Dopo un lungo percorso di crescita e di faticosa acquisizione di autorevolezza e credibilità, che ha portato la magistratura italiana ad essere una delle più importanti strutture portanti del nostro paese ed una delle magistrature più stimate in Europa e nel mondo, oggi ci troviamo a poter essere quasi derisi da qualsiasi personaggio più o meno pubblico (per non parlare degli amici e conoscenti di ciascuno di noi), senza riuscire a stimolare -e neppure a spendere- parole credibili in nostra difesa. Ma come siamo arrivati fin qui?
Come i più anziani di noi ricordano sulla propria pelle, l’Italia della “guerra fredda” è stata per la magistratura un paese molto difficile. A lungo dilaniata da dinamiche sociali e politiche dure e attraversata da steccati ideologici che contrapponevano i due “blocchi”, l’Italia faticosamente e dolorosamente cercava di costruire la sua dimensione democratica fra terrorismo, mafia, servizi segreti deviati ed una logica di “primazia” della politica su tutto il resto del tessuto civile ed ordinamentale. Tutto era politica. E su tutto prevaleva la dimensione politica. Persino “il personale” era “politico”, come si diceva negli slogan più ricorrenti.
In quella Italia la magistratura, pur con grandi difficoltà e conflitti, è cresciuta moltissimo ed è diventata un punto di riferimento istituzionale per tutto il Paese. Non è stato facile né indolore. In qualche decennio siamo passati da una magistratura gerarchizzata, strutturata intorno ai “capi”, fintamente neutrale rispetto al potere, piuttosto marginale rispetto ai gangli decisionali e poco autorevole, ad una magistratura distinta solo per funzioni, in prima linea nella tutela dei diritti, profondamente radicata nel tessuto democratico, capace di inverare i valori costituzionali ed impegnata ad effettuare un controllo di legalità senza riguardi verso nessuno, pagando costi talvolta molto alti. Una magistratura autorevole punto di riferimento.
Quel cammino è stato reso possibile innanzitutto dalla trama ordinamentale ed istituzionale disegnata dalla Costituzione. Che ha cancellato ogni tentazione gerarchica e accentratrice, facendo entrare fra i magistrati la democrazia e il principio di eguaglianza e soprattutto ha messo al centro l’indipendenza e autonomia quale garanzia per i cittadini. In secondo luogo è stato reso possibile dalla corrispondente acquisizione di consapevolezza della Magistratura, la quale ha vivificato quel tessuto normativo con un associazionismo impegnato e pieno di fermenti, di dibattito e anche di scontri ideologici, ma sempre all’interno di un quadro di valori di riferimento comuni. Quanto serve a farne un potere dello Stato. E infatti ha acquistato un ruolo sociale straordinario, unico nel panorama internazionale.
Anche in quella Italia attraversata da scontri ideologici feroci e ferita gravemente di continuo da morti a cui talvolta parti dello Stato non sembravano neppure completamente estranee, la magistratura -anch’essa attraversata da divisioni importanti e talvolta drammatiche- non ha mai perso la capacità di identificarsi nei valori fondanti comuni e non ha mai messo davvero in discussione la propria appartenenza ad un corpo sufficientemente unitario da restare associato in un’unica struttura comune, sia pure articolata per gruppi. Pur se attraversata da visioni della giustizia e del ruolo della magistratura così profondamente diverse, essa seppe costruire e conservare la consapevolezza del prevalente patrimonio comune e della forza di questa unità. Seppe capire che per avere dei magistrati indipendenti e autorevoli occorreva avere una magistratura indipendente e autorevole.
Il senso di questa difficoltà e di questa scommessa è reso particolarmente evidente dalla storia in particolare di due gruppi (o se preferite “correnti”): Magistratura Democratica e Magistratura Indipendente, non a caso ancora oggi così lontani. Questi due gruppi hanno indiscutibilmente fatto della cifra culturale opposta il loro valore fondante e della militanza opposta il loro impegno. Magistratura Democratica è nata come una sorta di eresia nella magistratura degli anni ‘60, svelando ed anzi rivendicando la “politicità” della giurisdizione ed il ruolo centrale della magistratura nella tutela dei diritti. Al netto degli eccessi e degli errori, che certamente non sono mancati, ha voluto testimoniare che l’interpretazione delle norme nel mondo moderno non è estranea alle scelte di valore, che la Carta costituzionale declina la gerarchia dei valori che soccorrono l’interprete e che il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. è il faro che illumina tutto il percorso. Magistratura Indipendente nacque per proporre un modello di magistratura conservatrice e soprattutto per testimoniare la neutralità della giurisdizione, la separatezza della magistratura dalla società e la sua gelosa estraneità alle dinamiche politiche quale architrave della propria indipendenza. Al netto delle cadute e delle deviazioni, che certamente non sono mancate, ha avuto l’aspirazione di combattere ogni collateralismo con la politica, convinta che la magistratura giustifica il proprio ruolo ed il proprio enorme potere solo restando lontana ed estranea a qualsiasi agone politico.
Salve le distanze fra il dire e il fare, che insidiano la strada di tutti.
Ovviamente la storia della magistratura -e men che meno l’oggi della magistratura- non si esaurisce certo con questi due gruppi. Tutt’altro. Molti sono i fermenti, anche estremamente vivificanti, che si sono affacciati e avvicendati nel corso del tempo, portando nella magistratura valori altrettanto ricchi e caratterizzanti; taluni, come Unicost, raggiungendo livelli di consenso davvero formidabili e forse irripetibili. Sono stati fermenti così numerosi che io stesso faticherei a ricordarli tutti. Ma mai così radicalmente opposti come quelli descritti e rappresentati da MD e da MI.
Ebbene, nonostante questi due gruppi opposti siano nati e cresciuti (e in qualche modo si siano reciprocamente legittimati) in un’epoca dilaniata dagli steccati politici e dalle contrapposizioni ideologiche, financo essi non hanno mai smesso di sentirsi parte dello stesso corpo, di riconoscersi in un patrimonio di valori comuni e di costruire insieme un organismo associativo unitario che fosse la casa di tutta la magistratura. In fondo, magari senza dirselo, non hanno mai smesso di avere consapevolezza e di accettare il nucleo di verità che ciascuna di queste pur così opposte visioni contenevano.
In definitiva, la magistratura nel suo complesso sinora non ha mai perso la capacità di capire che, pur se attraversata da visioni così diverse, la declinazione “alta” di tali visioni conteneva comunque il nucleo di valori fondante l’essenza stessa della magistratura e del suo essere un potere dello Stato: la tutela della legalità ed in primis della legalità costituzionale; il valore dell’autonomia e dell’indipendenza; la centralità del consiglio superiore della magistratura; la soggezione soltanto alla legge; la distinzione solo per funzioni. Non è poco. Ma soprattutto non ha mai smesso di avere la percezione della dimensione collettiva e di corpo che la magistratura assume in seno alla società e nell’architettura istituzionale dell’ordinamento italiano, consapevolezza fondamentale per tutelarne efficacemente l’indipendenza e l’autonomia. Questa consapevolezza finora non è mai mancata alla magistratura, che ha capito l’insidia di una visione eccessivamente individualista e “monadista”.
Ma nulla resta fermo. Paradossalmente, nella società deideologizzata di oggi, in cui le coordinate più consuete risultano desuete e in cui gli stessi concetti di destra e sinistra sembrano perdere di significato, proprio in questa società la magistratura rischia seriamente di spaccarsi, sfilacciarsi, dividersi e perdere il senso del proprio ruolo e della propria dimensione collettiva, creando le condizioni per rendere possibile ciò che fino a ieri sembrava impossibile: ridimensionarne l’indipendenza ed il ruolo sociale. Da che mondo è mondo dividersi e separarsi significa indebolirsi e creare le condizioni per essere colpiti.
E’ del tutto evidente che le gravissime recenti vicende emerse intorno al caso Palamara-Ferri costituiscono un evento per certi aspetti unico e dirompente. Valutarne lucidamente e senza ipocrisie l’esatta portata è compito tanto necessario quanto difficile. In questa vicenda, ancora in larga parte da affrontare, si intersecano, infatti, personali deliri di potere e radicali cadute dell’etica di più di un ceto professionale e politico, con il senso e con le derive dell’associazionismo.
Sarebbe ingenuo e ipocrita nascondere che nel corso di questi decenni gloriosi di storia della magistratura le correnti non sono state solamente sedi di elaborazione culturale, ma anche di gestione del potere interno alla magistratura. Il sistema stesso di funzionamento della magistratura, tanto internamente all’associazione nazionale magistrati quanto soprattutto nell’ambito del CSM, è stato costruito e si è sviluppato intorno alla contrapposizione e alla competizione fra gruppi o correnti. Ma si è trattato di una scelta precisa, innanzitutto del legislatore costituzionale. La professionalità, la vivacità e la tenuta istituzionale di un ordine professionale e di un potere dello Stato qual è la magistratura si fonda innanzitutto su una elevata capacità tecnica e culturale e questo aspetto è affidato nel nostro caso ad un concorso difficile e trasparente e ad una formazione qualificata e costante, entrambi da preservare con assoluta gelosia. Ma in secondo luogo si fonda sul grado di democraticità che lo caratterizza. La democratizzazione di un corpo passa attraverso il principio di uguaglianza (la distinzione solo per funzioni), da un lato, ed il meccanismo elettorale (la competizione per idee), dall’altro. La nostra Costituzione e più in generale la nostra cultura giuridica ha fatto lucidamente la scelta della democratizzazione della magistratura. E’ chiaro che, come sosteneva Polibio, anche la democrazia ha i suoi limiti e soprattutto le sue deviazioni o le sue derive. Tralasciando, per evitare di parlar d’altro, le tematiche e le questioni che superano il nostro contingente per attraversare la società nel suo complesso, le correnti che hanno gestito il potere interno alla magistratura si sono via via sclerotizzate. Verrebbe da dire che da amministratori delle regole e del potere in funzione di un interesse pubblico, sia pure filtrato dalla propria visione della giustizia (con tutte le insidie del caso), si sono trasformate in proprietarie del potere. E se dalla gestione del potere elimini la funzione, l’obiettivo o anche la semplice aspirazione di assolvere un compito pubblico e disinteressato rischi di trasformare un gruppo di magistrati associati in un gruppo eversivo. Il passaggio può essere sottile e magari difficile da cogliere, soprattutto dall’interno, anche perché non avviene tutto insieme. Ma la differenza esiste.
Ma è esattamente questo che è successo? A mio modo di vedere non è esattamente così o almeno non è tutto. Se si parte dall’osservazione di quanto è successo -in questa vicenda e nel passato recente- se ne possono ricavare anche altre considerazioni.
A me pare che la vicenda Palamara/Ferri (ma la considerazione mi sembra conservare validità anche guardando indietro) evidenzi innanzitutto un’appropriazione personale del potere, più che un potere in capo alla corrente. In modo -per varie ragioni- più evidente per Palamara, ma a ben vedere anche per Ferri. Al di là della specifica vicenda Hotel Champagne, per quanto attiene a Palamara la rete di relazioni e le finalità dell’agire sono soprattutto personali, al punto che “amici” e “avversari” o addirittura “nemici” travalicano largamente lo schema correntizio, per inseguire una bulimia egocentrata che vista nella sua attualità poco ha a che fare con la sua corrente: Luca Palamara lavora per sé, per i suoi amici personali, contro i suoi nemici personali; ricorrentemente fra i suoi amici vi sono compagni di gruppo, ma essenzialmente perché l’orizzonte di relazioni è nato e si è sviluppato dentro la corrente di Unicost. Certo, ciò che è stato costruito è stato consentito e favorito dal gruppo di appartenenza, che se ne è molto giovato, poi è stato tollerato, forse accettato, ma ciò che è stato realizzato è un potere personale, usato a fini personali, spendibile in qualsiasi direzione. E la logica e la prospettiva tutta personale è ciò che rischia di distruggere la magistratura e la sua etica.
Più complicata la valutazione del caso Ferri, il quale risente del fatto che la sua vicenda, per varie ragioni, ha avuto minore clamore mediatico, minore quantità e circolazione di notizie: non abbiamo il profluvio di messaggi e intercettazioni che riguarda Palamara. Il caso mediatico “Ferri” è legato soprattutto alla vicenda Hotel Champagne e alla nomina del Procuratore di Roma. Ma il caso Ferri non inizia con l’Hotel Champagne. Cosimo Ferri ha costruito nel tempo e sotto gli occhi di tutti noi (e con la collaborazione o l’apertura di molti di noi) una rete di relazioni personali di enorme vastità. Una rete che gli ha fatto acquisire una straordinaria capacità di spostare consenso, mescolando il consenso politico con le simpatie personali e le amicizie. Poco o nulla di “politico” nel senso comune del termine, molto di personale, amicale, intimo. Indubbiamente Ferri ha avuto, per varie ragioni, relazioni più strette con la corrente di cui è stato personalmente ed anche “istituzionalmente” (oltre che di fatto) il capo indiscusso, a dispetto del suo aperto schieramento in politica, creando un collateralismo devastante e quasi inedito (invero non mancano i precedenti, ma non a così plateale ed elevato livello). Il suo orizzonte di “amici” e “nemici” è maggiormente legato allo schema correntizio “tradizionale” perché una parte di quel potere lo ha “condiviso” con il gruppo o con una parte importante di esso. E questo è un problema in più, che ha reso e rende più difficile per il suo gruppo affrancarsene. MI ha gravemente sbagliato a non prenderne per tempo le distanze, a seguito del suo impegno in politica. Ma la sostanza del suo potere è e resta personale, come testimonia anche il suo “transitare” trasformista fra schieramenti politici differenti.
Fenomeni come questi hanno assunto queste forme e dimensioni all’interno di Unicost e di MI, ma potrebbero assumerle in un’altra qualsiasi corrente. Sia pure senza attingere i livelli inarrivabili del Hotel Champagne, fenomeni molto simili sono già accaduti anche nella corrente di Area (per A&I il discorso è diverso), sia pure in quindicesimo a causa, forse, della minore “professionalità” dei singoli protagonisti e/o della minore vulnerabilità del gruppo, ma anche, banalmente, perché il Trojan è arrivato in un momento successivo. Infatti, anche Area ha avuto -e rischia costantemente di avere tutt’ora- i suoi più o meno piccoli Palamara o Ferri. E’ ormai un fatto notorio che durante la consiliatura di Palamara la gestione dei gangli più rilevanti e “di potere” del Consiglio è stata interamente “appaltata” in totale autoreferenzialità ad un nucleo ristrettissimo di persone, fra cui “figure” di spicco di Area, per le quali il gruppo non ha mostrato neppure sufficiente imbarazzo, neppure a posteriori.
Spero di non essere frainteso, non voglio affatto salvare i gruppi e condannare le persone: i gruppi sono responsabili senza alcun dubbio di ciò che fanno le persone che li rappresentano e che per conto dei gruppi (di fatto o di diritto) si muovono. Tanto più oggi, in cui la cifra politica di un gruppo è affidata in larga parte alla qualità personale, professionale ed etica dei suoi aderenti e dei suoi rappresentanti.
Voglio dire che se da un lato i gruppi perdono la parte decisiva della loro carica ideale, consegnando le leve del potere a singole “eminenze” più o meno capaci di “gestirlo” in funzione, soprattutto, della propria bulimia, dall’altro stringono una morsa soffocante verso ogni forma di partecipazione che non sia riconducibile allo schema “correntizio” e di potere costituito. Questa situazione è piuttosto evidente in una sede di grandi dimensioni come Roma, ma temo che sia uguale pressocché in tutto il territorio: se all’emergere dello scandalo Palamara/Ferri alle assemblee romane si è vista una sincera e larga partecipazione di colleghi pronti a muoversi al di fuori di qualsiasi logica di appartenenza che non fosse quella dell’interesse collettivo della magistratura e del desiderio di un sincero ripensamento dei meccanismi di funzionamento associativi, rapidamente questo fermento è stato visto come “minaccioso” e l’ossigeno è stato staccato, anestetizzando, rallentando e ostacolando le occasioni di incontro, fino a “sterilizzarle”, senza capire che quello spirito è linfa vitale per l’associazionismo. O forse capendolo troppo bene. La stessa recente assemblea nazionale dell’ANM sul caso Palamara -per quanto in epoca Covid- è risultata assai poco partecipata e con partecipazioni essenzialmente riconducibili in larga parte agli schemi correntizi tradizionali o a quelli “in corso di formazione”. Se a questa morsa soffocante in sede associativa si aggiunge il tema della rappresentanza nella sede istituzionale del CSM, caratterizzata da una legge elettorale terrificante che stronca ogni effettiva contendibilità del consenso, si capisce che la situazione rischia di diventare irrecuperabile.
E’ in questo clima che attecchiscono iniziative inedite ed inquietanti di diverso segno, fra le quali spicca quella che ha visto dieci Procuratori della Repubblica o, dovrei dire, dieci Procure della Repubblica, sottoscrivere un documento politico insieme alla Unione delle Camere Penali Italiane intorno al funzionamento della giustizia penale nella presente congiuntura epidemiologica. Iniziativa che se ha la scusante di calarsi nel silenzio disorientato -e ripiegato sulla propria crisi- dell’ANM ha il demerito di confondere piani istituzionali e piani “politici”, di scavare -credo senza rendersene conto- un altro solco interno alla magistratura e di contribuire alla logica separatista delle carriere.
In sostanza c’è più di un tema sul tappeto e ci vorrebbe molta fantasia per trovare la chiave di una ripartenza decisamente difficile, fermo restando che al di là delle regole, certamente importantissime, ciò che fa la differenza è sempre la vitalità che un corpo sa esprimere. Ma stretta fra la morsa soffocante di gruppi insteriliti e ripiegati sui propri interessi e pulsioni carrieriste, settoriali e individualiste, la magistratura rischia la sua parabola discendente.
E’ indispensabile affrontare il tema delle riforme necessarie a disinnescare alcuni nodi fondamentali, primo fra tutti il carrierismo e la gerarchizzazione strisciante che esso reca, ripensando l’assetto ordinamentale a cominciare dal concorso di ingresso, all’organizzazione e funzionamento degli uffici, alla nomina dei dirigenti, al tema della rappresentanza.
Un punto centrale attiene alla trasparenza dei gruppi, alla democrazia interna ai gruppi, ma più di tutti alla effettiva accessibilità e contendibilità delle sedi della discussione e del dibattito, così che la possibilità e facilità di entrata di nuovi protagonisti o di nuove e diverse aggregazioni mantenga una tensione costante, ostacolando le degenerazioni e le cadute. In una parola: un di più di democrazia, non il contrario, come può essere il sorteggio, sia pure in una delle sue molteplici declinazioni. In sostanza bisogna aprire le finestre e fare entrare aria fresca e più ancora bisogna lasciarle aperte.
Un esempio di questo genere è senza dubbio costituito dall’ingresso nell’agone associativo di un gruppo nuovo come Autonomia e Indipendenza, ancorché molto “personalizzato” (e per questo già in difficoltà). Un fermento analogo -ma ancora tutto da scrivere e osservare- sembra muoversi intorno a quello che era il gruppo di Unicost. Iniziative simili si sono venute a creare in questi anni più recenti con varie denominazioni o sigle o comunque con aggregazioni che hanno cercato di affacciarsi sulla scena associativa -invero spesso con parole d’ordine individualiste e qualunquiste- talvolta scegliendo di raccogliere la sfida della competizione elettorale, ma per lo più cozzando esattamente contro il deficit di democrazia e di contendibilità che contraddistingue questo sistema. In questa tornata di elezioni per l’ANM si è visto qualche risultato più concreto, ma la posta in gioco vera è intorno al CSM.
Ebbene, è indispensabile creare le condizioni affinché il sistema favorisca tutto questo, non lo ostacoli come accade oggi. La magistratura è un ordine professionale e un potere dello stato: una piccola comunità con problemi circoscritti e soprattutto con limitate esigenze di “governo”; non è una comunità nazionale, attraversata da dinamiche economiche e sociali complesse. In sostanza non ha particolari esigenze di “governabilità”, ne ha, invece, molte di rappresentanza.
Se questo è vero occorre lavorare su più fronti. Innanzitutto è esiziale trovare un meccanismo che favorisca e incrementi la democrazia e la partecipazione alla competizione elettorale per il CSM. Ci possono essere idee diverse sul punto, purché sia chiaro l’obiettivo: favorire la competizione. A mio giudizio da sempre il meccanismo principale per ottenere questo risultato è costituito da un sistema elettorale proporzionale per liste concorrenti ed espressione di preferenza, vale a dire esattamente il contrario di ciò che è oggi di moda nel dibattito pubblico interno -ed intorno- alla magistratura. Questo sistema in tutta evidenza è l’unico che rende realmente contendibile il consenso interno ai singoli gruppi e fra i gruppi: non si conosce un meccanismo migliore della possibilità di esprimere preferenze per ridurre o eliminare le decisioni verticistiche dei gruppi dirigenti dei partiti o delle correnti in seno a ciascuna aggregazione; ma questo sistema è anche quello che più di tutti consente e favorisce la competizione lineare fra i gruppi, consentendo l’effettiva possibilità di inserimento utile di nuove aggregazioni o anche semplicemente di nuove liste specificamente mirate alla singola competizione elettorale. Con un sistema come questo i diffusissimi malumori (o peggio) verso la deriva etica e politica dei gruppi “tradizionali” avrebbe potuto trovare una strada di canalizzazione utile con risultati concreti, che avrebbero certamente consentito (e consentirebbero tuttora) a questa parte della magistratura di avere i propri rappresentanti in seno al Consiglio. Il sorteggio è esattamente l’opposto di ciò che serve: mortifica la magistratura verso la quale mostra disprezzo, mortifica la democrazia e non elimina affatto né rallenta la cultura carrierista e burocratica che sta “tarlando” la magistratura dall’interno.
Ma anche la democrazia è solo uno strumento: ciò che la anima sono le idee, i fermenti, la vitalità. Da questo punto di vista serve impegno, entusiasmo, partecipazione. Occorrono fermenti nuovi, che pongano al centro le frontiere di discussione. Il tema dell’etica e della questione morale è senza dubbio uno di questi, forse il più importante. Il principio che i magistrati si distinguono solo per funzioni non è mai stato così trascurato e negletto e non si vede ancora la concreta capacità di metterlo al centro. Lo stesso tema della funzionalità della giustizia e particolarmente di quella penale, in teoria punto nevralgico di qualsiasi battaglia associativa razionale e impegnata, non è seriamente fatto proprio e messo al centro da alcuno. Certo, tutti i gruppi parlano anche di questi argomenti, ma una cosa è parlarne una cosa è farne la propria cifra politica e associativa e soprattutto esprimere idee concretamente capaci di segnare delle prospettive. Avere la capacità di creare aggregazione intorno ai temi.
Ma è anche indispensabile che i gruppi allentino la morsa intorno all’associazione e lascino lo spazio che consenta a ciascun collega di farsi avanti, partecipare, trovare nella sede dell’ANM il luogo e la dimensione di un impegno. Al di là di qualche episodico spiraglio non è quello che sta avvenendo. Finché le sedi associative, le assemblee, i gruppi di lavoro non sono resi vivi da una partecipazione effettivamente larga, completata dai colleghi che non intendono “appartenere” ad un gruppo, l’associazionismo rischierà di non riprendersi, di lasciarsi attraversare sempre più drammaticamente dalle lacerazioni correntizie e magari infine di disgregarsi dividendosi in rivoli senza senso.
Da questo punto di vista molti segnali lasciano credere che sia già tardi. Nonostante la rivoluzione imposta all’ordine del giorno dal caso Palamara-Ferri e la circostanza che una pluralità di azioni disciplinari ad esso connesse sia di imminente trattazione e vi sia finalmente l’occasione per riscrivere l’etica della magistratura e del suo associazionismo, i magistrati appaiono sfiduciati, disincantati, incapaci di credere più in se stessi nonostante il corpo complessivo non sia affatto marcio come si vuole far credere. Per lo più disertano la rarissime occasioni di dibattito e di discussione, increduli che qualcosa possa effettivamente cambiare e che esista lo spazio e l’interesse ad una partecipazione corale e disinteressata. Come ho detto, l’assemblea nazionale sul caso Palamara era semivuota, anche considerando i tempi di Covid e anche le assemblee distrettuali, dopo qualche segnale di partecipazione a ridosso dell’esplosione del caso, rapidamente si sono svuotate. Si è persa l’occasione affinché il caso Palamara/Ferri, anche grazie alle inaspettate tornate elettorali per il CSM, innescasse dinamiche nuove nate intorno alla sede associativa generale e non intorno ai gruppi, avviando una pagina realmente nuova. Le stesse mailinglist riportano oramai per lo più uno stanco e fastidioso dibattito fra fazioni, sempre con gli stessi protagonisti. Fortunatamente le elezioni associative non sono state disastrose, ma pur sempre duemila magistrati circa le hanno disertate e di essi ben mille dopo essersi accreditati per il voto e dunque dimostrando un sincero interesse associativo, ma una delusione altrettanto sincera per l’offerta elettorale. E comunque la vitalità di un corpo non è misurata tanto dalla partecipazione elettorale quanto dalla capacità di mobilitare e coinvolgere.
Quale il ruolo di MD in tutto questo? A mio avviso un ruolo importante, in un epoca di scarsissima credibilità dei gruppi associativi, accusati non senza argomenti, di essere interessati solo a gestire le nomine nei posti chiave promuovendo gli aderenti e fra essi i più fedeli. Proviamo a mettere qualche punto fermo.
Io non credo che l’attuale impegno di MD -in quanto tale- in Area abbia oggi ancora senso. Molti fattori spingono verso una forma di distacco di questo legame come lo abbiamo conosciuto. E da provenienze molto diverse. Da tempo Area mostra una crescente comprensibile insofferenza verso quelle che furono le aggregazioni fondatrici della corrente. E’ una insofferenza che sottende un’aspirazione legittima, che si fonda sul naturale desiderio di un gruppo politico di scrivere da solo la propria storia e dare vita ad un soggetto davvero nuovo. Oserei dire che è una necessità. Una necessità che si manifesta e alimenta con una diffidenza sempre più marcata e astiosa e che prescinde dalla minore o maggiore lealtà con cui i gruppi fondatori -ed MD in particolare- partecipano alla vita della corrente. D’altro canto l’offerta politica che giustifica la presenza di Area rischia continuamente di sfumarsi e di banalizzarsi in un indistinto orizzonte di più o meno buone intenzioni e abbiamo l’esperienza necessaria per sapere che quando le prospettive culturali e politiche si scolorano e diventano secondarie prende corpo la gestione del potere fine a se stessa, la logica dell’apparato e della carriera. Insidia pericolosa ma in una certa misura ineliminabile e del resto puntualmente verificatasi. Dal conto suo MD, da un certo punto di vista, si è molto beneficiata di aver di aver ceduto ad Area la sovranità dell’impegno militante e della competizione elettorale: le vecchie lacerazioni intorno alla gestione del potere più incisivo e soprattutto l’impegno e la partecipazione non disinteressata di taluni con aspirazioni di carriera sono via via scomparse per destinazioni diverse, visto che dentro MD non si gestisce più nulla, se non elaborazione di idee e di cultura. Tuttavia, nel tentativo di dare sostanza e qualificazione politica alla corrente cui ha delegato l’impegno militante e la competizione elettorale, MD ha spinto verso una sempre maggiore caratterizzazione -magari “alta” e qualificata- di alcuni temi ideologici, rischiando di spingerli sin oltre la dilatazione realmente opportuna: la prescrizione trasformata in un totem, una radicalizzazione della battaglia liberale sui diritti trascurando il ruolo di mediazione e tutela svolto dallo Stato nella dinamica sociale e criminale, l’enfatizzazione talvolta eccessiva intorno al carcere e alla sua funzione repressiva, l’oblio di altri temi quali l’efficienza della giustizia e segnatamente di quella penale.
Ebbene, anche alla luce del ragionamento sviluppato intorno al percorso della magistratura ed ai pericoli che attualmente l’attraversano, non vedo più ragioni effettive per una partecipazione di MD ad Area e penso che la magistratura progressista possa trarre beneficio dal taglio di questo cordone, a determinate condizioni.
Tanto per essere chiari, io non credo che la magistratura trarrebbe molti vantaggi dal rientro di MD nell’agone della competizione elettorale: mi sembrerebbe un ritorno indietro e non un guardare avanti; mi sembrerebbe un’ennesima divisione e segmentazione dell’offerta di una magistratura aperta e attenta al sociale. La magistratura oggi ha, invece, particolarmente bisogno di un fermento culturale e politico colto e autorevole, ma soprattutto credibile ed oggi la credibilità fonda larga parte della propria effettività sulla percepita e riconosciuta distanza dalla gestione diretta del potere. MD può raccogliere questo testimone e proporsi come fermento credibile se taglia il cordone con Area, senza, però, entrare in competizione elettorale con essa, senza cioè riappropriarsi della sovranità ceduta per investirla in una nuova militanza in competizione elettorale. Insomma competizione sulle idee, non competizione sui seggi in Consiglio o in ANM. Oggi non credo che sia così importante avere “un uomo” al CSM, quanto poter mettere al centro un tema con la credibilità e la forza del disinteresse all’agone elettorale e al potere. Se MD uscisse da Area e si riprendesse la propria sovranità “culturale” e ideale si avvicinerebbe, forse, a quel “centro culturale” che tanti di noi hanno scongiurato in questi anni, ma renderebbe un doppio servizio: creerebbe un soggetto di grande peso culturale, magari recuperando una cifra politica liberata dall’ansia di caratterizzazione, e nello stesso tempo non spaccherebbe il fronte progressista della magistratura, già così in difficoltà per l’assedio che ben tre gruppi di omogenea impostazione culturale -al di là delle alleanze contingenti e precarie- gli cingono. E poi chi vivrà vedrà. Allo stesso tempo Area avrebbe la possibilità di dimostrare a se stessa e alla magistratura una presa di distanza effettiva dagli stereotipi della sinistra giudiziaria, coi sui trascorsi impegnativi e ingombranti, liberandosi dalla sensazione di qualcosa che altri cercano di costruire per lei e che grava come un orizzonte che non è stato scelto o creato, ma subìto.
Mi si dirà che questa scelta è proprio l’antitesi delle ragioni per cui MD nacque: la politica nella sua portata piena e senza timidezze è militanza e impegno per cambiare l’esistente “sporcandosi” le mani nella gestione del potere in funzione delle proprie idee. Ma cambiare l’esistente può implicare momenti e fasi in cui l’impegno culturale sostituisce quello “militante”, consentendo risultati che altrimenti sarebbero impossibili. Del resto escludo che sotto il profilo dell’impegno e del risultato militante MD abbia davvero molto da perdere: sul piano della gestione del potere è già oggi (e da tempo) irrilevante e fuori da ogni gioco ed è questa la sua forza, anche sotto il profilo della fibra morale di cui dispone. Facciamone un’arma.