1. Mi scuserete se parto, con crudo realismo, da una constatazione non piacevole – soprattutto se formulata in questa sede – ma si tratta di una questione non eludibile, che se non fosse resa esplicita falserebbe ogni nostro ragionamento. Oggi la magistratura versa nella più profonda crisi di legittimazione, probabilmente il punto più basso nella sua storia. Lo dico con il più profondo rispetto per il ruolo dei magistrati e – proprio per questo - con la massima preoccupazione. Non si tratta infatti solo – e non sarebbe poco – dell’onore perduto di una categoria professionale. Ciò che più preoccupa, ciò che primariamente è in gioco sono le ragioni ultime della giustizia, con il rischio che vengano ad essere stravolte le garanzie e gli strumenti che l’ordinamento democratico – il nostro sistema costituzionale – ha definito per assicurarne il rispetto. Non sono solo i singoli magistrati ad essere messi in discussione, ma l’ordine nel suo complesso, la sua autonomia e indipendenza da ogni altro potere come scrive l’articolo 104 della Cost. Il rischio più grande è che venga delegittimata l’amministrazione della giustizia alla quale non si riconosce più sia espressa “in nome del popolo” come pretende l’articolo 101. Ecco perché Il problema della delegittimazione della magistratura è un problema di tutti e sono i principi costituzionali ad essere in pericolo, prima ancora delle persone.
2. Le cause contingenti sono note, scandalose e per nulla episodiche: s’è parlato di un “metodo” - il “metodo Palamara” - e se è vero che si è teso, credo ingenerosamente, a generalizzare una patologia, è però evidente che tutto ciò che è emerso sia stato anche il frutto di una insofferenza e introversione generalizzata che ha visto un succedersi inquietante di diversificati episodi di cattiva amministrazione della giustizia, se non direttamente di fatti corruttivi che non possono essere considerati casuali.
Ma qui ora non voglio tornare su questi fatti, sui quali spero la magistratura saprà fare chiarezza, vorrei invece interrogarmi sulle cause di fondo e di sistema che tali fatti spiega. Nella convinzione che solo passando dall’analisi dei fatti contingenti alle ragioni storico e culturali che li hanno permessi si possano spiegare le ragioni di una simile caduta e individuare le vie per uscire dal tunnel.
Lo dirò in sintesi. Credo che in questa specifica prospettiva storico-culturale una questione su tutte si debba porre: quella del progressivo distacco della giustizia dalla società. Una separazione dalle dinamiche e dai conflitti che attraversano la società.
È vero, qualcuno potrebbe rilevare che non è solo il diritto, ma anche la politica e la cultura stanno subendo un processo di involuzione e di progressiva autoreferenzialità. Questa osservazione però non può consolare, tantomeno giustificare, in caso deve aggravare la preoccupazione di una giustizia separata ed autopoietica.
È questo clima – io credo – ad aver favorito o almeno sospinto il mondo giuridico a passare dal confronto – e magari lo scontro - sulle culture della giurisdizione, alla lotta – e magari l’accordo sottobanco - per il potere.
In fondo un esito che deve preoccupare, ma che non può stupire poiché è un destino comune: qualunque attività umana o è mossa da una prospettiva ideale di giustizia ovvero si riduce al perseguimento dei propri interessi. Non necessariamente interessi illeciti, ma certamente individuali e non generali.
3. Certo è che il confronto con gli anni delle origini dell’esperienza di Magistratura democratica è impietoso, ma anche chiarificatore. Vale la pena ricordare quegli anni, per misurarne la distanza, per confrontare le convinzioni di ieri con lo smarrimento di oggi, per ritrovare alcune radici.
Richiamarsi a quegli anni per dire due cose. Intanto che MD nasce nel 1964 per smuovere le acque ritenute troppo calme della giustizia, con un preciso programma di svecchiamento e messa in discussione dei valori più tradizionali e conservatori della magistratura, contro quanti allora venivano chiamati gli “ermellini da guardia” del sistema. Un movimento di magistrati che avevano compreso prima degli altri la necessità di porre al centro il problema dell’attuazione dei principi costituzionali che dovevano trovare la loro realizzazione anche nell’attività dei giudici, dentro i processi. È per questa convinzione, per quest’ideale di giustizia che si era disposti a mettersi in gioco, a mettere a rischio anche le proprie carriere.
Ma quel che più conta forse è un secondo aspetto: a sancire il successo, a dare un senso alla corrente dei magistrati democratici, non fu solo la forza delle nuove idee di un gruppo in fondo abbastanza ristretto, certamente autorevole, ma neppure molto potente dentro l’Associazione Nazionale dei Magistrati. Decisivo fu il clima generale, la cultura progressista e la capacità di questa di affermarsi, di affrontare in termini radicali i problemi del tempo. Questo rese possibile garantire l’ascolto delle istanze di rinnovamento che venivano poste. Da questo la possibilità dei magistrati di inserirsi in un flusso.
In un “flusso” che riuscì a rompere alcuni argini perché attraversava i confitti reali della società, in forte sintonia con lo spirito del tempo (Zeitgeist), capace persino di indirizzare il corso degli eventi con una precisa idea di società in testa.
Bastano due rinvii a fatti noti per confermare il clima che si respirava. Nel 1970 inizia le sue pubblicazioni Politica del diritto, la rivista diretta da Stefano Rodotà che propone un analogo rinnovamento in ambito più strettamente accademico. Anche in questo caso il rinnovamento parte dalla riflessione sul ruolo della costituzione e propone una rimeditazione di fondo sul ruolo dei giuristi ponendosi in netta discontinuità rispetto all’approccio puramente tecnico del giurista e alla rivendicazione di una separatezza e rigorosa neutralità che connotava la dottrina più tradizionale.
Nel 1972 a Catania si svolge un convegno che vede partecipi tutti i giuristi più significativi ed impegnati del tempo per discutere del modo e del senso stesso del diritto entro la società. La questione fu posta in termini radicali: era necessario – si sostenne - usare in modo “alternativo” il diritto, per piegare questo alle logiche democratiche. Per trasformare il diritto nella società capitalistica ritenuto troppo attento all’assetto dei poteri e troppo poco agli interessi dei consociati, a quelli delle classi subalterne in particolare. Potrei andare avanti ricordando i pretori d’assalto o esperienze che hanno riguardato settori diversi da quello del diritto (si pensi all’esperienza di Medicina Democratica). Ma il solo punto da vorrei qui evidenziare è che la corrente di MD non era sola, ma partecipe di una trasformazione sociale, in sintonia con movimenti culturali, forze politiche e sociali consapevoli e determinate.
Poi è arrivato il gelo. La storia del lungo regresso, della trasformazione omeopatica che ha reso la nostra democrazia una democrazia senz’anima è stata fatta altre volte. Data dai lontani anni ’80, all’esaurirsi della spinta progressiva di quel che è stato definito il trentennio d’oro del costituzionalismo contemporaneo. Ha avuto un accelerazioni istituzionale significativa negli anni ’90 con l’assunzione generalizzata del mito della governabilità e della stabilità dei governi che ha portato ad un’idea di democrazia maggioritaria che si riteneva potesse fare a meno del conflitto e del confronto con le divisioni sociali. Le responsabilità di questo lungo regresso sono diffuse e le forze del progresso non sono prive di colpe, tutt’altro.
Anche la società, lasciata a se stessa, non ha trovato forme di reazione, anzi spesso - e sempre più - ha condiviso, s’è fatta trascinare. Sino a ieri affascinata dall’illusione di poter semplificare il sistema politico, andando a votare in massa per la fine della rappresentanza politica proporzionale (il 95,6 % del popolo votò nel 1991 contro il sistema delle preferenze, nel 1993 l’82,7% per la modifica del sistema di elezione del Senato); irretita oggi dalle velleità dei leader populisti di turno. Magari abbandonandoli poi al primo stormir di fronde
Ed eccoci giunti sin qui, senza più grandi illusioni. Perlopiù confidando ciascuno solo su se stessi, privati tutti di un orizzonte collettivo e di una prospettiva culturale, politica, costituzionale che possa rappresentare il parametro del proprio agire. Non per tutti è così, ma per molti, per troppi. Ecco le cause storiche e culturali del degrado.
Come stupirsi che in questo Zeitgeist qualcuno, molti, troppi, finiscano per agire in nome degli interessi e non più in nome dei valori? Anche tra i custodi della legge, anche tra le correnti che non trovano più le radicali ragione di scontro sui modi di intendere la giurisdizione, ma magari si dividono solo per questioni relative alle diverse modalità di gestione dell’esistente.
4. Se anche solo in parte il quadro fosco che vi ho voluto rappresentare fosse rispondente al vero, sarebbe però anche chiaro qual è il compito che ci aspetta, che spetta a chi non vuole farsi travolgere dalle “correnti”. Dalle correnti del tempo, ma anche dalle correnti della magistratura private di senso e ridotte a strumenti di potere secondo quella rappresentazione deformata che si sta imponendo nell’immaginario collettivo e che ci offende.
Non si tratta di ricercare un ritorno alle origini (la storia non si ripete, mai, se non come farsa), ma della riscoperta dell’orizzonte sociale perduto e la definizione di un’idea di diritto come riscatto. Contro un’accezione di diritto (e di giurisdizione) che lo riduce a mero strumento repressivo, se non di vendetta; contro un’idea che pensa alle risoluzioni delle controversie lontana dai fatti della vita, attenta al rispetto della forma (che si limita cioè a seguire le inespressive ma proprio perciò rassicuranti procedure) più che non a garantire i diritti delle persone concrete. Insomma, dovremmo tornare a prendere in considerazione le ragioni del diritto inteso anche come ius gentium, e non solo come lex regia de imperio.
5. Si parte da zero? Penso proprio di no. Una tale visione del diritto è quella già inscritta nella nostra Costituzione che pone la persona (il principio personalista) al suo centro e che innerva tutte le sue disposizioni relative alla funzione giurisdizionale (la sua idea di giustizia). La pena deve rieducare, non punire (art. 27); la giustizia è esercitata in nome del popolo, non del principe (art.101); tutti possono agire in giudizio per vedersi riconoscere i propri diritti, non per tutelare i privilegi o ostacolare diritti altrui (art. 24); e via elencando.
Fatemi concludere in modo un po’ schematico, ma spero chiaro. Ai singoli, ma anche e soprattutto alle correnti della magistratura ora nell’occhio del ciclone, spetta scegliere: a) se vogliono rappresentare se medesimi, organizzarsi per gestire, possibilmente al meglio, l’amministrazione della giustizia, con il rischio però di trasformarsi in strumento di potere sino a scontare qualche caduta nell’inferno evidenziate dal “metodo” Palamara; b) oppure se mettersi in discussione e cercare le ragioni del confronto anche acceso e magari divisivo (perché no?), per far prevalere alla fine un’idea di giustizia costituzionalmente orientata. Una idea di giustizia che valga a legittimare una corrente democratica all’interno di un ordine che – anche per questo - la nostra Costituzione vuole soggetto solo alla legge e autonomo da ogni altro potere.
Certo il clima sociale non è dei migliori, il compito è complesso, e la strada è in salita, ma, in questo percorso, avrete - posso affermare con certezza – ascolto e buoni amici. D’altronde, fatemi dire, secondo me non ci sono altre vie d’uscita.