«Ci sono momenti in cui il silenzio è un lusso che nessuno si può permettere», è stato scritto sulla nostra Rivista a proposito del bivio di fronte al quale si trova la riforma penitenziaria.
Anche la magistratura associata, dunque, non deve rimanere in silenzio.
Bene ha fatto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte, ad esprimere preoccupazione in ordine ai possibili riverberi della campagna elettorale sull’approvazione dei decreti legislativi delegati.
Ora siamo davvero alla fase cruciale: come riferito dallo stesso presidente del Consiglio, domani, 22 febbraio 2018, la riforma è all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri.
Auspichiamo che lo schema di decreto deliberato il 22 dicembre 2017, integrante il tentativo di riforma dell’ordinamento penitenziario più organico e costituzionalmente orientato mai posto in essere dopo la riforma Gozzini, sia condotto in porto nella versione licenziata dalla Commissione Giostra, di cui oggi pubblichiamo i lavori integrali.
Nonostante qualche lacuna, questa riforma è rispondente a Costituzione e utile alla convivenza pacifica e sicura tra le persone nella nostra società complessa. Ne va, dunque, della civiltà giuridica di questo Paese e delle stesse esigenze di sicurezza sociale, impropriamente brandite come arma contro uno schema di decreto che, oltre a portare la firma della migliore accademia, è frutto di un fecondo dibattito culturale, sedimentato da anni nella magistratura di sorveglianza e recepito dagli Stati generali dell’esecuzione penale.
Anche nel dibattito tra magistrati, purtroppo, sono emersi argomenti capziosi, alimentati per screditare l’impianto della riforma.
Il più utilizzato è legato alla tesi, infondata, che l’intervento legislativo di cui si discute si ponga in continuità con i provvedimenti normativi tesi soltanto a ridurre i numeri del carcere. L’ennesimo e più sostanzioso svuotacarceri, insomma.
Non è così. È vero, semmai, l’esatto contrario.
Si tratta di una riforma che, elidendo molti automatismi e presunzioni, restituisce alla magistratura di sorveglianza il potere di valutare appieno i percorsi individuali dei condannati e di bilanciare in concreto, caso per caso, l’obiettivo rieducativo della pena con l’esigenza di tutela dei diritti dei cittadini liberi.
Niente più automatismi, dunque, neppure deflattivi, come era la liberazione anticipata speciale, volta ad aumentare la riduzione pena da quarantacinque a settantacinque giorni a semestre, in maniera del tutto irrelata da una seria indagine sui progressi trattamentali dei detenuti.
La riforma opera in direzione esattamente opposta, consentendo un vaglio più approfondito e severo del protrarsi della pretesa punitiva, come richiesto dalla Corte costituzionale a partire dalla celebre sentenza 204/1974.
A tal fine lo schema di decreto ridisegna il concetto di osservazione scientifica della personalità e lo adegua ai più progrediti approcci criminologici e alle migliori prassi coltivate negli Istituti.
Il legislatore delegato, inoltre, si dimostra consapevole che il finalismo rieducativo non può essere perseguito accettando la condizione di trasformare il colpevole in vittima di un sistema che non riesce a garantire la dignità e i diritti essenziali dei detenuti.
In questa direzione il decreto propone un’importante innovazione delle norme che riguardano la vita penitenziaria e l’assistenza sanitaria in carcere.
La riforma, dunque, prova a gettare le basi per un futuro nel quale la pena detentiva sia permeata dalla riflessione sul reato e sulle vittime e non incentrata solo sulla legittima preoccupazione dei detenuti per la tutela dei loro diritti fondamentali.
Un futuro al quale non bisogna guardare con allarme, dal momento che non si intacca in alcun modo la disciplina dei reati più gravi (mafia e terrorismo). Sotto questo profilo, non è dato capire alcuni timori rilanciati di continuo anche da autorevoli colleghi.
Non si capisce, ad esempio, perché, quando si dice che i detenuti per mafia e terrorismo “collaboranti” potranno accedere a una detenzione domiciliare estesa sino a quattro anni, si taccia che oggi i medesimi “collaboranti” possano fruire, nello stesso limite di quattro anni, della misura più ampia e meno controllata dell’affidamento in prova. Passa così sotto silenzio il fatto che alla magistratura viene semmai fornita dalla riforma un’arma in più per rafforzare la gradualità e la progressività del trattamento, in un’ottica di responsabilizzazione tutt’altro che orientata alla pura deflazione.
Allo stesso modo, ci si domanda perché, quando si parla di madri e padri condannati per mafia, non si specifichi come il decreto codifichi puntuali interventi abrogativi della Corte costituzionale, già più volte ricordati anche in interventi su questa Rivista.
È pacifico, inoltre, che la codificazione del principio di scioglimento del cumulo nell’art. 4 ter del nuovo ordinamento penitenziario non è in grado di intaccare minimamente la disciplina dell’art. 41 bis, dal momento che quest’ultima norma speciale, non scalfita dalla riforma, esplicitamente prevede che «in caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’art. 4 bis».
Con riferimento all’efficacia riabilitativa delle misure alternative, poi, basta affidarsi a quanto espresso dalla stessa Commissione nell’introduzione dei suoi lavori: «Ben il sessantanove per cento delle persone che hanno scontato la pena in regime carcerario, infatti, una volta uscito dal carcere commette nuovi reati e rientra nel circuito detentivo, mentre soltanto il diciannove per cento di coloro che hanno avuto accesso all’esecuzione penale esterna ritorna a delinquere».
Al contrario di quanto si va dicendo con leggerezza imperdonabile, da questa riforma si possono attendere solo progressi in termini di giudizi prognostici più approfonditi e consapevoli sul livello di rieducazione dei condannati.
Alla fine degli automatismi preclusivi non corrisponde l’inizio degli automatismi deflattivi. Nessun “liberi tutti”, dunque, ma soltanto l’introduzione dei migliori strumenti per vagliare la serietà e la consapevolezza di tutti coloro che torneranno liberi.
Per le ragioni appena indicate – ve ne sarebbero molte altre, che vorremo approfondire in futuro – è importante sottrarre alla presa emotiva della “democrazia emozionale” il dibattito sulla riforma. Ed è importante che il testo venga approvato nella sua versione originale.
Può davvero essere un punto di svolta per rifondare il sistema penitenziario e basarlo su una pena certa, perché tempestiva, e flessibile perché adeguata in concreto alla persona che cambia.