Con la sentenza n. 58 del 2018, depositata il 23 marzo 2018, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3 del decreto legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria).
L’inevitabile gergo tecnico fa correre un rischio di anonimato a questo dispositivo. È sufficiente arricchire il linguaggio delle norme con poche parole di peso per capire, invece, l’importanza fondamentale della pronuncia: Ilva, salute, lavoro.
Si tratta, dunque, della sentenza con la quale la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale del cd. decreto Ilva del 2015 (art. 3 del dl n. 92 del 2015, abrogato e riprodotto in maniera identica, come osserva la stessa Corte, dal dl 83 del 2015), il quale consentiva la prosecuzione dell’attività di impresa degli stabilimenti tarantini, di interesse strategico nazionale, nonostante il provvedimento di sequestro preventivo dell’autorità giudiziaria per reati inerenti la sicurezza dei lavoratori.
La locuzione utilizzata da quella legge-provvedimento era chiara: al «fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva, di salvaguardia dell’occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, nonché della finalità di giustizia, l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interessi strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro (…) quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori».
Analoga legge-provvedimento (art. 1 del dl 207 del 2012) era stata salvata dalla Corte costituzionale nel 2013 in ragione del fatto che, in quell’ipotesi, la prosecuzione dell’attività d’impresa era condizionata ad adempimenti amministrativi previsti dall’autorizzazione integrata ambientale che, almeno sulla carta, si presentavano rigorosi ed idonei ad evitare che il diritto di iniziativa economica e di impresa divenissero «tiranni nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità delle persone» (Corte cost. 85 del 2013).
Il bilanciamento effettuato dal legislatore nel 2015, al contrario, non regge al vaglio dei giudici costituzionali, i quali danno ragione al giudice per le indagini preliminari di Taranto e ravvisano il contrasto della legge in questione con gli artt. 2, 4, 32, 35, 41 della Costituzione.
In questa sede non si vuole proporre un’analisi dettagliata della pronuncia e dei problemi ad essa sottesi. Sono problemi giganteschi, lo sappiamo, e riguardano una pluralità di aspetti del diritto penale, a partire dalla ridefinizione dei presupposti teorici delle misure cautelari reali e dal conflitto tra due modelli d’intervento, amministrativo e penale, in vicende come quella dell’Ilva o della Fincantieri di Monfalcone.
Nell’immediatezza del deposito, piuttosto, preme dialogare con alcuni passaggi della sentenza che appaiano particolarmente significativi nell’ottica dello smantellamento della tanta declamata, quanto fittizia, contrapposizione tra le ragioni dell’economia e le ragioni del diritto, o meglio ancora, dei diritti della persona. Contrapposizione fittizia, perché già risolta dal legislatore costituente, anche se a volte abbiamo finito per trascurare o rimuovere tale dato. Colpirono all’epoca, in questo senso, le dichiarazioni del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, che esortava i magistrati a «cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie», dal momento che «il loro impatto sull’economia e sulla società non può più essere considerato un tabù». Lo stesso vicepresidente che, proprio sul decreto Ilva, aveva osservato che, a seguito di plurimi interventi, legislativi e giudiziali, si era «finalmente individuata una via», «una soluzione che contempera tutti i rilevantissimi interessi che sono coinvolti in quella drammatica vicenda».
Vediamoli dunque da vicino questi passaggi motivazionali. La Corte, con parole incisive, rileva che nel caso di specie il legislatore ha subordinato la prosecuzione dell’attività di impresa «esclusivamente alla predisposizione unilaterale di un piano ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, senza alcuna partecipazione di altri soggetti pubblici o privati». La mancanza della richiesta di misure “immediate e tempestive” per prevenire e neutralizzare i rischi per l’incolumità dei lavoratori, dunque, e l’autorizzata prosecuzione dell’attività degli impianti di fatto senza modifiche sono fattori che hanno determinato un bilanciamento non ragionevole e proporzionato di tutti gli interessi costituzionali coinvolti, e un vizio di illegittimità costituzionale «per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita».
L’erroneo bilanciamento è scolpito in sequenze verbali dal contenuto inequivoco: «Il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.)». E ancora: «Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
Parole cristalline, dunque, che richiamano la necessità di una giustizia costituzionalmente compatibile, più che economicamente compatibile. E che, in parte, richiamano le responsabilità della politica e dell’amministrazione a interventi nel campo dell’economia e del lavoro che non ridondino nel mero laissez-faire.
C’è da auspicare che la pronuncia della Corte risuoni a lungo nella giurisprudenza di merito e di legittimità, spesso impegnata – come è accaduto in Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201 a proposito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – a rivolgere lo sguardo al solo recinto dell’iniziativa economica privata.
Che si avvii con questa sentenza al tramonto la stagione del ricatto occupazionale? Che si capisca definitivamente che un conflitto tra lavoro e salute è solo un artificio creato dall’inerzia della politica?
Lo ricordava, con parole accorate, il presidente della Corte di appello di Lecce, Mario Buffa, nell’intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013: «Io voglio solo augurarmi che la comunità di Taranto sappia trovare la sua unità, intorno a questo problema; che si renda conto quanto sia assurdo contrapporre il diritto al lavoro al diritto alla salute, di quanto cinismo ci sia nello slogan che è stato gridato nelle piazze secondo cui di tumore di potrà morire in futuro ma con la perdita del lavoro si può morire subito. I cittadini di Taranto hanno diritto di lavorare e di non vedere sacrificato oltre il diritto dei loro figli di crescere in un ambiente sicuro per la loro salute» [1].
[1] Vds. l’intero intervento: M. Buffa, Il disastro ambientale provocato dall’Ilva, in questa Rivista on-line, 12 febbraio 2013, http://questionegiustizia.it/articolo/il-disastro-ambientale-provocato-dall-ilva_12-02-2013.php