Magistratura democratica
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Essere un potere costituzionale. I giudici, l’associazionismo e il costituzionalismo

di Enrico Scoditti
consigliere della Corte di cassazione

È in discussione il potere costituzionale dei giudici, per volontà del potere politico ma anche per la riemersione, nel corpo della magistratura, dell’ideologia di ceto del funzionario: per l’associazionismo giudiziario si tratta di tornare alle sue ragioni costitutive, in una stagione del costituzionalismo diversa da quella in cui fu in grado di liberare il potere costituzionale dalla cappa del funzionario. 

A Maurizio Fioravanti, in memoriam

 

Il senso dell’associazionismo giudiziario nella storia dell’Italia repubblicana è stato quello della liberazione della funzione costituzionale dalla struttura del funzionario mediante cui quella funzione veniva svolta. In base al modello napoleonico, vincente nell’Europa continentale, il reclutamento del giudice avviene per via amministrativa, alla stregua di un qualsiasi funzionario statale, nella forma del concorso. La funzione giudiziaria è stata originariamente equiparata a quella burocratica affinché il giudice fosse il passivo esecutore della legge. Per una sorta di eterogenesi dei fini, al momento del passaggio agli ordinamenti costituzionali novecenteschi, con l’apporto determinante del principio dell’autogoverno della magistratura, il modello del giudice funzionario reclutato per concorso si è caricato di un nuovo significato: è diventato garanzia di indipendenza «da ogni altro potere» (art. 104 Cost.). Diversamente dai sistemi di reclutamento basati sull’elezione diretta o sulla nomina da parte di un altro potere costituzionale (solitamente l’esecutivo), la selezione per concorso garantisce autonomia e indipendenza al magistrato. La stessa fedeltà assoluta alla legge, trasformandosi in soggezione «soltanto alla legge» (art. 101 Cost.), è diventata suprema protezione dalle interferenze degli altri poteri. Non solo. Il modello del funzionario reclutato per concorso è diventato la struttura in grado di esplicare la funzione giudiziaria secondo i nuovi moduli imposti dall’introduzione anche nell’Europa continentale del principio di supremazia della costituzione rispetto alla legge: il diritto oggettivo, alla cui applicazione è preposto il giudice, non è più solo quello dei codici ma è anche quello della carta dei diritti fondamentali, cui il diritto codicistico deve essere necessariamente conforme, anche in via interpretativa, pena la sollevazione dell’incidente di costituzionalità. 

È merito, in primo luogo, dell’associazionismo giudiziario se nella cappa del funzionario è apparso il potere costituzionale: dire il diritto è una funzione che i giudici assolvono per costituzione sulla base di un’attività interpretativa e non mediante la burocratica applicazione del testo legislativo. Il congresso dell’Associazione nazionale magistrati di Gardone, nel 1965, ha rappresentato il vero punto di non ritorno in questa direzione. Grazie all’associazionismo di quegli anni, il potere costituzionale dei giudici è stato liberato non solo verso l’esterno, ma anche verso l’interno. La forma burocratica reca con sé non solo una certa visione del rapporto con la norma, ma anche una particolare ideologia di ceto, le cui caratteristiche sono le aspettative di carriera con le relative aspirazioni di promozione, il trattamento retributivo, lo status e il prestigio rispetto ad altri apparati. Grazie all’associazionismo i giudici hanno appreso che non sono semplici dipendenti in un rapporto di servizio con il datore di lavoro pubblico, con tutte le aspettative verso quest’ultimo che l’impiego pubblico comporta, ma sono un potere costituzionale. Abolire la carriera in magistratura, dando attuazione al principio costituzionale per il quale «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per funzioni» (art. 107, comma 3, Cost.), ha introdotto una innovazione antropologica nel corpo della magistratura, inaugurando la stagione dei servitori dello Stato in quanto titolari di un potere costituzionale, che antepongono l’adempimento della funzione costituzionale all’ideologia del dipendente pubblico, secondo un’onda lunga che arriva fino alle morti per mafia.

La scoperta per la magistratura del potere costituzionale all’interno della struttura del funzionario è stata resa possibile da una determinata stagione del costituzionalismo italiano. Si tratta di una stagione profondamente innervata nella tradizione europeo-continentale, aperta dalla Rivoluzione del 1789, e secondo la quale il costituzionalismo è un fenomeno politico e sociale perché la costituzione è essenzialmente un progetto di trasformazione sociale. 

Il perno di tutto è l’art. 3 cpv. Cost., che vale la pena richiamare perché esso è per davvero il manifesto delle costituzioni democratiche europee del Novecento: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Mediante questa norma, il conflitto sociale entra nella Costituzione, la quale diventa così un programma di cambiamento sia della società, nella direzione dell’eguaglianza economica e sociale, che, proprio grazie al perseguimento dell’eguaglianza sostanziale, della politica, nella direzione stavolta di una democrazia effettiva, perché caratterizzata dalla partecipazione di tutti i lavoratori al processo politico. Di qui la centralità dei partiti politici come strumento che consente ai cittadini di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49 Cost.). La «costituzione materiale» di Costantino Mortati, uno dei padri se non il padre del costituzionalismo italiano, è la rappresentazione più efficace di questa fenomenologia costituzionale. La costituzione è un indirizzo fondamentale che avvolge tanto la politica quanto la società grazie all’intermediazione dei partiti politici e delle organizzazioni dei lavoratori. Essa è un centro di mobilitazione permanente di tutti i soggetti istituzionali e sociali intorno all’idea di eguaglianza sostanziale e di democrazia partecipata. Il luogo di esercizio di questa mobilitazione è la sovranità, quale funzione politica fondamentale che «appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1, cpv., Cost.).

Il contesto politico-sociale di questo costituzionalismo è il trentennio “glorioso” post-bellico, caratterizzato dalle politiche di redistribuzione sociale riconducibili alle esperienze europee di Welfare State, nelle quali il trasferimento di risorse fra gruppi sociali si combina alle politiche espansive di tipo keynesiano di sostegno della domanda e alla preservazione di soddisfacenti livelli di crescita economica e di occupazione mediante il prelievo fiscale e contributivo, l’indebitamento e la stessa diretta gestione pubblica di attività economiche. Si tratta di società politicizzate, non solo per la penetrazione dell’autorità pubblica nella sfera sociale mediante la funzione redistributiva e gestoria, ma anche per la diffusione molecolare della politica come partecipazione popolare grazie alla mediazione dei partiti. È in questo quadro che matura una diversa consapevolezza costituzionale da parte dei magistrati, e non solo per la mobilitazione civile delle società europee, ma anche perché tutte le istituzioni, in una Costituzione concepita come disegno di società, sono chiamate alla realizzazione di quel disegno, e l’istituzione giudiziaria non può essere da meno in un assetto siffatto.

Quella stagione del costituzionalismo si è, per una parte significativa, esaurita. Restano una serie di acquisizioni non reversibili, ad esempio in materia di diritti sociali. Rimane la filosofia della "costituzione indirizzo", ma deve condividere la scena con un altro paradigma costituzionalistico. A partire dalla prima metà degli anni settanta, in Europa cominciano a prendere piede nuovi processi economici e sociali. La crisi petrolifera del 1973 e il mutamento delle ragioni di scambio fra Paesi industrializzati e Paesi esportatori di materie prime segnano un punto di svolta per l’intero Occidente. Le società europee entrano in un percorso che giungerà a maturazione negli anni ottanta e novanta, con il passaggio dalle politiche di redistribuzione sociale a quelle di regolazione di mercato e con l’entrata in campo di una nuova stagione del costituzionalismo. Se possiamo definire la prima stagione come quella del costituzionalismo politico-sociale, la seconda stagione è quella del costituzionalismo giuridico. È la stagione delle corti e delle carte dei diritti. Non che al costituzionalismo politico-sociale mancasse naturalmente la giurisdizione costituzionale, ma è con la seconda stagione che le corti si affermano come l’istituzione contro-maggioritaria in grado di dare vita a una nuova concezione di costituzionalismo, dove per tale, come è chiaro, si intende non il documento costituzionale ma la living constitution.

La costituzione non è più la decisione politica fondamentale. È un contratto, le cui clausole sui diritti i giudici sono chiamati a garantire. Non più Hans Kelsen e Carl Schmitt, accomunati dal punto costituente di avvio dell’ordine delle norme e delle decisioni, ma Ronald Dworkin e, poi, Robert Alexy. Alla costituzione indirizzo fondamentale subentra la "costituzione garanzia", il cui luogo di nascita non è l’Europa, ma gli Stati Uniti, a partire dall’evento fondativo del caso Marbury v. Madison del 1803, in cui per la prima volta si riconobbe il primato della costituzione sugli atti legislativi. Anche l’Unione europea può avere un tono costituzionale, perché ciò che fa una costituzione è la garanzia giurisdizionale dei diritti fondamentali. Caratteristica del costituzionalismo giuridico nell’Europa continentale è la vigenza di un sistema di diritti, internazionali e sovranazionali, scollegato dal principio di sovranità. La funzione contro-maggioritaria delle corti si innesta poi nel pluralismo istituzionale che viene in primo piano in questa stagione del costituzionalismo: non più il tendenziale monismo che deriva dall’unificazione delle istituzioni intorno all’indirizzo fondamentale, ma il gioco del potere che frena il potere quale effetto del rapporto di reciproco controllo che si stabilisce fra le istituzioni. In Europa, l’ordinamento istituzionale euro-unitario dà una forte spinta in questa direzione. 

Il contesto politico-sociale di questo costituzionalismo è quello della regolazione di mercato. La regolazione sociale non redistribuisce, né gestisce attività economiche, ma corregge l’efficienza allocativa del mercato fronteggiandone i fallimenti, quali la formazione di monopoli a danno della concorrenza o la carenza dei flussi informativi in pregiudizio dei consumatori. Il controllo del processo economico, grazie anche alla presenza delle cd. autorità indipendenti, acquista un volto più spiccatamente tecnico.

Il modello del costituzionalismo giuridico è, in definitiva, riposto nella categoria di “associazione civile” (societas), che il filosofo politico inglese Michael Oakeshott ha contrapposto ad “associazione d’impresa” (universitas), quali specchi di due diverse inclinazioni della condotta umana, quella dell’autonomia e quella ad associarsi con altri per un comune obiettivo. La costituzione indirizzo fondamentale corrisponde all’associazione d’impresa, nella quale gli associati perseguono con il proprio agire scopi sostantivi comuni. L’associazione civile, cui è riconducibile la costituzione garanzia, fissa invece le regole cornice dell’agire, ma non ciò che verrà detto o fatto da ogni associato. 

Il ritiro del senso dell’agire nella sfera individuale, proprio all’associazione civile, segna la fine della mobilitazione politica della società che ha contraddistinto la prima stagione del costituzionalismo. I partiti politici non sono certo venuti meno, ma non sono più la struttura portante delle decisioni individuali. Dalla classe operaia alla massa polverizzata di consumatori: è questa la grande metafora della fine di comunità nelle quali rinvenire il senso di un’appartenenza che potesse guidare l’individuo nelle proprie scelte. Di qui, l’avvio di percorsi di depoliticizzazione sociale. Il depotenziamento della presa dei partiti politici sulla società ha proprie dinamiche causali, ma può integrarsi con il passaggio dalle politiche redistributive a quelle regolative e con l’affidamento delle sorti degli individui ai diritti e alle corti piuttosto che ai disegni politici di trasformazione sociale. 

La grande malattia dell’Occidente, cresciuta all’ombra del costituzionalismo giuridico negli ultimi decenni, è il populismo. Il costituzionalismo giuridico è il fronte più avanzato che si possa immaginare nella tutela dei diritti individuali, in grado di compensare, anche grazie all’incidenza del diritto internazionale e di quello sovranazionale, i vuoti che da questo punto di vista lasciava aperti il costituzionalismo politico-sociale, concentrato nel perseguimento di grandi visioni collettive. L’associazione civile, al cospetto dell’associazione d’impresa, nella quale è centrale il nesso fra diritto e trasformazione sociale, può tuttavia avere dei costi sul piano sociale, perché esercita la virtù passiva della garanzia delle situazioni soggettive e non quella attiva del perseguimento di un indirizzo fondamentale. Sono così venute alla luce vecchie e nuove diseguaglianze economico-sociali, vero terreno di coltura della stagione impolitica del populismo. I sociologi dell’economia osservano che, mentre i trenta anni post-bellici sono stati caratterizzati da un sensibile ridimensionamento delle disuguaglianze economiche nelle democrazie occidentali, dagli anni ottanta si assiste ad una inversione di tendenza, con un aumento vistoso delle diseguaglianze. Al di là dei contingenti disegni di revisione costituzionale che nel dibattito politico italiano si stanno affacciando, c’è forse alle porte una nuova epoca per la living constitution su scala europea, nella quale il diritto torni ad essere strumento non solo di garanzia ma anche di trasformazione sociale? 

Il costituzionalismo contemporaneo è per definizione aperto e problematico perché vive di equilibri costantemente rivedibili fra le sue due anime, quella politico-sociale e quella giuridica. In questo quadro gubernaculum e iurisdictio possono essere, a fasi alterne, i lati di una convergenza o di una tensione dialettica. Di tutto questo deve avere consapevolezza l’associazionismo giudiziario, in modo da avere chiarezza su quale sia la vera posta in gioco per la magistratura associata oggi. Dopo questo rapido viaggio nel costituzionalismo torniamo, così, alla magistratura.

Alla luce della complessità della fase che stiamo attraversando, l’associazionismo giudiziario dovrebbe guardarsi dalle polarizzazioni che fanno smarrire il vero bersaglio dell’azione associativa. Da una parte, sembra affacciarsi una sorta di ritorno alla scuola dell’esegesi, che caratterizzò le dottrine dell’interpretazione all’inizio del secolo XIX: il rispetto del canone della massima aderenza alla formulazione letterale della disposizione legislativa e l’ideologia del magistrato senza qualità, per riprendere Robert Musil, passivo e burocratico esecutore della legge. Questo approccio non coglie che la supplenza giudiziaria in sede interpretativa rispetto al legislatore è addirittura prevista dal sistema, perché l’interpretazione conforme è imposta dall’esistenza di fonti (costituzionale, internazionale, sovranazionale) cui la norma ordinaria deve adeguarsi. Dall’altra parte, emerge una contrapposizione fra i diritti di fonte sovranazionale ed internazionale e la sovranità nazionale, che non coglie che il luogo della politica, della democrazia e della società resta la sovranità. Il costituzionalismo politico-sociale ci ha insegnato che la costituzione è un fenomeno materiale, e una visione più complessa, arricchita del punto di vista del costituzionalismo giuridico, non può non considerare che il legame sociale trascorre fra diritti individuali e sovranità, senza che possa essere ridotto agli uni o all’altra. Non è ipotizzabile uno scollamento fra giurisdizione e sovranità. «La giustizia è amministrata in nome del popolo» (art. 101, comma 1, Cost.), cui appartiene la sovranità, e quest’ultima è dal popolo esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1, cpv., Cost.), e dunque anche mediante la giurisdizione. 

L’obiettivo dell’associazionismo giudiziario deve tornare ad essere oggi, come al principio della storia repubblicana, il potere costituzionale. È in corso un attacco al potere costituzionale dei giudici. Quell’attacco ha un’origine nobile, perché affonda le sue radici in una polemica di alto livello che si è sviluppata, a partire dall’ultimo quarto del secolo scorso, soprattutto nella patria del costituzionalismo giuridico, gli Stati Uniti. Nulla a che vedere con le odierne teorizzazioni di democrazia illiberale emerse nell’Est europeo, attraverso dispute teoriche come quelle fra Ely e Waldron da una parte e Dworkin dall’altra, o anche quella Habermas versus Rawls, si sono confrontati pensiero democratico e pensiero costituzionale su questioni di fondo: la costituzione è la grammatica della democrazia o dei diritti? Il modello di ragione pubblica è riposto nel dialogo che dà voce alla generalità dei punti di vista all’interno della procedura democratica o nella conversazione sapiente che ha luogo nella Corte suprema? Si tratta di un dibattito legittimo, che l’epoca del costituzionalismo giuridico, per la dialettica aperta che introduceva fra le corti e la politica, non poteva non produrre, fino alle punte estreme dell’accusa di "giuristocrazia". 

Conosciamo in Italia una variante di tutto ciò, la quale nella polemica politica è apparsa talora rozza e semplicistica, priva dello spessore accademico che altrove si è manifestato. La variante italiana si è da ultimo materializzata in tre disegni di legge costituzionale per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura (AA. C. 23 – 434 – 824), attualmente in sede referente presso la Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, ed è la sostituzione nell’art. 104 della Costituzione dell’autonomia e indipendenza della magistratura «da ogni altro potere» con «da ogni potere». Si intende così affermare che la magistratura non sarebbe un potere. Si tratta di una modifica priva di efficacia dal punto di vista pratico, ma di alto valore simbolico. 

L’inefficacia pratica risiede in ciò. L’organo giudiziario, quando compie un atto di esercizio della funzione giurisdizionale, non solo esercita ma è un potere previsto dalla costituzione. A nulla vale dunque prevedere che la magistratura è autonoma e indipendente «da ogni potere» invece che «da ogni altro potere». Si perde così la felix culpa che connota l’esercizio del potere da parte di un soggetto istituzionalmente identificato in Costituzione come ordine e non potere, e che la lungimiranza del costituente del ’48 colse. La magistratura esercita un potere, ma come istituzione è un ordine perché, a differenza di quanto accade con il potere di formazione delle leggi e quello di darvi esecuzione, l’organizzazione e il funzionamento dei mezzi apprestati per l’esercizio del potere non è affidata al potere medesimo ma a un altro potere, il Governo e segnatamente il Ministro della giustizia (art. 110 Cost.). Questa scissione di potere e mezzi, connaturata all’affidamento di un potere costituzionale a un funzionario, è l’effetto della declinazione europeo-continentale del carattere “nullo” di questo potere, il quale non è espressione dell’indirizzo di un’istituzione, ma è esercizio di una funzione costituzionale per un caso concreto e su domanda di parte. Sostituire, come si fa inoltre nelle proposte di legge costituzionale in discorso, l’attuale rubrica del titolo IV, «La Magistratura», con «L’ordine giudiziario», significa smarrire la virtuosa ambivalenza di potere e ordine che l’attribuzione della «funzione giurisdizionale» (art. 102, comma 1, Cost.) a un corpo di magistrati possiede.

Le costituzioni, si sa, esemplificano però lo spirito del tempo. Ha dunque un valore altamente simbolico la negazione nella Carta fondamentale della magistratura come potere costituzionale. Penetra nella cultura istituzionale di un popolo una certa idea della funzione assolta dai giudici, che spinge per un ritorno a un tempo di burocratica applicazione del testo legislativo. Il magistrato ha da essere funzionario fino in fondo.

Il nemico del potere costituzionale non è, però, solo all’esterno della magistratura, è anche dentro di noi. Nel 2006, fermo il principio della parità di retribuzione indipendentemente dalle funzioni svolte, è stata reintrodotta la carriera. Da allora, l’ideologia di ceto del funzionario si è riaffacciata prepotentemente nella magistratura. Acquista centralità la ricerca della promozione agli uffici direttivi e semidirettivi, con l’annessa proliferazione di ricorsi giudiziari, e l’associazionismo è diventato lo strumento di queste pulsioni, condizionando lo stesso autogoverno, come hanno dimostrato le cronache di questi ultimi anni. Più in generale, si è fatta avanti in modo marcato una logica di aspettative verso il datore di lavoro pubblico sotto una pluralità di punti di vista (condizioni di lavoro, benessere organizzativo, etc.), cui una parte dell’associazionismo pare piegarsi, eppure non si dovrebbe mai dimenticare che il soggetto di quelle pretese è un potere costituzionale e che i mezzi che il datore di lavoro pubblico appresta sono finalizzati all’esercizio di quel potere.

Bisogna ritrovare il linguaggio comune del potere costituzionale, e per far ciò è necessario tornare alle ragioni costitutive dell’associazionismo. Si tratta di un’impresa non facile, per due ragioni soprattutto. Manca il contesto di una mobilitazione civile al livello della società intera, che accompagnò fra gli anni sessanta e settanta la presa di consapevolezza della rilevanza costituzionale del ruolo del magistrato. Si devono poi trovare le vie per far convergere, facendone in definitiva i due volti di una medesima medaglia, il potere costituzionale con le aspirazioni che legittimamente appartengono alla figura del funzionario. In questo quadro, l’attenzione deve essere portata in modo particolare sulle nuove generazioni di magistrati. Insomma, una grande cantiere aperto per l’associazionismo giudiziario. 

23/05/2023
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02/09/2024
L’imparzialità dei giudici e della giustizia in Francia…in un mondo dove gravitano i diritti fondamentali

Un viaggio nella storia del pensiero giuridico alla luce dell’esperienza francese, sulle tracce di un concetto connaturato al funzionamento della giustizia, reattivo ai tentativi di soppressione o mascheramento tuttora capaci di incidere sul ruolo del magistrato all’interno della società. Una società complessa e plurale, di cui egli è parte attiva a pieno titolo. Nella lucida e personalissima testimonianza di Simone Gaboriau, l’imparzialità emerge come principio-cardine dell’ordine democratico, fondato – necessariamente – sull’indipendenza dei poteri che lo reggono.
Pubblichiamo il contributo nella versione italiana e nella versione originale francese. 

16/05/2024
L’imparzialità del giudice: il punto di vista di un civilista

Il tema dell’imparzialità del giudice, di cui molto si discute riferendosi soprattutto all’esercizio della giurisdizione penale, presenta spunti di interesse anche dal punto di vista civilistico. Se è ovvio che il giudice debba essere indipendente e imparziale, meno ovvio è cosa per “imparzialità” debba intendersi. Si pongono al riguardo tre domande: se e quanto incidono  sull’imparzialità del giudice le sue convinzioni ideali e politiche e il modo in cui egli eventualmente le manifesti; se  l’imparzialità debba precludere al giudice di intervenire nel processo per riequilibrare le posizioni delle parti quando esse siano in partenza sbilanciate; entro quali limiti la manifestazione di un qualche suo pre-convincimento condizioni  l’imparzialità del giudice all’atto della decisione. Un cenno, infine, all’intelligenza artificiale e il dubbio se la sua applicazione in ambito giurisdizionale possa meglio garantire l’imparzialità della giustizia, ma rischi di privarla di umanità. 

04/05/2024
I test psicoattitudinali: la selezione impersonale dei magistrati

Certamente il lavoro del magistrato è molto impegnativo sul piano fisico, mentale e affettivo e vi sono situazioni - presenti, del resto, in tutte le professioni - in cui una certa vulnerabilità psichica può diventare cedimento e impedire l’esercizio sereno della propria attività. Esse si risolvono con istituti già presenti nell’ordinamento come la “dispensa dal servizio” o il “collocamento in aspettativa d’ufficio per debolezza di mente o infermità”. Invece il progetto di introdurre test di valutazione psicoattitudinali per l’accesso alla funzione di magistrato è inopportuno sul piano del funzionamento democratico delle Istituzioni e inappropriato sul piano psicologico perché, da un lato, sposta l’attenzione dal funzionamento complessivo della Magistratura come istituzione all’“idoneità” del singolo soggetto e, dall’altra, non prende in considerazione il senso di responsabilità , la principale qualità che deve avere un magistrato e la sola che valorizza appieno la sua competenza e cultura giuridica. 

03/04/2024