’è un rapporto di stretta continuità. Anche su questo terreno non partiamo da zero ed il problema ci è chiaro da tempo. Affrontato sotto il profilo della sinteticità, esso pone fondamentalmente il tema della chiarezza e della non ridondanza delle richieste dirette alla giurisdizione e delle risposte che questa deve fare. Il problema si è posto prima con riferimento al giudizio civile ed in particolare in quello di cassazione, e di esso sono ora ben consapevoli anche i giudici penali[17].
Nell’ambito del procedimento penale, nella fase che precede il dibattimento pubblico, il problema della chiarezza e comprensibilità dell’atto assume però una valenza specifica ed ulteriore perché la non ridondanza non è solo una questione di sinteticità, ma anche di valore dell’appropriatezza dei provvedimenti, cioè di corrispondenza del loro contenuto alla funzione che il codice gli attribuisce e questo non è privo di riflessi sulla possibilità della loro comunicazione esterna senza che questo comporti lesioni di altri interessi meritevoli di tutela, specialmente di quelli attinenti al rispetto del principio di presunzione d’innocenza, alla reputazione, alla riservatezza, alla tutela della immagine dei soggetti a qualunque titolo coinvolti, interessi sacrificabili solo a fronte di un prevalente interesse pubblico alla conoscenza.
Guasti inenarrabili sono costantemente prodotti dalla cattiva abitudine diffusa in molti uffici di procura di riprodurre in forma alluvionale nelle richieste cautelari intere informative di polizia giudiziaria e centinaia di pagine di trascrizioni di intercettazioni telefoniche, e danni ancora peggiori si sono prodotti riversando materiale affastellato in provvedimenti di perquisizione e di sequestro, non di rado proprio al fine di pilotare interessatamente il travaso di materiale investigativo dalla zona protetta del “segreto interno” tutelato dall’articolo 329 cpp, sanzionato per i pubblici ufficiali dall’articolo 326 cp e sottratto ad ogni possibilità di pubblicazione dall’articolo 114, c 1, cpp, nella più esposta prateria del “segreto esterno”, cioè degli atti non segreti, ma tuttavia non pubblicabili, alla quale i successivi cinque commi dell’articolo 114 cpp riservano una disciplina tanto confusa quanto di fatto sottratta ad ogni sanzione[18]. Il cattivo costume e la vera e propria scorrettezza emergono con tanta maggiore evidenza quanto più grande è la sproporzione tra la funzione dell’atto e la incongruente elefantiasi della sua motivazione. Non è facile formulare norme processuali che affrontino questa stortura e lo stesso strumento disciplinare non è di semplice praticabilità[19], ma certamente i nodi della comunicazione si possono sciogliere solo partendo dalla corretta redazione degli atti. In questo senso sono concordi le opinioni di magistrati, accademici e avvocati espresse negli incontri e nei confronti sul tema. D’altra parte la prospettiva della conoscibilità degli atti dovrebbe a sua volta favorire la redazione di atti migliori: «Per quanto riguarda la magistratura proprio la consapevolezza della integrale pubblicabilità dovrebbe operare come ulteriore incentivo, per pm dapprima e per gip poi, ad esercitare un rigoroso self-restraint nella motivazione delle richieste e delle ordinanze, in particolare nella citazione di intercettazioni telefoniche[20]». Si tratta di innestare un circuito virtuoso che leghi modalità di redazione degli atti e loro modalità di comunicazione pubblica.
Per far fronte alla prassi impropria delle motivazioni affastellate il legislatore ha previsto come causa di nullità dell’ordinanza cautelare la mancanza dell’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e degli indizi[21], anche se in questo caso l’esigenza primaria era quella di assicurare, attraverso il controllo della motivazione, che non vi fosse da parte del gip una ricezione acritica delle richieste della procura e da parte del destinatario della misura la piena consapevolezza che la decisione che lo colpiva fosse il frutto di un vaglio ben ponderato fatto da un giudice e non da una parte, per quanto pubblica, del processo.
Anche il d.lgs 29 dicembre 2017 n. 216, in attuazione della legge 23 giugno 2017 n.103 nel punto di delega relativo alla riforma delle intercettazioni, pur non prevedendo nuove cause di nullità, cerca di innestare il circuito virtuoso prima richiamato.
La necessità di un presidio rafforzato della riservatezza delle intercettazioni telefoniche non aventi rilevanza processuale e che espongono inutilmente la vita privata delle persone solo indirettamente coinvolte in una indagine, ha portato ad una soluzione normativa che, accompagnata da vivaci polemiche in fase di elaborazione, è stata poi per lo più riconosciuta come equilibrata. D’altra parte anche color che dubitano dell’opportunità, in genere, di riconoscere al pm un compito di selezione degli atti da sottrarre alla possibilità di pubblicazione, riconoscono tale selezione indispensabile quanto alle intercettazioni[22]. Il decreto legislativo prevede, anche se in questa parte l’efficacia della norma è stata rinviata al 31 marzo 2019, che sono coperte dal segreto previsto dall’art. 329 cp anche le «richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste[23]», mentre le ordinanze cautelari sono espressamente escluse dal divieto di pubblicazione previsto dall’articolo 114, c. 2), cpp[24]. Al tempo stesso modifica gli articoli 291 e 292 del cpp prevedendo che, quando sia necessario ai fini della richiesta o ai fini dell’esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi, delle comunicazioni o conversazioni intercettate sono riprodotti soltanto il brani essenziali[25]. Nella ricerca di quel bilanciamento tra interessi delle indagini, diritto di cronaca giudiziaria e diritto alla riservatezza che la riforma ha tentato di ridefinire[26] questi tre segmenti sono tra loro collegati. La prima esigenza era quella di rafforzare il vincolo del segreto sulle intercettazioni irrilevanti. La legge lo fa istituendo l’archivio riservato (e non è questa la sede per affrontare questo tema) sulla base della evidente costatazione che la possibilità di mantenere un segreto è inversamente proporzionale al numero di persone che ne è a conoscenza, e di conseguenza estende la tutela anche alle richieste e ai provvedimenti autorizzatori, che la legge vuole, quando non prodotti per l’emissione della misura, che rimangano nell’archivio riservato. La seconda esigenza era quella di ostacolare il riversamento in blocco di trascrizioni di intercettazioni nella motivazione dei provvedimenti, orientando pubblici ministeri e giudici ad una selezione mirata di quelle significative. Intorno a tale previsione, anche in conseguenza di una prima non felice formulazione del testo nella fase di elaborazione del decreto legislativo, sono state fatte molte polemiche ed alcune facili ironie, ma chiunque si sia confrontato con fluviali trascrizioni, spesso dialettali, all’esito delle quali viene apoditticamente affermata l’evidenza della loro efficacia dimostrativa, sa bene che si tratta di una modalità redazionale non solo defatigante, ma di fatto elusiva della funzione propria dell’obbligo di motivazione. La terza esigenza era quella di consentire, a provvedimenti cautelari finalmente redatti in modo più corretto, di superare ogni ostacolo che potesse frapporsi alla loro conoscibilità. I limiti della delega impedivano una riformulazione dell’art. 114 cpp, certamente necessaria, ma la esplicita indicazione dell’esclusione delle ordinanze cautelari dal suo ambito supera le remore e le esitazioni che, nei fatti[27], tendono ad estendere anche ai provvedimenti un divieto che dovrebbe riguardare solo gli atti di indagine. Allo stato è forse prematura e impraticabile la eliminazione in radice del potere di filtro che l’articolo 116 cpp attribuisce al giudice e al pm, ma occorre trovare forme di effettiva garanzia del diritto di cronaca giudiziaria. Infine, proprio per consentire l’acquisizione di un habitus mentalepiù corretto nella redazione dei provvedimenti, quale premessa per una loro più facile e ampia comunicazione, l’articolo 9, c. 2, del decreto legislativo, differiva l’efficacia della modifica dell’articolo 114 cpp ad un anno dalla sua entrata in vigore (26 gennaio 2018), mentre il nuovo regime delle intercettazioni si sarebbe dovuto applicare alle intercettazioni disposte dopo sei mesi. Il differimento di tale ultimo termine al 31 marzo 2019[28], inverte la successione temporale della effettiva applicazione, ma non tocca la modifica dell’articolo 114 cpp, che sarà pienamente operativa dal 26 gennaio del 2019.
Ma per concludere sul tema del rapporto tra processo e comunicazione è possibile individuare una serie di paletti all’interno dei quali incanalare la riflessione individuando alcuni passaggi significativi: a) provvedimenti “appropriati” e redatti con chiarezza; b) massima limitazione dell’area del “segreto necessario” ma un suo presidio effettivo con sanzioni severe e praticate; c) adozione di un costume costante di informazione tempestiva da parte degli uffici nei confronti della stampa che riguardi le cadenze processuali, la programmazione delle attività, il contenuto dei provvedimenti ed il loro senso; d) valorizzazione dei rapporti con la stampa professionale e parità di trattamento nell’accesso alle informazioni; d) riduzione massima dei limiti posti alla comunicazione di quanto non sia oggetto di segreto necessario.
[1] www.questionegiustizia.it/articolo/il-verdetto-the-children-act-un-film-di-richard-eyre-2017_10-11-2018.php.
[2] Raccomandazione (2003)13 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa adottata il 10 luglio 2003.
[3] Diritto Penale contemporaneo, 3/2017, http://dpc-rivista-trimestrale.criminaljusticenetwork.eu/it/archivio/rivista-trimestrale-3-2017.
[4] Ufficio relazioni con il pubblico e modalità di comunicazione degli Uffici giudiziari e del Consiglio superiore della magistrature – risoluzione del 26 luglio 2010.
[5] Cass, sez. V, n. 3674/11 del 27 ottobre 2010, Gomez.
[6] Glauco Giostra, Processo penale e mass media, in: Criminalia ,2007, p. 68.
[7] Art. 6 - Rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa: Nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio.
Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni per ragioni del suo ufficio concernenti l'attività del suo ufficio o conosciute per ragioni di esso e ritiene di dover fornire notizie sull'attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l'esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l'utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati.
Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione.
Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica.
[8] Vale la pena richiamare due punti specifici relativi ai procedimenti giudiziari: 1) i giornalisti sono tenuti ad osservare tutte le disposizioni penali, civili ed amministrative che regolano l'attività di informazione e di cronaca giudiziaria in materia di minori, in particolare di quelli coinvolti in procedimenti giudiziari;
4) per quanto riguarda i casi di affidamento o adozione e quelli di genitori separati o divorziati, fermo restando il diritto di cronaca e di critica circa le decisioni dell'autorità giudiziaria e l'utilità di articoli o inchieste, occorre comunque anche in questi casi tutelare l'anonimato del minore per non incidere sull'armonico sviluppo della sua personalità, evitando sensazionalismi e qualsiasi forma di speculazione. Ma ancora di più vale richiamare il Vademecum che ne è seguito nel 1995 e l’aggiornamento del 2006 che tiene conto delle osservazioni del garante della Privacy
[9] Vedi, nel sito di questa Rivista on line, Paola Barretta, Regole e principi per un buon giornalismo e non per un giornalismo buono: la nuova edizione delle linee guida della Carta di Roma, www.questionegiustizia.it/articolo/regole-e-principi-per-un-buon-giornalismo-non-per-_15-10-2018.php.
[10] Articolo 8: Cronaca giudiziaria e processi in tvil giornalista:
- rispetta sempre e comunque il diritto alla presunzione di non colpevolezza. In caso di assoluzione o proscioglimento, ne dà notizia sempre con appropriato rilievo e aggiorna quanto pubblicato precedentemente, in special modo per quanto riguarda le testate online;
- osserva la massima cautela nel diffondere nomi e immagini di persone incriminate per reati minori o condannate a pene lievissime, salvo i casi di particolare rilevanza sociale;
- evita, nel riportare il contenuto di qualunque atto processuale o d’indagine, di citare persone il cui ruolo non sia essenziale per la comprensione dei fatti;
- nelle trasmissioni televisive rispetta il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo – garantendo il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;
- cura che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi.
[11] Delibera n. 13/08/Csp Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive, adottato il 31 gennaio 2008 e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 39 del 15 febbraio 2008.
[12] Art. 2-quater (Regole deontologiche). 1. Il Garante promuove, nell’osservanza del principio di rappresentatività e tenendo conto delle raccomandazioni del Consiglio d'Europa sul trattamento dei dati personali, l’adozione di regole deontologiche per i trattamenti previsti dalle disposizioni di cui agli articoli 6, paragrafo 1, lettere c) ed e), 9, paragrafo 4, e al capo IX del Regolamento, ne verifica la conformità alle disposizioni vigenti, anche attraverso l’esame di osservazioni di soggetti interessati e contribuisce a garantirne la diffusione e il rispetto.
2. Lo schema di regole deontologiche è sottoposto a consultazione pubblica per almeno sessanta giorni.
3. Conclusa la fase delle consultazioni, le regole deontologiche sono approvate dal Garante ai sensi dell'articolo 154-bis, comma 1, lettera b), pubblicate nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana e, con decreto del Ministro della giustizia, sono riportate nell'allegato A del presente codice.
4. Il rispetto delle disposizioni contenute nelle regole deontologiche di cui al comma 1 costituisce condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali.
Art. 139: (Regole deontologiche relative ad attività giornalistiche). 1. Il Garante promuove, ai sensi dell'articolo 2-quater, l'adozione da parte del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti di regole deontologiche relative al trattamento dei dati di cui all'articolo 136, che prevedono misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda quelli relativi alla salute e alla vita o all'orientamento sessuale. Le regole possono anche prevedere forme particolari per le informazioni di cui agli articoli 13 e 14 del Regolamento.
2. Le regole deontologiche o le modificazioni od integrazioni alle stesse che non sono adottate dal Consiglio entro sei mesi dalla proposta del Garante sono adottate in via sostitutiva dal Garante e sono efficaci sino a quando diviene efficace una diversa disciplina secondo la procedura di cooperazione.
3. Le regole deontologiche e le disposizioni di modificazione ed integrazione divengono efficaci quindici giorni dopo la loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana ai sensi dell'articolo 2-quater.
4. In caso di violazione delle prescrizioni contenute nelle regole deontologiche, il Garante può vietare il trattamento ai sensi dell'articolo 58 del Regolamento.
5. Il Garante, in cooperazione con il Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti, prescrive eventuali misure e accorgimenti a garanzia degli interessati, che il Consiglio è tenuto a recepire.
[13] Glauco Giostra, cit. p. 63
[14] Peter W. Kaplan, Public relations facet of Westmoreland Trial, 23 ottobre 1984, in New York Times, www.nytimes.com/1984/10/23/arts/public-relations-a-facet-of-westmoreland-trial.html.
[15] Paolo Marsala, Comunicazione giudiziale e litigation public relations, in Sicurezza e scienze sociali, Franco Angeli, 2013 fasc. 2, p. 90.
[16] Paolo Marsala, ivi, p. 85.
[17] Possiamo richiamare in modo disordinato il protocollo siglato tra il Cnf e la Corte di cassazione il 17 dicembre del 2015 sulle «regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria»; le linee guida degli Osservatori della giustizia civile approvate dall’Assemblea nazionale degli osservatori dal 19 al 21 maggio del 2017, ed i molti protocolli concordati in sede locale; le “linee guida in materia di esame preliminare delle impugnazioni e modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti» adottate con delibera del 5 luglio 2017 e il documento sulla loro prima attuazione approvato il 20 giugno 2018, ma soprattutto i lavori del gruppo di studio presieduto dal cons. Antonello Mura istituito presso il Ministero della giustizia con decreto del 9 febbraio 2016 e poi successivamente rinnovato ed integrato che, in tre successivi steps, per ciascuno dei quali è stata redatta una relazione, ha affrontato il problema della chiarezza e della sinteticità degli atti e dei provvedimenti prima con riferimento al giudizio di legittimità, poi a quello di impugnazione ed infine ai procedimenti di primo grado in ambito civile e penale. Con la relazione finale dell’ultima fase sono state formulate proposte di intervento sul codice di procedura civile e sul codice di procedura penale dirette a orientare le modalità di redazione degli atti sia per le parti che per i magistrati. Proprio dal 28 al 30 novembre di quest’anno è programmato un corso della Scuola superiore della magistratura sulla “tecnica dei provvedimenti penali”, rivolto ai giudici, che, in uno dei gruppi di lavoro, si propone di affrontare il tema della rappresentazione nelle decisioni delle intercettazioni telefoniche. Analoga iniziativa sarebbe estremamente utile nei confronti degli uffici di procura.
[18] Renzo Orlandi, La giustizia penale nel gioco di specchi dell’informazione, in Diritto Penale Contemporaneo trimestrale, n. 3/2107, pp. 53 ss., http://dpc-rivista-trimestrale.criminaljusticenetwork.eu/pdf/Orlandi_Dpc_Trim_3_17.pdf; Roberto Bartoli, Tutela penale del segreto processuale e informazione: per un controllo democratico sul potere giudiziario, ivi, p. 65 http://dpc-rivista-trimestrale.criminaljusticenetwork.eu/pdf/Bartoli__Dpc_Trim_3_17.pdf.
[19] Sezione Disciplinare del Csm, sent. 17 febbraio 2012 n. 45.
[20] Edmondo Bruti Liberati, Prassi disciplina e prospettive dell’informazione giudiziaria, intervento al convegno conclusivo dei lavori del gruppo coordinato dal prof. Palazzi, richiamato nel testo, in Diritto penale contemporaneo, 12 gennaio 2018 www.penalecontemporaneo.it/d/5807-prassi-disciplina-e-prospettive-dell-informazione-giudiziaria.
[21] Modifica introdotta dall’art. 8 l. 16 aprile 2015 n. 8.
[22] Roberto Bartoli, ivi, pag. 7.
[23] Art. 2, c. 1, lett f).
[24] Art. 2, c. 1, lett b).
[25] Art. 3, c. 1, lett e) n.2.
[26] V. in questa Rivista on line, Se telefonando… interventi di G. Cascini, E. Cesqui, V. Spigarelli
[27] Luigi Ferrarellla, «“il giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme», Diritto penale contemporaneo, 3/2017 p. 18, http://dpc-rivista-trimestrale.criminaljusticenetwork.eu/pdf/Ferrarella_Dpc_Trim_3_17.pdf: «L’illuminata convinzione teorica espressa dal professor Renzo Orlandi nel proprio studio circa il fatto che il diritto di cronaca legittimi il giornalista a chiedere ed ottenere l’accesso ad atti (non più coperto da segreto interno) acquisibili da “chiunque vi abbia interesse” in forza dell’articolo 116 cpp, nella pratica quotidiana si traduce invece nella frustrazione del rigetto immancabilmente opposto dai giudici ai giornalisti che avanzino questa istanza.».
[28] Articolo 2, c. 1, dl 25 luglio 2018, n. 91, conv. l. 21 settembre 2018 n. 108, che modifica il primo comma dell’articolo 9 del d.lgs n. 216/17.