«C’è sulla piazza un impiccato, condannato a morte dal giudice. La sentenza è stata eseguita; ma la sentenza era ingiusta: l’impiccato era innocente.
Chi è responsabile per aver assassinato quell’innocente? Il legislatore che nella sua legge ha stabilito in astratto la pena di morte o il giudice che l’ha applicata in concreto?
Ma il legislatore e il giudice, l’uno e l’altro, trovano il mezzo per salvarsi l’anima col pretesto del sillogismo.
Il legislatore dice: - Io non ho colpa di quella morte, io posso dormire tranquillo: la sentenza è un sillogismo, del quale io ho costruito soltanto la premessa maggiore, una innocua formula ipotetica, generale ed astratta, che minacciava tutti, ma non colpiva nessuno. Chi l’ha assassinato è stato il giudice, perché è lui che dalle premesse innocue ha tratto la conclusione micidiale, la lex specialis che ha ordinato l’uccisione di quell’innocente. -
Ma il giudice dice a sua volta: - Io non ho colpa di quella morte, io posso dormire tranquillo: la sentenza è un sillogismo, del quale io non ho fatto altro che estrarre la conclusione dalla premessa imposta dal legislatore. Chi l’ha assassinato è stato il legislatore con la sua legge, la quale era già una sententia generalis, in cui anche la condanna di quell’innocente era racchiusa. –
Lex specialis, sententia generalis: così legislatore e giudice si rimandano la responsabilità; e possono dormire, l’uno e l’altro, sonni tranquilli, mentre l’innocente dondola dalla forca.
Ma questa non può essere la giustizia di una democrazia; questo non può essere il giudice degno della Città degli uomini liberi».
Questo brano di Piero Calamandrei, tratto dalle sue Opere giuridiche, mi è venuto in mente dopo il dibattito del Comitato direttivo centrale dell’Anm sul parere alla riforma dell’ordinamento penitenziario (rinviata dal Governo a un passo dal traguardo definitivo). Non ho partecipato alla riunione del Cdc né ne ho letto sui giornali. Ma grazie a Radio radicale ho potuto vedere e ascoltare i magistrati intervenuti al dibattito, sfociato in una mozione di Unicost (corrente centrista dell’Anm) approvata soltanto con i voti dei suoi 13 esponenti, contrari i 7 rappresentanti delle correnti di destra, Mi e A&I, astenuti gli 8 “progressisti” di Area.
La mozione è un capolavoro di fariseismo, in cui c’è tutto e il contrario di tutto e, dunque, è perfetta per una magistratura divisa e in campagna elettorale (per il rinnovo del Csm). Quel che colpisce, in questa vicenda, è la rinuncia dell’Anm a un pezzo della sua storia, e cioè all’assunzione di responsabilità politica in un passaggio determinante per la civiltà e la cultura giuridica oltre che per la politica penitenziaria di questo Paese. Non cogliere questo snodo, fingere di non coglierlo o, peggio ancora, ignorarlo per interessi “di bottega”, rivendicando un’apoliticità degna di miglior causa, è, a mio giudizio, la negazione della storia dell’Anm.
Ma se l’epilogo lascia l’amaro in bocca, ancora più amaro è il sapore degli interventi contrari all’approvazione immediata del parere favorevole che era stato messo a punto, e proposto, dalla Commissione-carceri (formata da numerosi magistrati di sorveglianza) dopo tre mesi di lavoro. Proprio quegli interventi mi hanno ricordato le parole di Calamandrei sul pericolo dell’indifferenza burocratica del magistrato e sul metodo del sillogismo, che sembra fatto apposta per “togliere al giudice il senso della sua terribile responsabilità e per aiutarlo a dormire sonni tranquilli”.
Con le ovvie distinzioni, il ragionamento funziona anche rispetto alle preclusioni e agli automatismi eliminati dalla riforma penitenziaria per restituire al magistrato di sorveglianza il potere di decidere misure alternative e benefici, valutando l’effettivo percorso “rieducativo” del condannato. Si tratta di una delle più importanti novità della riforma e va letta anche in termini di maggiore sicurezza collettiva se è vero, com’è vero, che la valutazione di un giudice dà maggiori garanzie di un automatismo. Certo, è una modifica che responsabilizza ancora di più il magistrato di sorveglianza perché lo costringe a occuparsi del percorso del condannato non in termini burocratici, affidandosi cioè a meri automatismi. Ma questo, del resto, è il cuore della sua funzione.
Negli ultimi anni, la discrezionalità dei giudici è stata oggetto di una progressiva erosione da parte della politica. Che, anche per questa via, ha cercato di ridurre il potere della magistratura. Nel penale come nel civile e in particolare nella materia del lavoro, il legislatore ha posto una serie di paletti alla discrezionalità del giudice (salvo esaltarne l’importanza se si tratta di far valere le cosiddette compatibilità economiche). Anche in materia penitenziaria è andata così, sia con la creazione di una serie di preclusioni alla personalizzazione della pena sia con la trasformazione della personalizzazione in una somma di automatismi. Il magistrato di sorveglianza ha finito così (salvo eccezioni, ovviamente e fortunatamente) per trasformarsi in una sorta di ragioniere: una posizione frustrante rispetto al senso della funzione da esercitare, ma rassicurante perché deresponsabilizzante sia rispetto alla presunta certezza della pena sia rispetto ad eventuali “errori”.
Questa tendenziale burocratizzazione del ruolo del magistrato di sorveglianza è una delle ragioni di fuga dalla relativa funzione. Perciò la “restituzione” del potere di valutare e di decidere – come conseguenza dell’eliminazione di preclusioni e automatismi – dovrebbe essere vissuta positivamente dalla magistratura, a cominciare da quella associata. Ed è davvero paradossale che qualcuno, invece, colleghi a questa modifica il rischio o la percezione di una maggiore insicurezza collettiva o addirittura la prospettiva di un “liberi tutti”. Fra l’altro, sono argomenti-boomerang, perché alimentano la sfiducia nella giustizia e danno la sensazione di una magistratura che preferisce un ruolo burocratico e deresponsabilizzante.
Ecco perché, al di là della mozione finale, a colpire sono soprattutto gli argomenti utilizzati per non prendere posizione in senso positivo sulla riforma, chiamandosi fuori dalla mobilitazione di tanti giuristi.
Ho sentito parlare dell’«inopportunità» di esprimere un’opinione «a una settimana dal voto, su uno strumento politico», e poco importa – è stato addirittura sottolineato – se «la riforma sia la migliore del mondo».
Ho sentito confermare questa valutazione di inopportunità perché «il Governo ha fatto della riforma un cavallo di battaglia (sic, ndr) per cui un parere dell’Anm diventerebbe, in questo momento storico, un supporto o un ostacolo al Governo» (ma «se proprio si deve dare, il nostro parere è assolutamente negativo», è stata la conclusione).
Poi però ho sentito dire che il Governo non è compatto, che c’è uno scontro tra il ministro della giustizia Orlando e il ministro dell’interno Minniti e che l’Anm non si deve inserire in questa «spaccatura».
Ho sentito dire che «molti magistrati di sorveglianza non condividono neanche una parola della riforma», (e qui, giù applausi della platea).
Ho sentito obiettare che la rieducazione del condannato non è l’unica finalità della pena perché ci sono anche le finalità «special preventive». «I cittadini – quindi – devono sapere che la pena c’è e che la pena è certa».
Più volte ho sentito evocare la «certezza della pena» e le esigenze di sicurezza della collettività, quasi che la riforma sia una sorta di «liberi tutti» per «svuotare le carceri».
Ho sentito dire che il superamento delle preclusioni e degli automatismi è cosa buona e giusta ma «non in toto».
Qualcuno ha persino definito «autoreferenziale» il plauso per la restituzione al magistrato di sorveglianza del potere di decidere e ha invitato a considerare le riforme come «espressione di un modo di vedere la vita». E poiché questa riforma «incide sulla vita dei cittadini, non si può pensare che il parere dell’Anm non venga valutato anche nel dibattito politico, che vede in contrasto Minniti e Orlando».
In sostanza, la riforma non può essere valutata né politicamente né giuridicamente dall’Anm, «perché incide sulla vita dei cittadini e anche delle vittime dei reati».
Ho sentito protestare contro chi (Area) richiamava l’attenzione sul «dovere» dell’Anm di esprimere un parere subito perché c’è una scadenza imminente e di esprimere un parere positivo perché la riforma va verso la personalizzazione della pena e restituisce al magistrato il potere di decidere che gli era stato tolto con automatismi e preclusioni.
Ho sentito sostenere che si debbano ancora approfondire alcuni «spunti critici», tra cui l’apertura ai recidivi («Possibile – si è chiesto qualcuno – che l’irrigidimento del legislatore nel processo penale contro i recidivi venga cancellato con un tratto di penna nella riforma dell’ordinamento penitenziario?»). E ho sentito lamentarsi del poco tempo che c’è stato per approfondire e riflettere sui decreti delegati (tre mesi…).
Si potrebbero ricordare i numerosi casi in cui l’Anm – almeno da una trentina d’anni – ha doverosamente e tempestivamente detto la sua su riforme importanti, delicate e anche divisive. Si potrebbe ricordare che l’Anm, anni fa organizzò un grande convegno su carcere e misure alternative, che andava nella stessa direzione della riforma (su cui oggi non è «opportuno» pronunciarsi). Si dovrebbe anche ricordare, però, il profilo bassissimo tenuto, a conclusione degli «Stati generali sull’esecuzione penale», dall’Anm di Piercamillo Davigo, che guidava una compagine “unitaria”… .
Quanto basta per chiedersi se la magistratura non abbia cambiato pelle in questi ultimissimi anni e se l’unitarietà sia davvero un valore “che fa la forza” oppure soltanto una pericolosa zavorra culturale. E allora vale la pena, un’altra volta, rileggersi Calamandrei: «Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici e in generale tutti i pubblici funzionari è il pericolo dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità anonima. Per il burocrate gli uomini cessano di essere persone vive e diventano numeri, cartellini, fascicoli: una pratica, come si dice nel linguaggio degli uffici, cioè un incartamento sotto copertina, che racchiude molti fogli protocollati, e in mezzo ad essi un uomo disseccato. Per il burocrate gli affanni dell’uomo vivo che sta in attesa non contano più: vede quell’incartamento ingombrante sul suo tavolino e solo si cura di trovare un espediente per farlo passare sul tavolino di un altro burocrate, suo vicino di stanza, e scaricare su di lui il fastidio di quella rogna. Guai se questa indifferenza burocratica entra nei giudici; guai se si assuefanno al richiamo pungente della loro responsabilità».
Guai, appunto.