Mettiamo 500 ragazzini dai 10 ai 19 anni, alunni di 43 scuole della “Terra dei fuochi”, e un signore fiorentino di 84 anni, professore di storia del diritto medievale e moderno che ora di mestiere fa il Presidente della Corte costituzionale. Mettiamoli insieme, una piovosa mattina di novembre, in un teatro di Afragola, che il nome – “Gelsomino” – è già un programma. Mettiamoli a parlare di Costituzione e di legalità, in modo semplice e diretto, a domandare e a rispondere, dopo aver cantato insieme l’inno di Mameli con la mano incollata al cuore. Per quasi tre ore li guardo, li ascolto e sento nell’aria sciogliersi diffidenza e indifferenza e salire una voglia di fisicità, il bisogno di toccarsi: con le parole, lo sguardo, una stretta di mano o un abbraccio, purché ci si senta, non entità astratte ma carne viva e sangue, non maschere ma uomini e donne. Persone, non individui. «L’individuo è isola, la persona è relazione», dice il Presidente nella sua lectio magistralis diventata per l’occasione “lezione” e basta, «lezione di un maestro di scuola che vuole spezzare un po’ di pane su Costituzione e legalità». È delle persone, e della loro vita quotidiana, che la Costituzione e i suoi custodi si occupano. Della loro dignità. Proteggendola «senza distinzioni tra povero e ricco, tra sapiente e ignorante». E senza pregiudizi. Quelli che però imprigionano i ragazzini di queste terre – Aversa, Caivano, Afragola, Cardito, Marano, Qualiano, Casoria, Frattamaggiore, Casavatore, Arzano, Villaricca, Giuliano, Scampia, Melito di Napoli, Trentola Ducenta –, venuti qui anche per capire “perché”. Perché sono meno uguali di altri. Perché sono condannati a vivere con la paura. Perché lo Stato li trascura, li isola, li dimentica. Perché devono subire la devastazione ambientale. Perché, insomma, questa terra è trattata come se il suo destino fosse già scritto, Terra dei fuochi ora e sempre. Fuochi che stanno bruciando anche la voglia di riscatto.
Difficile raccontare questa mattinata ad Afragola. Difficile ma doveroso, perché al “Gelsomino” accade qualcosa di inedito. E non solo perché per la prima volta un presidente della Consulta “è sceso” nella Terra dei fuochi a parlare con i ragazzini del luogo.
Sul palco di questo cinema-teatro, al piano terra di una palazzina anni ’60, non va in scena il solito copione dell’incontro, muto e sordo, tra l’Istituzione e la gente, con annesso bagno di folla ad uso e consumo di telecamere e taccuini. Dopo i saluti e i ringraziamenti di rito, si recita a soggetto. Merito dell’Associazione «Vento di legalità», artefice dell’iniziativa. Nessun pacchetto preconfezionato. Paolo Grossi parla a braccio e «unicamente per loro», avverte. E “loro” non fanno sconti. Se sono qui è per rivendicare il diritto ad avere un domani e a sottrarsi alla legge della “paranza”. Tengono in mano foglietti su cui hanno riversato, con l’aiuto di maestri e professori, domande ma anche rabbia, dolore, senso di ingiustizia. Davanti hanno la Corte costituzionale, “il giudice” più vicino ai cittadini, l’ultima spiaggia “contro abusi e tormenti”. La fila è lunghissima.
Ad Afragola va in scena la frattura profonda tra il Paese reale e i suoi valori di riferimento ma anche, e soprattutto, il tentativo di riavvicinamento. Per riuscirci, però, tutti gli “attori” devono essere credibili, uscire dal gioco delle parti e dagli stereotipi.
Bisognava esserci per capire come sarebbe andata a finire.
Perciò sono venuta ad Afragola, per respirare l’aria di questo “strano” appuntamento, cercando di coglierne il senso e le sfumature. E ho respirato soprattutto fisicità ed empatia.
Ho visto ragazzini sonnacchiosi risvegliarsi al suono delle parole di quell’anziano signore che declinava in prima persona plurale gli errori e i doveri delle istituzioni supreme e, in generale, di chi riveste incarichi pubblici, politici o istituzionali. «Con il nostro assenteismo e la nostra indifferenza abbiamo tolto la speranza ai giovani. Troppe volte noi non ci chiniamo abbastanza verso di voi. Abbiamo altezzosità e superbia, che rasentano la stupidità. È nostro dovere infondervi la virtù della speranza. Noi vecchi sappiamo di avervi deluso. Vi abbiamo trascurato, abbandonato. Dovete invece sentirci solidali con voi nella migliore ricostruzione dell’Italia. Perciò si doveva venire qui, in questa terra martoriata, dimenticata, che ha bisogno di testimonianze. Questa terra va vista, ma non da lontano. Volevo e dovevo venire qui di persona. Volevo essere fisicamente accanto a voi». Più tardi, quando il teatro si svuota, ripensando alla lunghissima fila di ragazzi saliti sul palco a fargli domande, dirà: «All’inizio non sapevo se, dopo aver risposto, potevo abbracciarli, ma poi ho capito che lo gradivano, che avevano bisogno di un contatto fisico, lo stesso che volevo io. Perciò l’ho fatto». Contatto che tanti di quei ragazzi cercano anche a riflettori ormai spenti e che trovano in una stretta di mano o in un braccio attorno alla spalla immortalati nelle foto-ricordo e nei selfie accanto al Presidente.
Ho visto ragazzi ben decisi a portare sul palco le loro domande, sforzandosi di resistere a quel mix di slang, che sporca i suoni e le parole, e di emozione, che insieme alle frasi spezza il fiato e toglie il respiro. Fieri di avercela fatta, di poter chiedere conto, ad esempio, della costante violazione del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione a causa della dilagante povertà e della mancanza di lavoro. Oppure per parlare dell’”esercito di arrangiatori”, gente che per campare «si affida al lavoro in nero e alle mani della camorra, costituendo per questi ultimi una miniera d’oro. Se lo Stato volesse davvero togliere il potere alle mafie – spiegano al Presidente – darebbe garanzie al popolo, primo tra tutti: il lavoro. Il lavoro oltre ad essere un diritto è anche un valore costituzionale tutelato e tuttavia – protestano – non viene rispettato».
Interrogativi pesanti. «Tostissimi», per dirla con la moderatrice dell’incontro. Paolo Grossi non si sottrae, prende sulle proprie spalle quel peso e affronta la mitragliata di domande con l’obiettivo, in particolare, di infondere a quei ragazzi “la virtù della speranza”. «La vostra speranza è la nostra forza», ricorda anzitutto a sé stesso. Quasi li prega di «innamorarsi» della Costituzione, perché la Costituzione è la «migliore corazza» che chiunque possa avere a disposizione. Parla del costituzionalismo moderno come se stesse raccontando una storia a 500 nipotini, e il suo racconto è semplice ma intenso. Commuove. «La Costituzione non è un decalogo imbalsamato ma un breviario di valori. Si parla di scuola, educazione, economia, paesaggio… . Si parla di vita quotidiana, insomma. E della persona, dei suoi diritti fondamentali. E dei suoi doveri, perché il dovere socializza la persona, la immerge nella società civile. La solidarietà è un principio fondamentale che innerva la società». Ebbene, la Corte costituzionale ha il compito di «far respirare la Costituzione», che è «attualissima» nei suoi valori nonostante i 70 anni di vita. «Perciò, lì va mantenuta intatta».
L’articolo 3, per esempio: Grossi mette l’accento soprattutto sul secondo comma, su quell’obbligo imposto alla Repubblica di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…» che impediscono l’uguaglianza effettiva. Ne spiega il valore, quasi rivoluzionario. «Una vera e propria testimonianza di civiltà democratica». «Altro che filosofia! – esclama –. I costituenti hanno guardato alla realtà effettiva in cui vive il cittadino comune!». Ecco perché la Costituzione va amata ma soprattutto «conosciuta»: dalla conoscenza della Costituzione passa la consapevolezza dei propri diritti, e quindi la possibilità del cambiamento.
Apparentemente distratti, i ragazzi assorbono le parole. Hanno il diritto, prima che il dovere, di credere che la Costituzione sia “la bussola” del loro riscatto. La speranza è un diritto. Ma proprio per questo non rinunciano alle domande. Domande terribili, perché la realtà che vivono è terribile e sembra contraddire i valori della Costituzione.
Tania, di origine ucraina, 11 anni, scuola media Giovanni Pascoli di Aversa: «In Italia ci sono tanti ragazzini stranieri che frequentano regolarmente la scuola. Mia madre è straniera ma è qui da circa 15 anni e come me non ha la cittadinanza. Io vivo in Italia, vado a scuola, ho tanti amici qui e quindi mi considero e vorrei essere considerata cittadina italiana. Penso che quelli che hanno da sempre vissuto in Italia debbano ottenere la cittadinanza ed essere considerati alla pari degli italiani, perché nonostante le origini dei genitori, il Paese natale è quello in cui si nasce e si cresce. Sono stata una sola volta nel Paese d’origine di mia madre ma mi sono sentita un’estranea e non vedevo l’ora di tornare a casa mia, dai miei amici, dai miei compagni e dai miei professori». Tania racconta delle “offese gratuite” in cui si imbatte navigando su Internet, di «gente che si scaglia contro lo ius soli in maniera feroce». «Mi sono sentita molto ferita», confessa. «Come sarebbe possibile – chiede – conciliare le posizioni favorevoli e contrarie allo ius soli? Come si potrebbe favorire un clima di convivenza civile e di integrazione globale per ragazzi come noi che ci sentiamo profondamente italiani sia a livello giuridico sia culturale e umano?».
Brusio in sala. Non risponderà, si mormora. Grossi invece risponde, pur sapendo di dover calibrare le parole per non trasformare questa preziosa giornata in una rumorosa polemica politica. Sospira e dice: «Il potere politico sta discutendo molto sullo ius soli e io non vorrei entrarci perché si tratta, appunto, di una scelta politica. Ma spero che la soluzione sia quella desiderabile sul piano della giustizia sostanziale». E nessuno, al “Gelsomino”, ha dubbi sul significato di quelle parole…
Donatella Stasio
P.S. Ci tenevo molto a raccontare la giornata ad Afragola. Ci tenevo da cronista, quale sono sempre stata e quale continuo a sentirmi. Perciò ringrazio il Presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi e il Direttore di Questione Giustizia Renato Rordorf di avermi tolto qualunque scrupolo al riguardo e di avermi incoraggiato a scrivere questo Controcanto.