L’entropia a mo’ d’inconsistente premessa filosofica
Non è certo un mistero che l’universo tenda all’entropia. L’entropia, come tutti sanno, è chiaramente .
Per chi ha fatto il liceo classico e sa usare il pollice opponibile quantomeno per accedere a Wikipedia, l’entropia si definisce in prima battuta come quella grandezza scientifica utilizzata per misurare il disordine di un sistema fisico, come per l’appunto l’universo. Tutto è entropia, l’esplosione delle stelle, il ghiaccio che si fonde dentro il vostro spritz, gli armadi al cambio di stagione, le idee brillanti durante un esame, i libri sopra il comodino. O i padiglioni dove si svolgono i concorsi pubblici, tipo la Fiera di Roma, per esempio.
Persino l’Amore - si sostiene - segue le indecifrabili leggi dell’entropia. Quando la guardate, quando parlate con lei, e il buongiorno più semplice che volevate dedicarle si traduce, in quel cortocircuito di neuroni che prende fuoco dentro di voi, in un imbarazzante scarabocchio verbale. Una roba confusa e farfugliata, e voi stazionerete lì, di fronte a lei, in quello stato di ciampanella generale che si aggrava di minuto in minuto, a prescindere dall'età che avete e dal numero di donne di cui conservate ancora il numero di telefono nella vostra agendina. Nella migliore delle ipotesi, agli occhi gitani di lei, che hanno viaggiato il mondo, sembrerete dei buffi personaggi imbranati, probabilmente stranieri dal linguaggio incomprensibile, e tutto questo per colpa dell'entropia.
Ma senza divagare entropicamente troppo, questa storia, essendo principalmente la storia di un concorso pubblico, come tutte le storie sui concorsi pubblici, è evidentemente una storia di entropia. E dall’entropia essa stessa non si può certo discostare. Ragion per cui, adesso, procediamo con “ordine”.
1. I GIORNI DELLA CONSEGNA
Alzo la mano, in cerchio. Ciao. Mi chiamo Gì, ho all'incirca 30 anni, e da qualche ora ho smesso di studiare, ho ripreso a parlare, e lo faccio in prima persona.
Mi trovo davanti al mare, porto gli occhiali da sole perché non sopporterei l’intensità di questa luce naturale, che riconosco distintamente soltanto adesso, dopo molti mesi di clausura. Due giovani crocerossine mi sorreggono la testa mentre bevo, a piccoli sorsi, un aperol spritz. Sono sul litorale di Ostia, in rassicurante compagnia, e mi sto riabilitando gradualmente nella società.
Fino a ieri, nel giugno del 2014, ero nei padiglioni della Fiera di Roma, tra i candidati che hanno affrontato le prove scritte del concorso in magistratura.
La mia storia è la storia ciclica di altre migliaia di persone, ma nessuno finora si è mai preso la briga di ricordare e buttare giù qualche appunto, non dico a futura memoria, ma quantomeno per esorcizzare terapeuticamente.
Innanzitutto, permettete qualche precisazione. Non è vero che il concorso in magistratura duri tre giorni, ossia i tre giorni delle prove scritte. Tecnicamente, dunque, non è un vero e proprio triduo, se non per la “passione” che il concetto inevitabilmente evoca.
In verità il concorso inizia molto tempo prima di quei famigerati giorni delle prove.
Alcuni concorsisti – i più avveduti, rarissima specie – cominciano a studiare con largo anticipo, roba di vari mesi, forse persino anni. Nei casi patologici si parla di plurimi anni, tutti sacrificati nel pernicioso culto della Dea Giustizia, o del dio minore, forse più adorato, Stipendio-fisso-a-fine-mese. Altri, invece, i noncuranti, si affacciano alle prove concorsuali per la prima volta direttamente all’atto della consegna dei cosiddetti “codici non commentati”.
I codici non commentati, per chi non ne avesse mai visto uno, sono dei mattoncini voluminosi di carta stampata piena di articoli, leggi e grida manzoniane. Per poterli legittimamente consultare durante l'esame, il candidato deve consegnarli qualche giorno prima della prima prova scritta, entro la scadenza prefissata, in modo tale che l'apposito personale preposto ai controlli possa verificarne l'ammissibilità con tanto di solenne apposizione del timbro ministeriale.
Nel materiale consultabile non sono quindi inclusi, ad esempio, gli appuntini, le note a sentenza, i bignami di enciclopedie giuridiche, non sono ammesse nemmeno le sottolineature del codice (ratio, questa, assolutamente controversa: vi è chi ritiene che nella sottolineatura si possano nascondere le soluzioni delle Sezioni Unite alle questioni più annose, soluzioni in codice Morse, decrittabili a seconda della continuità del tratteggio).
Senza perderci in troppi dettagli, diciamo semplicemente che non si può portare niente di vietato. Niente di vietato che non possa essere introdotto in modo illecito, s’intende. Ad esempio con una clandestina quanto romantica cartucciera vintage, o con un proibitissimo smartphone di ultima generazione (purché rigorosamente timbrato, sia chiaro).
Perché non mi si accusi di apologia di mezzuccio bieco in frode concorsuale, sappiate che i mezzucci non servono a niente, verrete comunque scoperti, processati, coperti di infamia, esposti alla gogna e tornerete burattini. E con questo disclaimer, legalmente sto a posto.
Ma, a questo punto, chiediamoci, più da vicino: chi è il concorsista?
Il concorsista, speciale superquark
Parte musica di Bach, aria sulla quarta corda.
Durante la stagione estiva, nei giorni della convocazione dell’esame, il concorsista è quell’animale asociale, facilmente riconoscibile, che si aggira per Roma e dintorni nei paraggi della tratta ferroviaria FR1 Fara Sabina – Fiumicino, munito di un trolley.
Ha sembianze per lo più diafane, catarifrangente ai fotoni solari e alla vita tout court, portatore malsano di ansie esistenziali, vittima consapevole, e quindi corresponsabile, di un sistema che lo induce ad agognare il riscatto sociale, nei casi patologici, o il superamento della soglia di malnutrizione dell’avvocato, nella casistica maggiormente ricorrente.
Nei giorni della consegna dei codici il concorsista arranca per le strade dell'urbe trascinando il suo personalissimo trolley triste triste, pieno zeppo di codici noiosi. Questo nostro candidato medio - che convenzionalmente chiameremo “Sisifo”- spinge il trolley su e giù dal treno diretto alla Fiera di Roma e lo fa rotolare con fatica fino alle scalette di un tunnel sopraelevato, che per l’appunto congiunge la stazione ferroviaria “Fiera di Roma” con i padiglioni della Fiera vera e propria.
Alcuni pensano che quello sia il tunnel delle anime perse, o di quelli che entrano in coma, e consigliano comunque di non avvicinarsi troppo. Di sicuro quasi nessuno lo attraversa con animo sereno.
Durante le operazioni di trascinamento nel tunnel, in quelle condizioni di disagio psico-fisico, nessuno aiuta il proprio collega, nemmeno se si tratta di un collega-donna, di gracile corporatura, incinta, con un malleolo fratturato, nell'atto di chiedere un solo bicchiere d’acqua.
Il codice cavalleresco, quand'anche conosciuto, non può trovare applicazione in quell'ecosistema. Un gesto di solidarietà, infatti, potrebbe radicalmente compromettere l’assetto concorrenziale della prova e falsare la selezione darwiniana, che culmina, in questa fase, solo all’esito del terzo giorno di prove scritte.
I rari gesti di umanità sono per lo più finalizzati a carpire informazioni o ad angosciare e obnubilare le capacità del soggetto soccorso e concorrente; nei migliori casi, invece, i gesti di “umanità” sono animati da raccapriccianti intenti di maldestro “corteggiamento”, con modalità che ci si potrebbe aspettare solo da persone ormai disabituate a interagire con il genere umano.
A onor del vero, e nonostante le molte dicerie contrarie, io posso testimoniare di aver visto pure alcune persone, non so di quale setta o consistenza, che praticavano gesti di gentilezza a casaccio e atti di bellezza senza senso, e ne serbo tuttora il ricordo in cuor mio.
Ma, in queste digressioni entropiche, dove abbiamo lasciato il nostro caro concorsista medio chiamato Sisifo?
La fila in fila col filo e Arianna?
È lì, in fila, ha visto la luce alla fine del tunnel sopraelevato e sta per varcare la soglia d’ingresso della Fiera.
Un display luminoso sormonta il primo padiglione: "Fiera di Roma - h 15.53, +34° C. Rallentare, code a tratti".
Le code.
Si procede in fila, sotto il solleone, a blocchi, per far defluire meglio il traffico.
Sulla mobilità generale sorvegliano le guardie della polizia penitenziaria. Nell’incapacità diffusa di distinguere con sufficiente nitore tra la fisionomia del concorsista medio e quella lombrosiana del criminale recidivo reiterato pluriomicida e narcotrafficante, nel dubbio e senza troppi complimenti, i gendarmi ordinano ai concorsisti di camminare cadenzati, dentro le righe della pista verde, per incomprensibili ragioni di loro deformazione professionale.
La “pista verde”, alla Fiera di Roma, è una lunga pista incomprensibilmente ciclabile, di colore verde (come il nome “pista verde” sembrerebbe vagamente alludere) che si estende per tutta l'area dei padiglioni, collegando l'ingresso dell'area della Fiera con ciascun sottoblocco.
Per molti, quella pista verde è conosciuta come “Il miglio verde”… Uomo morto in marcia, infatti, è una voce interiore diffusa in tutti quelli che, durante il triduo concorsuale, camminano con angoscia verso il patibolo del proprio banco.
Durante la marcia, il candidato cerca di decifrare la segnaletica orizzontale e verticale per orientarsi. La selezione darwiniana del concorso impone innanzitutto di non perdersi.
Alla fine del labirinto, ad un certo punto si apre alla vista di Sisifo un padiglione immenso, un enorme Wahlalla di banchetti.
Banchetti intesi come piccoli banchi, eh. E poi sedioline varie, oggetti minuti, piccini picciò, che pensavamo di aver lasciato per sempre nei ricordi delle scuole elementari. Tutta mobilia di pregevole fattura, adattissima per arredare in stile ikea la casetta dei sette nani o il cottage fuori città dell'orsetto piccolo di Riccioli d'oro. Un po' più scomodi, questi arredi scolastici, se accidentalmente usati per scriverci sopra tre temi per otto ore consecutive al giorno per tre giorni, ma vabbè.
Arrivati nel padiglione, si compiono le operazioni di identificazione e consegna dei codici, davanti ai manipoli sparsi di addetti ministeriali.
Depositati i codici, il nostro candidato, ripercorrendo le mollichine di pane che aveva imprudentemente disseminato per la strada a mo’ di Pollicino, accettando di saltare un pasto pur di guadagnarsi la via del ritorno, raggiunge il suo alloggio.
L'alloggio
L’ “alloggio”, in realtà, per lo più è una sorta di tugurio riverniciato, sorto nelle banlieu della suburra capitolina, in prossimità delle fermate della tratta ferroviaria FR1 e sotto l’onda speculativa indotta dalla pubblicazione del bando concorsuale.
Il tugurio - nel mio caso spacciato per un bed and breakfast da uno spregiudicato e pregiudicato oste della Magliana- viene affittato al modico prezzo di una suite imperiale del Grand Hotel in alta stagione.
In questa situazione di precarietà urbanistica e disagio sociale, il concorsista è ormai pronto ad affrontare le varie notti insonni e le prove scritte. Trallallero trallallà.
2. IL PRIMO GIORNO CIVILE…
Se durante la consegna dei codici il concorsista si riconosce in quanto munito di trolley, nei giorni a seguire, quelli effettivi delle tre prove scritte, egli si distingue chiaramente nei meandri dell’Urbe in quanto si aggira nelle zone adiacenti alla tratta ferroviaria munito di singolari buste di plastica trasparenti.
La trasparenza, in teoria, dovrebbe permettere alla polizia penitenziaria una maggiore celerità nei controlli e nelle perquisizioni di routine, eseguite alla ricerca di oggetti proibiti e di aiutini illeciti, che il candidato scorretto potrebbe imprudentemente introdurre a rischio della sua fedina penale e, soprattutto, della sua incolumità psicofisica.
Senza questi riferimenti, ricavati dall’esperienza ciclica della piaga concorsuale che affligge periodicamente in estate la città eterna, il civis romanus, vedendo questa fiumana di gente a giro con le buste della spesa alle 6.30 a.m., sarebbe indotto a pensare che nei vari supermercati, agli albori del giorno, si possano tenere liquidazioni totali e altre promozioni epocali.
La busta trasparente e il cibo invisibile
In realtà, in quella bustina, sacra cambusa di polietilene, il concorsista medio ripone, oltre alle proprie scialbe speranze di vittoria, anche gli alimenti da consumare durante le prove scritte, limitandosi all’essenziale: panino con porchetta di Ariccia, girelle Motta iperglicemiche, stecche di cioccolata reperite a giugno alla borsa nera, visto che la cioccolata già da alcuni mesi è fuori produzione, pocket coffee formato convenienza, succhini di frutta alla pesca per plotoni militari, birra Moretti ghiacciata. Ah, e coca-cola zero, quest’ultima per le candidate che ci tengono alla linea, si sa.
Accanto a questa versione business royale, esiste anche il pranzo a sacco per i candidati ansiosi, cagionevoli, ipocondriaci, bianchicci, emaciati in viso e con la gastrite: panino anemico integrale con farina di kamut, scaglie di prosciutto cotto da allevamento bio e rare tracce di fontina sintetica, acqua naturale oligominerale povera di sodio e a volte anche povera anche di acqua, cracker, bustine di zucchero;
in un contenitore trasparente separato e asettico, invece:
paracetamolo, gastroprotettori, antipiretici, gutron per la pressione, sali minerali, vitamine, betabloccanti, benzodiazepine, cerotti e maalox. Il tutto con i bugiardini rigorosamente timbrati dal Ministero.
(A titolo personale, ricordo di aver scelto, a pranzo, l’opzione 3 cracker in 3 giorni. Stay hungry, stay foolish).
Ma la busta trasparente non contiene solo cibo e medicinali: essa contiene al suo interno le penne nere, blu, le matite, post-it, e, per i più zelanti, i tappi per le orecchie e forse il goniometro.
Con questi sacchetti, il concorsista medio Sisifo viene stipato in piedi sul treno che lo conduce dalla sua stamberga-dormitorio alla stazione di Fiera di Roma.
Statistica I fino al padiglione
Sisifo, sveglio dalle 5 a.m., scende alla fermata Fiera alle h.7.53.
Alle h 8.24 ha percorso non più di dodici metri, che non gli bastano nemmeno per prendere le scalette del tunnel, stante l’affollamento generale.
Si vocifera che il numero dei candidati sia addirittura superiore a quello delle domande presentate, così eguagliando le presenze ai concerti capitolini di quei giorni dei Rolling Stones e di Vasco Rossi. Poche centinaia, invece, i concorsisti secondo la questura.
Dal primo giorno in poi, le voci sui numeri si rincorrono, sfuggono a ogni forma di controllo della ragione, trasfigurando nel culto cieco per la statistica estemporanea e nella mitologia concorsuale.
E dare i numeri, in senso stretto e in senso lato, diviene una costante.
Numerologia della fauna chi ti circonda
Un chiaro esempio, in questo senso, ce lo testimonia il povero Sisifo. È lì, si trova a dover fare l’ennesima interminabile coda per arrivare al proprio banco, è circondato da colleghi improbabili. Questi, in totale dispregio di eventuali incriminazioni per procurato allarme, si intrattengono nella più bieca attività del “tototraccia”. Sono molto quotati i temi del danno tanatologico, la causalità nei reati omissivi, Ungaretti e dicono forse anche Cicerone.
I concorsisti veterani, poi, diffondono i segreti di iniziazione agli adepti più sfortunati e suggestionabili. Corre voce, ad esempio, che la materia del tema odierno si possa individuare dal colore del timbro apposto sulla scheda di identificazione. Secondo altri, invece, sarebbe sufficiente eviscerare i gabbiani che stazionano sul padiglione 4 per vaticinare il titolo della traccia e il meteo del fine settimana.
Questa terribile attesa affligge il nostro povero Sisifo, messo lì, con la sua tenera bustina di plastica, per lunghe, lungherrime ore, in cui a stento cerca di dribblare i candidati ansiogeni, gli aruspici portatori di zella, i millenaristi più truci e i concorrenti umanamente più pericolosi: quelli che hanno frequentato, anche per un solo fine settimana, la famigerata scuola di preparazione *****.
Costoro si ritengono gli Eletti, depositari di un sapere esclusivo impartito oralmente dal loro Messia. Fonti anonime narrano che a costoro venga suggerito anche di evocare, in sede di prova, informazioni assolutamente false e istituti giuridici inesistenti (come il contratto a favore di quarto o la teoria del contatto sociale), tutto al fine di depistare, spargere il panico, eliminare la concorrenza, asfaltare il prossimo, soverchiare l’orfano, la vedova e l’indigente candidato figlio di impiegati statali ormai in pensione.
Seminati questi nefasti colleghi, aspiranti magistrati nonché brutte persone, oltrepassato ormai il miglio verde, al nostro Sisifo non resta che superare gli ultimi controlli, le perquisizioni e il metal detector.
Tutto sembrerebbe andare liscio come l’olio del panino con la porchetta di Ariccia che si scioglie nella busta di plastica, quando la Legge, nelle sembianze dei gendarmi col basco blu laterale, la cintura ad altezza ascellare e le scarpe tonde di ordinanza, rinvengono nell’astuccio di un malcapitato - verosimilmente dietro soffiata di qualche agente del Mossad o informativa dei servizi interni deviati - un pericolosissimo e sovversivo pugnetto di post-it colorati. Quei post-it vengono quindi immediatamente requisiti, confiscati e ammassati in uno scatolone ministeriale, si narra nascosto in un caveau sotterraneo di Via Arenula, sede del Ministero.
Sisifo, preso dallo sgomento, si autodenuncia e consegna spontaneamente al primo posto di blocco utile i post-it che deteneva incautamente nel suo astuccio. La mitologia concorsuale vuole che su quei foglietti adesivi, di cm 1 x 1 cm, il candidato possa scambiarsi illegalmente coi colleghi i temi già fatti, miniati e cesellati, e anche le Institutiones di Gaio con testo a fronte.
Dopo i controlli, ancora un'altra attesa.
L'attesa come per la volpe del Piccolo Principe ma peggio (benché meno stucchevole)
Il candidato entra in una bolla spazio-temporale.
In proposito si narra che la teoria scientifica della relatività, e in particolare il paradosso dei gemelli, siano stati formulati con riferimento a due fratelli omozigoti, dei quali uno libero e felice, l’altro aspirante magistrato: nella stessa quantità di tempo “q”, il primo vive normalmente, si alza, fa colazione, va a lavoro, torna a casa, si fa una famiglia, compra la villetta al mare, l’automobile nuova e la lavastoviglie.
Il secondo, invece, nel sistema di riferimento assiale di un padiglione della Fiera, nel giro di poche ore, medesima quantità di tempo “q”, invecchia precocemente, gli si infeltriscono i vestiti, gli cresce la barba (anche se è un candidato donna). Il tutto, per l’appunto, stando fermo su quel banchetto di scuola, in preda alle palpitazioni, aspettando la dettatura della traccia.
Quell’attesa, in realtà, viene affrontata in modo diverso dalle plurime figure di concorsista. Se ne possono immaginare alcune.
I più, c.d. peripatetici nomadi, percorrono in lungo e in largo il padiglione, facendo i solchi sul pavimento con le loro scarpe da ginnastica, avanti e indietro con moto oscillare perpetuo, a mo’ di Zio Paperone nel pensatoio, quando doveva escogitare nuovi metodi per sventare gli attacchi al deposito da parte dei Bassotti.
Altri, invece, i logorroici, intrattengono relazioni, diffondono notizie varie (notizie false se si tratta dei logorroici della scuola *****), bisbigliano di continuo. Le loro voci, quand’anche sussurrate, per l’effetto butterfly si sommano esponenzialmente dentro al padiglione concorsuale, e giungono persino a coprire i rumori assordanti dei boeing della vicina Fiumicino.
Altri ancora, gli stanziali accidiosi, mettono le tende intorno al banco con la propria matricola e diventano un tutt’uno con la mobilia scolastica, per lo più dedicandosi ad attività di ascesi mistica. Ognuno, insomma, la vive come può e come vuole.
L’attesa, dico.
Quella forma sofisticata di silenzio, operosa preghiera, travaglio di speranza stretta fra le labbra, scandita nel vento silenzioso che benedice, vertigine e abbandono di chi confida nella presa di grandi braccia.
Durante quell'attesa qualche candidato si accascia a terra, in posizione fetale, qualcuno si abbraccia le ginocchia e inizia a dondolare, in molti giurano di sentire ancora quelle voci.
L'estrazione del tema, del lotto o del dente del giudizio
“Quelle voci”, in realtà, provengono dagli altoparlanti, presenti in tutti e quattro i padiglioni dove sono dislocati i candidati. Altoparlanti che, ovviamente, funzionano male. Piano piano “quelle voci” si schiariscono pure. C’è quella stridula ufficiale di Via Arenula, che ci informa sulla logistica. E poi c’è quella del Mega Presidente Galattico della Commissione Centrale Suprema, entità celestiale ed eterea, che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.
All’improvviso, inaspettatamente, viene data lettura della prima traccia.
La traccia viene solitamente estratta, tra i titoli proposti dai commissari, da un candidato volontario, affetto da manie di protagonismo, mitomane tracotante, che sfida le moire del destino. Su di lui si abbatteranno macumbe di ogni sorta per i prossimi decenni, soffrirà grandi carestie, la sua dimora sarà invasa dalle cavallette, le sue greggi periranno e non verrà mai invitato alla mia festa di compleanno. Ecco.
La traccia scelta il primo giorno è una traccia di diritto civile. Ed è, tutto sommato, abbastanza civile anch’essa. Il resto, dopo la dettatura, è apnea di otto ore, battito di ciglia con un sorso d’acqua e un cracker, rumore bianco dentro i tappi fosforescenti, mano che scrive, giurisprudenza creativa, e io speriamo che me la cavo, fino alla consegna del tema da imbustare e affidare nelle mani della suprema Commissione.
Ed è subito sera.
Orario di consegna, sigla, sigla sul libretto personale di riconoscimento, titoli di coda, sipario.
E poi in coda, verso la stazione, per tornare a “casa”. Evitando di incappare, quasi fossero pariah, in coloro che, a quell’ora, hanno ancora le forze e il cattivo gusto di commentare i temi svolti, proponendoti con arroganza la loro versione su come sicuramente doveva essere impostato l’elaborato (per inciso, di tutti quelli lì, nemmeno uno ha raggiunto la sufficienza in alcun elaborato, tiè ).
Varie stazioni ferroviarie più in là, intorno alla quattordicesima forse, Sisifo viene deposto fuori dal treno e ritorna carponi dentro al suo “appartamento”.
Doccia, centrifuga, riprende il cellulare lasciato sul tavola, avvisa la Farnesina e i parenti che va tutto bene, e poi fuori, a caccia di cibo. Poi il rientro, tutti come automi, nelle proprie stamberghe, i rituali di preparazione per il giorno dopo, la farcitura del panino per il giorno dopo, ad opera di qualche anima pia caritatevole, la prolunga affettuosa del phon di Aly, i documenti in fila sul tavolo e i vestiti pronti per l’indomani, appoggiati sulla sedia.
E fu sera e fu mattina. Secondo giorno.
3 …IL SECONDO GIORNO E' MENO CIVILE
Se il primo giorno è stato estratto civile, il secondo e il terzo non possono che essere naturalmente meno civili.
Sisifo, mi hanno raccontato, si è svegliato con la netta sensazione che il meglio sia già passato, e ce lo siamo lasciati alle spalle. Come un mantra, gli torna alle orecchie, rivisitato, il motivetto “il diritto civile, il fatto penale, il nulla costituzionale e quindi amministrativo”, e se lo canticchia dentro di sé, senza motivo.
Il secondo e il terzo giorno, in linea di massima, seguono lo schema del primo. Il candidato prende il treno, cammina in coda, supera il miglio verde col suo sacchetto trasparente in mano. Tutto uguale, salvo i dettagli.
Tra questi dettagli, c’è che alla stazione di Fiera di Roma il secondo giorno piove, o più precisamente diluvia proprio. Passerà anche questa stazione senza far male, passerà questa pioggia sottile come passa il dolore...
Ma è solo dopo la dettatura della traccia di penale che il cielo si squarcia, fulmini, tuoni, addirittura va via la luce dai padiglioni di tutta la Fiera.
La torcia, il cerotto e poi il filetto
“Non può andare via la luce alla Fiera di Roma, siamo nel 2014, Thomas Edison ha cominciato nel 1878… A distanza di 136 anni, se ne saranno fatti di progressi dal primo filo incandescente di marzapane” - penserebbe il candidato medio, che è mio fratello e figlio unico, e crede pure nella Giustizia.
E lì, dopo che il concorrente della scuola ***** ha canticchiato tre volte, a Sisifo tornano in mente le parole del suo Mentore: “Portate con voi una torcia, nel caso in cui vada via la luce, guadagnerete così momenti preziosi per scrivere il vostro tema”.
Cosa si darebbe, in quelle occasioni, per un cerino, un piccolo led che t’illumini d’immenso, per poter tornare indietro. Per fortuna, però, Sisifo, pur non avendo osservato quel consiglio, ha comunque fatto tesoro di altri insegnamenti e si è portato dietro perlomeno i cerotti.
I cerotti? Che cosa c’entrano i cerotti? – diranno in molti.
Al di là del fatto che i cerotti ben potrebbero essere utilizzati in elusione del divieto di introdurre post-it, bisogna considerare che essi sono fondamentali per fasciare le ferite della battaglia, così evitando di versare sull’elaborato copiose tracce di sangue umano. Si aggiunga poi che la Commissione, che ha in dotazione pure il luminol, facilmente potrebbe interpretare quelle gocce di sangue come un chiaro segno di riconoscimento, idoneo a giustificare la vostra esclusione.
Quel cerottino intorno al neonato callo dello scrittore, è veramente un toccasana per Sisifo, gli allevia il dolore mentre ricopia l’elaborato, quando la fatica si fa grande, in mezzo a tutto quel disagio. Di avvicinarsi alle toilettes per sciacquarsi il viso, poi, nemmeno per idea, ci sono file di tre quarti d’ora, salvo che la penitenziaria decida, sul più bello, di sciogliere manu militari ogni assembramento non autorizzato, frustrando così ogni aspettativa maturata in coda, di diritto e fisiologica.
Con una forza che non è la sua, con un sostegno che gli deriva dal Cielo, Sisifo, come me, comunque finisce il tema e consegna.
Stessa trafila del giorno precedente per tornare nel proprio tugurio, coi paraocchi e i tappi ancora infilati nelle orecchie.
C’è solo la consapevolezza di aver scollinato, due prove su tre sono ormai alle spalle. Rimane il terzo giorno e poi la trasognata libertà.
Io c’ero. Il filetto proteico alla tavernaccia per sostenermi, i miei amici, le chiacchiere leggere con Christian, gli occhi immaginati di lei, la telefonata a mamma e papà, che nonostante i trent’anni circa, sorprendentemente mancano così tanto in certi momenti.
Poi l’abat-jour che si spegne, le preghiere libere e i pensieri sottovoce, e ancora il volto e il sorriso di lei che non c'è ancora, sulla rètina della memoria, che mi accompagnano nelle piccole ore di sonno caricate a salve.
E fu sera e fu mattina, terzo giorno.
4. IL TERZO CHE SA DI LIBERTA'
Sisifo si aggira ormai con sicurezza consolidata, agli albori del giorno, intorno alla stazione di Trastevere.
Oggi è diverso, la sosta sulle panchine della stazione, in attesa del treno, è calma sottile e fiducia leggera, adagiata sulle palpebre e cinta intorno alle tempie. C’è meno gente, al terzo giorno. Le code sono più celeri. Qualcuno si è ritirato, qualcuno ha ceduto.
Astrologia, statistica II e procurato allarme
Con particolare attenzione alla questione di chi c’è e di chi invece se n’è andato, ogni concorsista medio ha acquisito, nel mentre, abilità matematiche a lui sconosciute.
Quello che fino a poco tempo prima avrebbe mostrato imbarazzanti difficoltà persino nell’avvicinarsi a un un pallottoliere, in tre giorni di concorso è ormai diventato un perfetto Nando Paglioncelli de’ noattri, un Mannheimer concorsuale, in grado di calcolare le presenze dei concorrenti con l’abilità di Rain Man e il genio di John Nash: rilevazione persone sedute, numero consegnanti, ritirati, banchi vuoti, ritmo di stesura del tema, numero di sguardi rassegnati rivolti al soffitto, situazione di stallo o di moto delle penne a sfera dei candidati vicini.
Incrociando questi dati, la statistica più creativa offre, oltre alle speranze di qualificazione, anche gli exit poll sulle papabili tracce del terzo giorno.
Intanto, però, le voci diffondono notizie particolari, dai contorni inquietanti. Nei bagni, prima ancora della dettatura della traccia, sarebbero stati trovati, nel padiglione 3, dei temi già svolti sulla terza prova, ancora da affrontare, insieme a dei codici commentati, con i timbri del Ministero.
Certe parole, “concorso-truccato-trovate-tracce-già-svolte”, in combinato disposto tra loro, in sede concorsuale suonano come il lemma “bomba-bomba-bomba” sulla tratta aerea Teheran – New York.
Tra i concorrenti, le posizioni più disparate a riguardo, che qui potremmo riassumere ricalcando le famose note di De Gregori.
Alice guarda ai fatti, e altri gridano alle sòle, mentre il concorso sta girando senza fretta. Irene, al quarto banco, è lì tranquilla e pensa che, magari, qualcuno nei bagni
avrà detto: “mi vedo una faccia da primitivo stravolta”. E da lì si è diffusa e incarnata la voce: “ho trovato la traccia di amministrativo già svolta”.
Ma io non ci sto più, gridò il focoso e poi, tutti pensarono, dentro ai cancelli, il padiglione è impazzito, o il concorso è truccato, Mariarosa aspetta un foglio, e la Commissione poi lo sa, non è così che finirà.
Qualcuno ribadisce le irregolarità presunte. Da lì allo scatenarsi di possibili tumulti del pane, il passo è breve. Il concorsista, fattosi popolo, è pericoloso. Minaccia disordini, crea ed asseconda entropia, solleva e produce i facinorosi, forma capannelli, progetta strategie militari di occupazione, organizza falangi oplitiche a testuggine per sopraffare la penitenziaria.
Scenari apocalittici si prospettano: annullamento del concorso, dopo tre giorni di fatiche, sulla base di “voci” o forse di “fatti”. Non è una differenza da poco.
Ma tutto questo Sisifo non lo sa
Ma tutto questo, se i fatti incresciosi siano realmente avvenuti o meno, Sisifo non lo sa, né forse lo vuole sapere adesso. Lo vedo laggiù, resta britannicamente e seraficamente composto, seduto al suo banco, aspetta che il cadavere del nemico gli scorra davanti, lungo il rivolo d’acqua che si è formato ormai, per la condensa, dai bocchettoni dell’aria condizionata.
La temperatura esterna è di +37° C. Dentro ai padiglioni, invece, praticamente Copenaghen a gennaio. I più avveduti si calano il passamontagna. Gli altri puntano sugli antipiretici, decongestionanti nasali e voltaren per le contratture più resistenti.
Dalle 8 alle 12 a.m., ancora, nessuna dettatura, solo potenziali tumulti repressi dalla sorte anticoncezionale, più che dalla fine diplomazia dei gendarmi col manganello. E, ancora, intense promenades e attesa kafkiana.
La concentrazione per il tema di amministrativo è veramente una velleità marginale.
Ma alle 12.05 compare la Commissione, risuona la voce dall’altoparlante, e l’ultimo titolo viene dettato. Da quel momento in poi è di nuovo apnea e resistenza, ma per l’ultima volta.
Alle 16.35, dopo quattro ore dalla dettatura, quando si può iniziare a lasciare l’aula, si assiste all’esodo generale e alla diaspora dei rassegnati. Gli statistici aggiornano i loro diagrammi di Eulero Venn e segnano i nuovi punti di ottimo, alcuni esultano per il ritiro di poche unità di concorrenti. Altri candidati, invece, vengono radicalmente eliminati nel momento in cui, su denuncia di delatori occhialuti, sono sorpresi a detenere materiale proibito, tipo giornaletti sporcaccioni con le glosse a margine di Irnerio .
Sedicenti testimoni diretti narrano, in proposito, di aver assistito alle manovre di accerchiamento del candidato, criminale cinico e baro, da parte della penitenziaria, con conseguente espulsione e rischio di linciaggio. In manette, il furbetto viene trascinato fuori e condotto in gattabuia.
“Sembrava tanto una brava persona, cordiale, salutava sempre”.
In questa molteplicità disordinata di episodi, le lancette digitali scorrono, qualche sguardo circospetto e diffidente in direzione del vicino, per scrutarne le intenzioni e sperare biecamente nella sua soccombenza. Mors tua, vita mea e altre guerre tra povery.
Sisifo, invece, lo vedo sempre lì, coi paraocchi e i tappi nelle orecchie, fa il suo e cosissìa.
La penna magica sul finale e il giusto affidamento
A un certo punto, però, il crampo dello scribacchino. Ogni tratto di penna è un colpo di accetta a un tronco di baobab, sotto le sembianze di un innocuo foglio di carta protocollo.
La tensione è palpabile, la crisi di nervi è ormai prossima, proprio quando servirebbero invece abilità di scrittura bustrofedica. Il crampo a pochi metri e minuti dalla fine, durante la copiatura, beh, quello no, non si accetta, è veramente insopportabile.
Solitamente, in questo genere di vicende, giunti al climax di massima tensione, la scansione dei momenti della favola postulerebbe, secondo Popper, l’apparizione necessaria, quasi doverosa e dal nulla, di un oggetto misterioso, in ausilio del protagonista: tipo la penna dalla piuma magica, che scrive sotto dettatura del pensiero. Sisifo si accontenterebbe di un barattolo di spinaci di Braccio di Ferro, di un po’ di pappa reale e ginseng, vorrebbe letteralmente una mano da qualcuno per copiare il tema in bella.
Quando ormai i nervi stanno per capitolare ed è alto il rischio di mettersi a piangere per lo sconforto, dal fondo della sua busta di plastica trasparente emerge qualcosa, in controluce, come trafitto da un raggio di sole inaspettato …
Si tratta di una comunissima bustina di zucchero da bar, l’ideale per alimentare uno scialbo effetto placebo, così da rimettere in moto la scrittura. Con fare teatrale, strappata la bustina con i denti, con accentuata smorfia di dolore Sisifo se la rovescia direttamente sulla coscia, quasi fosse morfina in uno scenario di guerra. Sentendosi un sopravvissuto, dentro a tutto quel Vietnam, si riannoda un altro cerotto intorno al callo dello scribacchino e prosegue finalmente nella copiatura.
Termina proprio in extremis, giusto al compimento delle otto ore.
Il resto sono i passi fino alla consegna.
Affido il plico nelle mani della Provvidenza. In manus Tuas, Domine.
Da quel punto in poi, è solo una piena di gioia che esonda, gratitudine di esserci ancora, odore di libertà spalancata, musica gitana ed euforia naturalmente gassata, che ti solletica l’anima.
L'uscita dal tunnel lel lel lel del divertimento
Si consumano i preparativi di ritorno a casa, casa quella vera. Alcune guardie zelanti aiutano sistematicamente fanciulle con mise trasparenti (al pari delle buste, forse per facilitare le ispezioni) nel trasbordo dei codici dal padiglione al magazzino dei trolley.
Sisifo spinge ancora la sua valigia rotolante, ma quel peso, adesso, è più leggero.
Alle 20.30 circa della fine del primo mese d’estate, fuori dalla Fiera di Roma il sole è steso ad asciugare i pensieri sopra il filo dell’orizzonte, è una palla gigante arroventata arancione, come non la guardavo più da mesi. L’aria, intorno alla stazione, è impertinente, sa di libertà compressa ed esplosa tutta insieme, all’improvviso, dopo il letargo operoso. Profuma come una cambiale in acconto sulla felicità, e mi porta vivo il ricordo degli occhi di lei.
Tutti quelli che si tirano le valigie in direzione del tramonto, poi, sono un perfetto finale chapliniano. Le auto sul raccordo, in lontananza, hanno quasi un sapore bucolico, e sono le automobili più belle che abbia mai visto inquinare negli ultimi mesi.
Ritrovo alcune amiche e amici fuori dalla Fiera. I metri che ci separano gli uni dagli altri sono uno scatto di Bolt alle Olimpiadi, che spalanca un abbraccio lungo tre giorni. Sono distrutto, ma ho voglia di saltare, di correre, di fare il carosello ed esultare, anche se abbiamo perso ai mondiali di calcio in Brasile, anche se i miei temi dovessero essere inceneriti da un fulmine o mangiati dalle formiche.
Adesso continuo ad attendere, ma è un’attesa nuova, che rende barocca la gioia di questo momento, come ha scritto qualcuno.
5. EPILOGO E VOCE DEL VERBO MARE
Se il triduo concorsuale non è, tecnicamente, solo un triduo, ciò si deve anche al fatto che Roma ti invita, il giorno dopo la terza prova scritta, a compiere un gesto liberatorio, indicandoti la via del mare, così prolungando la-tre-giorni con un po’ di meritato relax.
Thalassa, thalassa. Ecco dove sono adesso.
Certo, siamo d’accordo, Ostia non è Fregene, che non è Portofino, ma quel che conta è il mare in sé, che scioglie i pensieri essiccati dal tramonto del giorno prima, dissolve, almeno per un po’, le incertezze stratificate. Fa da decanter ai sogni sedimentati, li ossigena e li lascia benedire dal vento, che li spinge fuori, verso l’orizzonte del mare aperto, oltre le dodici miglia dalla riva.
Certo, quando i Romani consigliano di andare al mare a Ostia, potrebbero pur specificare, di grazia, che ad Ostia si va preferibilmente a prendere soltanto il sole, e non è consigliabile fare il bagno troppo a lungo, posto che l’acqua, come ho scoperto solo troppo tardi, non è certo in tutti i punti a cinque bandiere blu.
E’ vero, un legittimo sospetto sull’insalubrità dei luoghi avrebbe anche potuto destarla la totale assenza di bagnanti in mare alle ore 15 di fine giugno, ma chi ci va a pensare a questi sofismi, quando scocca l’ora della felicità… Un po’ di criptonite non ha mai fatto male a nessuno.
Io sono qui, adesso.
Ho un orribile costume improvvisato, blu-plastificato, non premeditato, trovato per caso, all'ultimo minuto,da Calzedonia (che amarezza), e mi permetto il lusso di indossarlo distrattamente, senza aver nemmeno staccato l’etichetta col prezzo. Sono ridicolo.
Ma non posso perdere neanche un solo istante di libertà marina.
L’essenziale, qui e ora, si percepisce distintamente, come il superfluo, che imbelletta la giornata, zuppo di coreografie, nelle impennate assordanti, tra le nuvole e le scie di queste frecce tricolori che vengono da Pratica di Mare e di questi gabbiani roteanti nell'aria aperta.
Mi basta questo spritz, con le prime molecole di alcol che conquistano il sangue dopo mesi di astinenza dall’ebbrezza, e issano un vessillo di leggerezza frizzante, gonfiato dal respiro di un sorriso certificato, quello di lei.
Mi bastano queste canzoni, De Andrè, Capossela, De Gregori, il Mare d’inverno, anche se qui ci sono 37 gradi, ma va bene chicchessia, adoro questi ritornelli storpiati a caso, a squarciagola, amplificati dalle mani di lei, che regge la musica dell'Ipod.
Mi bastano proprio queste parole, a casaccio, questa Bellezza, pulsante e viva, queste corrispondenze involontarie da settimana enigmistica che voglio trovare nel suo sguardo, queste naturali coincidenze appuntate e custodite nei miei ricordi più riparati.
Non so che fine abbia fatto Sisifo. Né gli altri, le migliaia di altri come lui. Mi piace pensare che adesso siano tutti in borghese, riversi a quattro di bastoni, nelle località balneari, intenti a mimetizzarsi tra i costumi tradizionali del resto del belpaese vacanziero. Ex candidati, ora irriconoscibili ed indifferenziati in mezzo alla comunità dei bagnanti.
Forse se ne scorge ancora distintamente qualcuno sulla spiaggia. Guarda quello lì, c’è l’esaltato, posseduto dall’idea di poter diventare pubblico ministero, mentre indossa la toga di Harry Potter.
Gli altri concorrenti si fanno invece irriconoscibili. Salvo quei minuscoli tic nevrotici che non sfuggono all’occhio attento del reduce concorsista. Che forse ancora si sveglia improvvisamente, nel cuore della notte, con urla digrignate tipo “basta, vi prego basta”, e forse ha ancora dei sussulti repressi in gola quando al telegiornale pronunciano qualche parola dei titoli estratti, come “riciclaggio”, “ricettazione”, o sintagmi tipo “Fiera di Roma”.
Ciascuno è un reduce, ciascuno ha la sua storia. Avventurosa, meravigliosa, piena di senso nuovo o banale che sia.
Io, questa varietà multiforme, l’ho appena appena condensata, e, non avendo avuto abbastanza tempo, mi è uscito fuori un racconto lungo e noioserrimo. E quindi entropico, senza andare fuori tema.
C'è chi si è fatto una scampagnata nella capitale. Chi ha sperato, con o senza fondamento, dall’inizio, o solo sul finale. Chi ha gareggiato come fosse il respiro naturale di una scalata cominciata anni addietro, il punto messo alla fine della montagna. Chi ha faticato, metro dopo metro, ingolfando pensieri in brutta copia per tre giorni di fogli protocollo. Chi ha un po’ barato ed è stato sorpreso in flagranza, o con sua grande sorpresa, non è stato mai beccato, fra capo e collo, dai gendarmi di stanza. Chi si è ritirato decotto, e chi si è incollato invece a quella sedia, con la fame di un lavoro, o forse sedotto dal sacro fuoco di un mestiere, persino remunerato. C'è poi chi ha fatto il concorso – direbbe De André – per imboccar la strada che dalle panche d'una cattedrale porta alla cattedra d'un tribunale, giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male. Diffidiamo da questi.
Io, più modestamente, che in questa terra non so fare certo l’arbitro né il guardalinee, sinceramente non me la sento di assolvere o di condannare nessuno. Conoscendo alcune delle miserie e fragilità umane, ho soltanto trascritto, in questo racconto, le cronache del mio triduo concorsuale. Per cui, al Lettore paziente chiederei ora, a mia volta, il favore, del tutto personale, di guardarmi attentamente in faccia, dopo questi giorni, così emaciato e sfinito, quasi da ospedale.
E di volerne tener conto, se proprio mi vuole, o deve, per forza giudicare.
Un concorsista