Magistratura democratica
Magistratura e società

Cassese “salta la fila” e si pone alla guida dell’affollata militanza anti-magistratura

di Marco Patarnello
magistrato di sorveglianza a Roma

I difetti - veri o presunti - della giustizia e della magistratura italiana. Recensione a S. Cassese, Il governo dei giudici, Editori Laterza, 2022.

Si dice che i luoghi affollati siano solitamente poco praticati da studiosi e accademici intenti alla faticosa ricerca di un pezzetto impalpabile di verità, ma Sabino Cassese rifugge così tanto i luoghi comuni da volere sfatare anche questo. Non cercate, dunque, ipotesi originali o suggestivi approfondimenti, perché le responsabilità del fallimento della giustizia italiana (e, perché no, dell’intera società italiana) sono esattamente lì dove tutti le cercano: nella magistratura e soprattutto fra i Procuratori della Repubblica, veri padroni della politica, dell’amministrazione e, infine, della giustizia. 

So che svelare immediatamente il colpevole è un cattivo servizio, per chi voglia recensire un libro, ma a mia parziale scusante invoco la scelta dello stesso autore. Siccome il buon giorno si vede dal mattino (perdonate la banalità) il compendio della riflessione è tutto contenuto nella stessa introduzione: pur essendo solo un quinto dei magistrati, i PM hanno progressivamente preso la guida del corpo giudiziario, attraverso le associazioni, le correnti e il Consiglio superiore della magistratura. 

Poco importa che l’autore non abbia sentito il bisogno di navigare su internet quanto basta per visitare i siti delle diverse associazioni di magistrati e calare la riflessione nella realtà attuale. 

Proviamo, allora, a farlo noi. 

La famigerata (l’aggettivo, a questo punto, mi pare d’obbligo) ANM, principale responsabile -dobbiamo ritenere- di questo scivolamento, vede al suo vertice un Presidente ed un Segretario generale entrambi giudicanti: Giuseppe Santalucia e Salvatore Casciaro. Ma anche gli altri suoi organi rappresentativi (Giunta e Comitato direttivo centrale) vedono al loro interno prevalere nettamente i magistrati giudicanti.

L’ancor più famigerata Magistratura Democratica ha, effettivamente, per Segretario generale un PM (addirittura antimafia, per quanto lontano dal cliché!), ma come Presidente ha un Giudice: rispettivamente Stefano Musolino e Cinzia Barillà. Per non parlare del Comitato esecutivo, composto da soli giudici e nessun pubblico ministero.

Ma anche Magistratura Indipendente, espressione -secondo una certa vulgata- della parte più corporativa e autoreferenziale della magistratura, non appare colonizzata dai PM: addirittura tanto il Presidente quanto il Segretario generale sono magistrati giudicanti.

Non dissimile la situazione di AreaDG e di Autonomia e Indipendenza; entrambe hanno ai rispettivi vertici un PM ed un Giudice: Autonomia e Indipendenza vede come Presidente Rossella Poggioli, pubblico ministero a Bologna, e come Coordinatore generale Guido Marzella, giudice a Padova; mentre il Presidente di AreaDG è il consigliere di cassazione Egle Pilla, laddove il Segretario generale è Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma.

Discorso -numericamente- non dissimile per il CSM (quattro PM, su sedici componenti), lì, però, il merito è del Legislatore, visto che è la legge elettorale a fissare questo rapporto.

Non c’è dubbio che soprattutto se si guarda all’ANM (sulle singole correnti l’analisi sarebbe considerevolmente diversa) in senso storico, nel passato -anche recente- la presenza di pubblici ministeri ai vertici di questa associazione è stata significativa, sebbene abbia avuto alterni andamenti e comunque sia stata raramente assegnata a soggetti legati ad inchieste di grande impatto mediatico. Non di rado la presidenza è stata assunta da una personalità requirente, ma per lo più riequilibrata da un Segretario generale giudicante, fino al quadriennio 2008-2012, in cui addirittura tanto il Presidente (Luca Palamara) quanto il Segretario generale (Giuseppe Cascini) erano, effettivamente, pubblici ministeri della Capitale. Ma parliamo di dieci anni fa. E non sarebbe giusto dimenticare che le Presidenze più amate e acclamate siano state senza dubbio quelle di magistrati giudicanti come Sandro Criscuolo, Raffale Bertoni o Nino Abate o magari “bifronte”, come quella acclamatissima di  Elena Paciotti. 

Nel complesso, quella di Cassese suona come una semplificazione, soprattutto nella misura in cui viene indicata come una tendenza progressiva e sempre più attuale, proprio nel momento in cui risulta non aderente ai fatti. Le cose sono più complicate di quelle ipotizzate nel pamphlet: non sarà che non è -tanto- la magistratura a patire il dinamismo dei PM, quanto piuttosto l’opinione pubblica, o più ancora chi contribuisce a formarla? 

Pur trattandosi indubbiamente di un’opera a carattere divulgativo, lo scritto di Sabino Cassese assomiglia più ad un lavoro militante. Peraltro, non troppo originale, visto che la fila dei militanti contro la magistratura è lunga e raccoglie anche molti magistrati, non sempre senza ragioni. 

Ma le semplificazioni non si fermano qui. 

Lucidamente l’autore constata l’inefficienza della giustizia italiana (come dargli torto?) e forse altrettanto lucidamente evidenzia l’illogicità fra la crescente dilatazione del ruolo dei giudici e la crescente -o quanto meno stabile- inefficacia del sistema giudiziario (al netto di una certa confusione fra inefficienza della giustizia e inefficacia del sistema giudiziario). Meno lucida -o troppo semplificatoria- appare, invece, l’assegnazione alla magistratura della responsabilità della lentezza dei processi: una banalità che non ci si aspetta da un giurista che nel passato ha saputo reinventare il diritto pubblico. Davvero si pensa che la lentezza della giustizia sia ascrivibile ai 200 magistrati fuori ruolo? O magari alla scarsa voglia di lavorare dei giudici? Opportunamente il testo ricorda che la Cepej[1] ha stimato in otto anni la durata del processo civile italiano e in oltre tre anni quella del processo penale, ma perché non ricordare che il medesimo organismo europeo, pur a fronte di tempi di giustizia lunghissimi, nel recente passato ha sottolineato l’elevata produttività della magistratura italiana, rispetto al panorama europeo? E’ banale affermare che per comprendere le ragioni della fallimentare durata dei processi in Italia sia utile, innanzitutto, praticarli? Almeno quanto basta per sapere, ad esempio, che nel primo semestre del 2021 la sola Corte Suprema di Cassazione -in teoria l’organo giudiziario più importante e solenne- ha definito oltre diciottomila ricorsi civili e oltre ventiseimila procedimenti penali!

La magistratura ha certo molte responsabilità circa la sua attuale considerazione sociale, ma forse la durata dei processi non è fra le principali, o, almeno non a ragione. Il quotidiano professionale dei magistrati è oramai così pressante e legato alla smania produttiva che la macchina giudiziaria sembra più una catena di montaggio, pur macinando decisioni decotte e per fatti spesso privi di attualità. E’ probabile che l’opinione pubblica attribuisca ai giudici che amministrano la giustizia le cause della lentezza di quest’ultima, ma chi aspira a riflettere sul suo funzionamento dovrebbe avere qualche strumento di approfondimento in più per comprenderne le cause. 

A meno di ipotizzare davvero che i giudici perdano il loro tempo in “chiacchere e distintivo”[2], temo che per capire perché i processi italiani durino così a lungo si debba guardare altrove e ad un quadro di problemi ben poco semplificabile, purtroppo. Piuttosto bisognerebbe avere il coraggio di affermare che una giustizia veloce, almeno in campo penale, sembra non volerla davvero nessuno. Se, chi ha le leve culturali, quelle delle riforme e quelle delle risorse, pensasse davvero di ridimensionare il gigantismo del PM, delle indagini e della custodia cautelare preventiva, avrebbe solo da rendere efficienti i processi penali. La centralità del PM e delle indagini è tutta lì. Nella sua elementare e irraggiungibile semplicità. Con un processo penale davvero efficiente la custodia cautelare potrebbe anche essere abolita. O giù di lì.

Poi, certo, ci sono le “porte girevoli”, le conferenze stampa unilaterali, le subalternità culturali, i fenomeni criminali, le cadute personali, ma il miglior modo, l’unico modo, di battere le deviazioni -vere o presunte- intorno alla figura del pubblico ministero è quello di fare funzionare bene il processo penale, argomento che non appassiona nessuno di coloro che strepitano intorno alla figura del pubblico ministero e che non spendono mai una parola per proporre iniziative concrete per far funzionare il processo penale. E il soccorso non verrà dalla riforma della giustizia penale sul tappeto[3]. 

L’autore sottolinea con particolare enfasi il tema degli incarichi extragiudiziari, equiparandoli -inappropriatamente- agli incarichi fuori ruolo, e contro questi ultimi, stimati in circa 200 posizioni collocate presso vari ministeri ed organismi e soprattutto presso il Ministero della Giustizia, lancia i propri -non del tutto irragionevoli- strali. Ma rimuove una serie di questioni intorno al tema, che non possono essere rimosse. L’Italia, nonostante i passi avanti e alcune interessanti agenzie di formazione, non ha un’E.N.A.[4] e forse non ha ancora investito abbastanza sulla formazione di una dirigenza pubblica davvero autorevole, per tutti i tipi di competenze giuridiche. Probabilmente ci sono segmenti o posizioni peculiari ai vertici dell’apparato statale le cui competenze non sono facilmente reperibili sul mercato delle professionalità a disposizione. Forse non è solo un capriccio se per alcuni incarichi dell’amministrazione centrale dello Stato, di un’Autorità indipendente o di organismi europei si pensa così frequentemente alla figura di un magistrato, ordinario, amministrativo o contabile, o a un avvocato dello Stato. E poi, perché Cassese è tanto stupito dai magistrati ordinari nel Ministero della Giustizia e non lo è dai consiglieri di Stato o dai giudici amministrativi e contabili in generale, nei ministeri ed in tutti gli apparati strategici dello Stato, Presidenza del Consiglio in testa? Talvolta senza neppure essere posti fuori ruolo. Posizioni assai più stridenti, quanto a rischi per l’autonomia e indipendenza, vista la contiguità se non la vera e propria sovrapposizione delle competenze, esaltate, oltre tutto, dal ruolo consultivo del Consiglio di Stato. Chi scrive concorda con l’autore circa l’opportunità di una stretta nei collocamenti fuori ruolo dei magistrati, ordinari, amministrativi e contabili, ma non è ignorando ciò che c’è dietro ai problemi che essi si risolvono, perché è naturale (e giusto) che un Ministro aspiri ad ottenere un capo di Gabinetto autorevole o un capo dell’Ufficio Legislativo preparato ed esperto, consapevole delle dinamiche istituzionali, di cui la giurisdizione è momento chiave.

Ma sarebbe ingiusto esaminare criticamente Il governo dei giudici per la sola introduzione. 

La pubblicazione si sviluppa, infatti, su due parti. Una prima parte è dedicata ad una riflessione di carattere generale su quella che l’autore chiama la “giudiziarizzazione della politica” e che accenna -con riferimenti storici e comparati- al tema della progressiva evoluzione e centralità che in tutti gli ordinamenti ha acquisito il potere dei giudici, fino ai giorni nostri. 

Si tratta della parte più interessante del testo, sebbene molto breve e a carattere marcatamente divulgativo. Non appena si allontana dalla prospettiva italiana, Cassese ritrova una parte del suo sguardo lucido, osservando, sia pure en passant, il percorso che “il giudiziario” va compiendo progressivamente in tutto il mondo, evidenziandone le limpide analogie e talune specificità. 

Peccato che, nonostante, l’ampiezza del tema, tale prima parte risulti, in fondo, marginale rispetto al lavoro: poche pagine per lo sguardo globale, apparentemente funzionali ad introdurre il cuore della riflessione, dedicato al governo dei giudici in Italia, oggetto della seconda (e centrale) trattazione. 

L’effetto che ne deriva è, infatti, singolare. Leggendo la prima parte viene naturale immaginare che essa costituisca la trama attraverso cui leggere e spiegare il fenomeno italiano: se la progressiva dilatazione del potere dei giudici è un fenomeno globale verrebbe da credere che la vicenda italiana ne costituisca solo una specificazione. 

Non sembrerebbe esattamente ciò che pensa l’autore, il quale assegna ancora una volta alla magistratura italiana e al suo status peculiare le ragioni di questo allarmante scivolamento. Diventano così oggetto di riflessione in termini negativi e origine dell’asserito strapotere dei giudici italiani e addirittura origine dell’inefficienza della giustizia: gli stipendi eccessivamente alti, l’indipendenza trasformata in autogoverno in mano alle correnti ed anche il suo contrario e cioè la “versione individualistica dell’indipendenza” (!), addirittura l’asserita natura castale ed “ereditaria” della funzione e altre amenità come l’eccesso di ferie e la scarsa voglia di lavorare, finendo con l’accusare la magistratura ordinaria della eccessiva politicizzazione e anche del suo contrario, come quando le attribuisce il torto di essersi eccessivamente inserita nei vertici del Ministero della Giustizia e anche quello di non aver fatto abbastanza pressione sul Legislatore per modificare quelli che lo stesso autore vede come i gravi deficit normativi connessi alla tortuosità e ridondanza delle procedure e delle impugnazioni. Insomma, per Cassese la magistratura ordinaria è il motore primo ed il responsabile unico di ciò che non va nella giustizia italiana. Ma, si badi, solo quella ordinaria e solo di ciò che non va. 

Gli altri attori di questo spettacolo, la politica, il giornalismo, l’accademia, la classe forense, la cultura giuridica, la cultura tout court, prima ancora che innocenti appaiono irrilevanti. E attraverso questa chiave di lettura, lo stato della magistratura (ordinaria) italiana finisce con l’essere considerato l’origine di gravi effetti negativi diretti sul sistema politico-costituzionale: produce inflazione legislativa, condiziona le scelte tematiche delle forze politiche e i rapporti fra queste ultime e l’opinione pubblica. Insomma, un cancro che ha pervaso la società italiana e la manipola stritolandola.

Che l’assetto e lo status della magistratura italiana non piaccia a Cassese ci sta. E’ un’opinione legittima, peraltro piuttosto diffusa. Non è l’unico a pensare che i magistrati abbiano troppo potere, siano pagati troppo, facciano troppe ferie, non rendano conto dei loro errori o siano troppo indifferenti alle esigenze della collettività (che poi significa indipendenti). Quello che scivola nell’arbitrario, si trasforma in pregiudizio malevolo e rischia di diventare prospettiva paranoide è il porre queste opinioni all’origine dell’inefficienza della giustizia e della lentezza dei processi e addirittura dell’intera inefficienza del “sistema Italia”. Si perde, così, il senso delle proporzioni, fino ad affermare che fra i fattori all’origine della prescrizione dei processi c’è -non il processo penale che non funziona o un eccesso di domanda di giustizia penale, ma più semplicemente- il “ritardo con il quale gli uffici giudicanti fissano la data del dibattimento”. Anche l’insufficiente contrasto alla criminalità organizzata diventa frutto della scarsa preparazione di chi ha diretto e dirige le indagini, con qualche rara e fortunata eccezione, beninteso. 

La visione della giustizia di Cassese diventa, quindi, così magistraturordinariocentrica che financo l’insufficiente revisione delle circoscrizioni giudiziarie e l’abolizione dei tribunalini diventa frutto della corporazione dei magistrati. 

Ora, se questo scritto è il tentativo -mal riuscito- di dirci che la magistratura italiana fa parte -a torto o a ragione- della governance del Paese e dunque ne condivide le qualità e i difetti, possiamo anche ragionevolmente seguire l’autore e discutere con lui, tentando di districarci fra gli uni e gli altri alla ricerca del modo per correggere i difetti e migliorare le qualità. Se, invece, è il tentativo di dirci che alla base dei difetti e delle deviazioni della società italiana c’è lo status della magistratura ordinaria ci arrendiamo e usciamo dalla conversazione virtuale con le mani in alto.  

Nell’incertezza, preferisco suggerire ai “romantici” di conservare intatto il ricordo delle innovative riflessioni del professore intorno alla formazione ed ai meccanismi di funzionamento dello Stato amministrativo o alla Costituzione economica, risalenti, ma sempre affascinanti.


 
[1] Organismo europeo di controllo dell’efficienza della giustizia
[2] Si tratta dell’accusa che muove agli inquirenti Al Capone in “Gli Intoccabili”, Brian de Palma, 1987
[3] Questione Giustizia n. 4/2021
[4] Ecole Nationale d’Administration

02/04/2022
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