Viviamo in tempi di nostalgia, se non di rimpianto. Nostalgia per un’epoca di maggiori certezze, quanto meno nella nostra vita pubblica. Guardiamo agli anni ’70 e ’80 ed il confronto con un presente minaccioso, nel quale ci pare che ogni cambiamento significhi perdita, ogni riforma significhi regressione, troppe nuove voci si levino solo per dissacrare il contratto sociale, ci sembra scoraggiante. In gran parte questa sensazione è dovuta ad un declino economico e sociale che sta ridisegnando, con tratti spesso profondamente sgradevoli, le abitudini e le prospettive di vita di ampi settori della popolazione. Pure, molto, in questo senso, è già cambiato. L’insoddisfazione diffusa è già stata analizzata, nelle sue cause e riguardo ai suoi possibili rimedi, da un gran numero di accademici e, più in generale, di esponenti delle classi dirigenti. Allo stesso tempo, il disagio dei ceti privi di una voce strutturata si è fatto da tempo avvertire, manifestandosi nel comportamento elettorale come in altri ambiti. In questo senso, dovrebbe ritenersi che i meccanismi democratici stiano rivelando la loro resistenza, permettendo che l’insoddisfazione verso lo stato delle cose si converta in analisi, contestazioni, progetti, riforme.
Similmente, la prostrazione della magistratura appare senz’altro preoccupante, ma, proprio in questo suo presentarsi all’osservatore nella sua articolata gravità, sembra docilmente esposta allo studio del male ed alla predisposizione di rimedi. Una combinazione di eventi, e di omissioni, ha permesso che si giungesse allo stato presente, ma questo processo dovrebbe ritenersi reversibile, e la prima prova di questo starebbe nel fatto che stiamo guardando coraggiosamente e senza ipocrisia alla nostra caduta, e questo sguardo è il segno, e la fonte, di una comprensione potenzialmente trasformatrice.
Ma abbiamo davvero compreso?
E se, invece, le circostanze che ci hanno condotto alla crisi avessero modificato non solo la nostra attuale situazione, ma anche la nostra capacità di osservazione, e auto-osservazione? Se, in altre parole, la nostra indagine fosse falsata proprio dalle cause che hanno generato il problema sul quale intendiamo indagare, che crediamo di avere individuato?
Dopotutto, l’indagine in questione è alquanto complessa, e si manifesta tale sin dal primo approccio, dal quale sembra emerge piuttosto chiaramente come sia proprio la soluzione a rappresentare il problema. In termini costituzionali, l’eccezione – la preziosa eccezione - rappresentata dalla magistratura italiana sta tutta in quattro parole: autogoverno universalmente rappresentativo ed elettivo. I magistrati vedono la loro indipendenza e la loro autonomia garantite, in quelle che si ritengono essere le loro architravi, da un organo eletto più che maggioritariamente da, e tra, tutti i magistrati. La limitazione del condizionamento esterno dovrebbe essere, dunque, la soluzione, e segnatamente la soluzione al problema di quel depotenziamento che la subordinazione della magistratura ad altro che non sia la legge recherebbe – e ha storicamente recato, e sta recando, in molti ordinamenti, e potrebbe in futuro di nuovo, in Italia, recare – con sé, con le sue inevitabili ricadute sull’effettività della divisione dei poteri, e dunque sul carattere effettivamente liberal-democratico del nostro regime politico.
Ora, sembra che a questa architettura istituzionale i primi, diretti beneficiari, i magistrati, abbiano finito per chiedere qualcosa di sbagliato, ottenendone di conseguenza risposte incongruenti con il fine in vista del quale era stata congegnata; o forse è stato l’organo elettivo a sollecitare dai suoi componenti ed elettori degli stimoli indebiti, abdicando al proprio statuto per dedicarsi a compiti più mondani, e miopicamente più gratificanti; o l’uno e l’altro fenomeno si sono alimentati vicendevolmente.
Insomma, una garanzia costituzionale, di notevole rilevanza, coraggiosa e innovativa, ha finito, invariato il disegno istituzionale complessivo, per rendere frutti sempre più amari, convertendosi da presidio di libertà, democrazia e responsabilità in freno e minaccia a quegli stessi valori.
Pure, il cuore della questione non sembra rinvenibile nell’articolato costituzionale, perché questo è rimasto invariato, nei tempi virtuosi come in quelli di declino.
Può allora ipotizzarsi che sia la trama legislativa e regolamentare d’attuazione del disegno costituzionale ad aver ceduto? Neanche questa ipotesi, per quanto in principio plausibile, appare resistere ad uno scrutinio approfondito. L’impedisce la considerazione per la quale una stagione di forte vigore etico e deontologico ha potuto fiorire sotto l’egida della normazione subcostituzionale dell’immediato secondo dopoguerra, ancor più limitativa dei principi di separazione dei poteri di quanto lo sia l’ordinamento giudiziario odierno.
Escluso che la radice profonda del malessere stia nelle norme, si sarebbe tentati di volgersi alle persone che le applicano ed interpretano, ma si tratterebbe, credo, di una fallace scorciatoia. Donne e uomini preparati ed integri non sono mai mancati e, se una generazione delude, deve ritenersi che sia il clima ad avere impedito ai semi migliori di germogliare - le generazioni, in questo senso, vengono perdute, ma non può dirsi che si perdano per colpa propria.
Né ritengo che la crisi etica della magistratura possa ritenersi un effetto di quella sociale ed economica più generale. Anche in questo caso sovviene, in senso contrario, il ricordo di movimenti di rinnovamento e rigenerazione morale scaturiti proprio in corrispondenza di passaggi assai oscuri per le libertà politiche e per la prosperità comune.
Se un problema è riuscito a farsi enorme, è evidentemente perché in pochi sono riusciti a vederlo crescere, motivo per il quale, per un paradosso solo apparente, è delle questioni più importanti che bisogna temere l’invisibilità. E laddove la sensibilità comune non riesce a discernere, dovrebbe sopperire l’irriverenza della mente coltivata, che si manifesta nell’intuizione e nella fantasia.
Pier Paolo Pasolini colse lo spirito di un’epoca complessa e drammatica non meno della nostra, scrivendo della scomparsa delle lucciole. In luogo di quelle creature scomparse, fu la sua analisi ad illuminare una delle notti della Repubblica.
Direi che molti dei nostri problemi attuali, e senz’altro non solo dei magistrati, discendono da questo: stanno scomparendo non già le lucciole, ma quelle persone che riuscivano ad avvertirci della loro scomparsa. Assistiamo al tramonto, o quantomeno alla neutralizzazione, degli intellettuali, ed all’obliterazione dell’analisi intellettuale eticamente orientata quale legittima, rispettabile, o quantomeno tollerabile, pratica sociale. La società contemporanea, produttivistica ed efficientistica, non ha più bisogno degli intellettuali, anzi, impegnarsi nella riflessione diviene un atto eversivo rispetto alle esigenze di conservazione e sviluppo della struttura di governo, e questo a prescindere dai caratteri del regime politico dominante: l’osservazione è ugualmente vera riguardo a regimi moderati, di sinistra, di destra, democratici, autoritari, dittatoriali, totalitari, laici, confessionali, teocratici, economicamente sviluppati o meno.
La constatazione, peraltro, non è nuova.
Philip Roth (The Guardian, Philip Roth Predicts Novel Will Be Minority Cult Within 25 Year, 26 ottobre 2009) ha affermato: «I think always people will be reading them but it will be a small group of people. Maybe more people than now read Latin poetry, but somewhere in that range» (penso che la gente continuerà a leggerli [i romanzi], ma si tratterà di un piccolo gruppo di persone. Forse più persone di quante oggi leggano poesie in latino, ma più o meno in quell’ordine di grandezza).
Vent’anni prima, Emanuele Severino (Filosofia Futura, Rizzoli, 1989) prevedeva questa deriva, annunciando la sostituzione degli anonimi imperativi della macchina tecnico-produttiva, da lui denominata l’Apparato, alle istanze socio-politiche («[l’Apparato] è l’integrazione della scienza e della tecnica a quel sistema di condizioni che rendono possibile il loro funzionamento. L’Apparato è lo Strumento supremo che organizza tutti gli strumenti di cui dispongono le società più avanzate [...]. Le ideologie ritengono di poter usare l’Apparato come mezzo per la realizzazione dei loro scopi. Non riescono a comprendere che all’opposto, qualora sussistano certe condizioni, esse sono destinate ad adeguarsi e a subordinare i loro scopi alla realizzazione dello scopo che l’Apparato possiede di per sé stesso: l’aumento indefinito della sua potenza» (capp. VIII.1 e VIII.2).
Dieci anni prima Jean-François Lyotard (La Condizione Postmoderna, Feltrinelli, 1981 - prima edizione francese del 1979) affermava: «[l’]accordo fra uomini in quanto intelligenze cognitive e libere volontà ottenuto attraverso il dialogo [...] viene manipolato dal sistema come uno dei suoi componenti per mantenere e migliorare le proprie prestazioni, costituisce l’oggetto di procedure amministrative […]. Nel qual caso vale esclusivamente in quanto mezzo per il vero fine, ciò che legittima il sistema, la potenza [...]. Nel quadro di un criterio di potenza, una domanda […] non riceve alcuna legittimità per il fatto di nascere dalla sofferenza di un bisogno inappagato. Il diritto non viene dalla sofferenza, bensì dal fatto che affrontandola il sistema diviene più performativo. I bisogni più sfavoriti non devono servire da principio regolatore del sistema, dato che essendo già noto il modo di soddisfarli, soddisfacendoli esso non può migliorare le sue prestazioni ma solo appesantire il suo bilancio [...]. I tecnocrati dichiarano di non poter fare affidamento su ciò che la società designa come propri bisogni, essi ‘sanno’ che lei stessa non è in grado di conoscerli perché non si tratta di variabili indipendenti rispetto alle nuove tecnologie. Tale è l’orgoglio dei decisori, e la loro cecità» (§14 - La Legittimazione per Paralogia).
E, risalendo ancora nel tempo e tornando, finalmente, a Pasolini, può facilmente osservarsi che una parte non trascurabile della sua analisi socio-politica è centrata sul dramma della sopravvenuta superfluità delle idee a fronte dell’avanzata della società tecnologica e dei consumi (una citazione per tutte: I Dilemmi di un Papa Oggi, Corriere della Sera, 22 settembre 1974: «Paolo VI ha ammesso infatti esplicitamente che la Chiesa è stata superata dal mondo; che il ruolo della Chiesa è divenuto di colpo incerto e superfluo; che il Potere reale non ha più bisogno della Chiesa, e l'abbandona quindi a se stessa; che i problemi sociali vengono risolti all'interno di una società in cui la Chiesa non ha più prestigio [...]; Forse perché la fine della Chiesa è ormai inevitabile, a causa del ‘tradimento’ di milioni e milioni di fedeli (soprattutto contadini, convertiti al laicismo e all'edonismo consumistico) e della ‘decisione’ del potere, che è ormai sicuro, appunto, di tenere in pugno quegli ex fedeli attraverso il benessere e soprattutto attraverso l'ideologia imposta loro senza nemmeno il bisogno di nominarla?»).
Si osserverà che se questo è vero, se, dunque, ciò che rende peculiare la società contemporanea è il superamento delle opzioni di valore a favore di un efficientismo fine a se stesso, la posizione del magistrato, e più in generale dell’intellettuale, non è poi diversa da quella di chiunque altro, non essendo in potere di alcuno il sottrarsi ad una dinamica che interessa l’intero pianeta.
Le cose non stanno esattamente così.
Se una parte degli effetti di queste dinamiche investono tutti indistintamente, diverso è l’impatto specifico sugli addetti a mansioni che, al di là della mera esecuzione, del fare in sé, escludono, o quasi, una riflessione su quel che si sta facendo, e su quei lavoratori ai quali è - meglio: era – richiesto lo sviluppo di un’autocoscienza professionale, di una meta-comprensione del compito svolto. Per questi ultimi l’approdo ad una società del fondamentalismo economicistico-efficientistico-produttivistico si rivela profondamente snaturante, smentendo l’auto-responsabilità del lavoratore al suo livello più profondo, e dunque svuotando di senso mestieri che ricevevano tale senso proprio dall’attività di riflessione su di esso, parte integrante dello svolgimento del compito.
E’ evidente che il lavoro magistratuale costituisce un esempio paradigmatico ed estremo di tale ultimo tipo di mansioni, e dunque è destinato al massimo livello di alienazione. Ma i problemi non si arrestano qui.
All’elevato tasso di meta-comprensione insito nel lavoro magistratuale si aggiunge il suo essere, come pochi altri mestieri, intimamente legato, fino al punto d’identificarvisi - a livello simbolico, nell’ideologia dei propri esponenti e nelle aspettative del pubblico -, con un valore/mito/simbolo quanti altri mai carico di pregnanza emotiva e pre-razionale, e condiviso da tutte le civiltà storiche: quello della Giustizia.
Il lavoro magistratuale, per quanto concreto, terreno, disarticolabile in una lunga serie di adempimenti di per sé non necessariamente carichi di senso simbolico, è nulla senza quel raccoglimento e quella concentrazione dell’attività intellettuale che, attraverso la razionalità e l’attività conoscitiva sviluppata nel contraddittorio, permettono l’approdo alla decisione – decisione che è stata, e continua ad essere, uno dei fuochi principali di quell’aspettativa ancestrale, inestirpabile dall’essere umano, indifferente al variare dei regimi politici, ugualmente intensa se vissuta in senso religioso o secolarizzato, che è quella alla Giustizia.
Privato della sua finalità di meta-comprensione, il mestiere di magistrato diviene alienante. Privato di un qualche collegamento significativo con l’archetipo della Giustizia, è ridotto ad assurdo logico-etico.
Eppure, è questo il processo che interessa la magistratura contemporanea, e certo, per quel che si è scritto prima, non solo in Italia. La razionalità produttivistica, la cieca volontà di potenza dell’economia-mondo, sente nell’aspirazione del magistrato, e di chi al magistrato si rivolge, ad un’autonomia intellettuale governata dalla razionalità del sistema-diritto, ad un’indipendenza al servizio dell’etica dei valori costituzionali, un nonsenso, uno scandalo. E questo scandalo investe, insieme alla magistratura, tutte le professioni che implichino, ad un tempo, meta-comprensione e servizio ai valori dell’umanesimo razionalistico.
Dove sono i successori di Camus, Berlin, Sartre, Adorno, Chomsky? Semplicemente, non hanno più posto in una società dove la ricerca della verità sociale, morale e politica da parte dell’intellettuale porta alla morte, ed alla morte atroce della Politkovskaya, di Caruana Galizia, di Regeni, di Khashoggi.
Ci siamo lasciati alle spalle una stagione, probabilmente irripetibile, nella quale, per un accidente dovuto all’incertezza di equilibri ancora in fase di assestamento, era richiesta, ad una magistratura secolarmente sottomessa all’autorità, un’assunzione di autonomia strumentale alla sostituzione dell’autorità stessa - con i suoi ormai inefficienti arcaismi ideologizzanti, di destra e di sinistra, laici e religiosi - con la razionalità economicistico-produttivistica.
Raggiunta una configurazione maggiormente stabile nell’assetto del nuovo non-potere, tanto più pervasivo quanto meno è visibile, l’autonomia e la dignità intellettuale del magistrato non si rivelano solo, come nelle passate fasi di eclisse della democrazia, un intralcio, ma diventano, appunto, un assurdo, che espone il magistrato ad una doppia delegittimazione: quella operata dal sistema, che pretende di recidere ogni suo legame con l’auto-organizzazione del proprio lavoro e, finalmente, con l’archetipo della Giustizia, a colpi di appelli ad un efficientismo maniacale e a tratti psicotico, e quella presso l’opinione pubblica, che avverte il divorzio tra la macchina giudiziaria e l’irrinunciabile archetipo come un tradimento imperdonabile.
Che alcuni magistrati, gettati in questa lacerante contraddizione, vedano nel carrierismo, e in quel sistema che dal carrierismo trae indebito alimento, un’evasione da una vocazione che ha rinnegato le sue promesse, un iper-adattamento allo spirito di un tempo senza Spirito, può sorprendere solo chi non si renda conto che l’abbandono della vocazione etica ed intellettuale del magistrato - infinitamente più appagante della ricerca di qualsivoglia miserevole strapuntino - è l’inevitabile e desiderato decreto di un sovrano destinato a divorare la libertà non già solo dei magistrati, ma di qualsiasi potere, ed il potere di qualsiasi libertà.