Il XXII Congresso nazionale di Magistratura democratica avrà una sottolineatura musicale. Le sessioni tematiche dedicate ai temi del rapporto tra giudice, popolo e cittadini, alle politiche sull’immigrazione e all’attacco dei nuovi populismi allo stato di diritto saranno precedute dalla proiezione di brani significativi di Fabrizio De André nell’ultimo concerto romano. È il nostro omaggio a Fabrizio a vent’anni dalla sua scomparsa, ma è anche un mezzo diverso per fare politica e interrogarci sul nostro modo di essere giudici. Lo trovate magistralmente scritto in questo brano
«Eppure ho sempre provato pena per chi sbagliava. Altrimenti avrei fatto un massacro». Forse sta proprio in questa breve riflessione tratta da Sotto le ciglia chissà. I diari (Mondadori, 2016) l’origine di quel pensiero sulla giustizia che Fabrizio De André ha espresso in alcune delle sue più toccanti composizioni (originali o riprese dai suoi amati poeti e chansonnier di lingua francese e inglese).
Da un lato la rabbia per l’ingiustizia, la forte indignazione che lo portava istintivamente a schierarsi dalla parte degli ultimi, a provare empatia per il delinquente e il marginale, a cantare addirittura il bombarolo (in Storia di un impiegato, un disco che probabilmente oggi nessuno avrebbe il coraggio di scrivere, e tanto meno di produrre, per quanto politicamente scorretto può apparire). Dall’altro lato la pietà, il senso del perdono, un afflato alla resilienza sorretto da un formidabile amore per la vita, da una tensione verso il ricominciare. «Trovare, cercare i valori che ci mancano nell’universo della negazione totale», ma senza rimettersi a una giustizia divina perché «l’avvenire è la sola trascendenza per gli uomini senza Dio».
Sì, ma come dimenticare le meravigliose parabole sui Vangeli de La buona novella?
E il pescatore che spezza il pane e versa il vino per il suo assassino?
Come dimenticare le parole rivolte all’amico anarchico da don Gallo, il prete dei dimenticati: «Caro Faber, parli all'uomo, amando l'uomo. Stringi la mano al cuore e svegli il dubbio che Dio esista».
Dobbiamo interrogarci, noi giudici, sui versi che De André, inventandoli o riadattandoli, ci ha dedicato.
Sugli impiccati ripresi da Villon: «Giudici eletti/uomini di legge/noi che danziam nei vostri sogni ancora/ siamo l’umano desolato gregge/di chi morì con il nodo alla gola/quanti innocenti all’orrenda agonia/votaste decidendone la sorte/e quanto giusta pensate che sia/ una sentenza che decreta la morte?».
Sul giovane giudice di Brassens che fra le grinfie del gorilla «gridava mamma come quel tale cui il giorno prima come ad un pollo/con una sentenza un po’ originale aveva fatto tagliare il collo».
Sul giudice di Spoon River, «Giudice finalmente/Arbitro in terra del bene e del male/E allora la mia statura/Non dispensò più buonumore/A chi alla sbarra in piedi/Mi diceva “Vostro Onore”/E di affidarli al boia/Fu un piacere del tutto mio/Prima di genuflettermi/Nell'ora dell'addio/Non conoscendo affatto/La statura di Dio».
Figure emblematiche di una giustizia a senso unico, unicamente repressiva, algida e spietata, oppure semplicemente asservita: «Ascolta/una volta un giudice come me/giudicò chi gli aveva dettato la legge:/prima cambiarono il giudice/e subito dopo la legge».
Icone in tal modo universalmente percepite anche da chi, a differenza di Fabrizio De André, non necessariamente si era schierato a viso aperto «in direzione ostinata e contraria».
Un modo d’essere che non dovrebbe più appartenerci. Che dovemmo sforzarci di contrastare.