Perché ora? Perché non prima? A questa domanda posta candidamente, ma con una certa ruvidezza, da Francesco, detenuto di lungo corso, il presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi è entrato in crisi e da uomo limpido qual è non ha fatto nulla per nasconderlo. Ed è entrato in crisi non perché non si fosse già interrogato egli stesso sulla stessa domanda, prima di avviare questa piccola rivoluzione, ma perché nonostante ciò non aveva una vera risposta. Perché non c’era.
Varcare la soglia di un carcere, particolarmente di un carcere grande e “moderno”, cioè fatto pressoché interamente di cemento armato, come Rebibbia, è sempre un'emozione grande. Lo è per me, che l’ho fatto tante volte, immagino quanto debba esserlo stato per i componenti della Corte. E, a mio avviso, è questa la vera cifra di quello che a me sembra il grande successo di questa bella iniziativa: non suoni blasfemo, ma ciò che i giudici costituzionali hanno ricevuto da questa iniziativa è molto di più di ciò che hanno dato. E non perché abbiano dato poco. Si sono messi in gioco, dimostrando un grande coraggio, accettando una relazione diretta e paritaria cui certamente (e paradossalmente) erano meno abituati dei loro interlocutori. Hanno inverato la più avanzata idea di comunicazione, spiegandosi e spiegando la Costituzione ad un uditorio difficile, che peraltro si è rivelato per nulla ostile e molto interessato ad un’interlocuzione effettiva e limpida; e anche ai contenuti che questa interlocuzione offriva.
Ovviamente non tutti hanno utilizzato fino in fondo l’occasione, spezzando con successo la barriera che può separare così profondamente due uomini pur collocati uno di fronte all’altro. Non per cattiva volontà o per presunzione, ma magari semplicemente perché non tutti hanno la stessa freschezza o la stessa capacità empatica o perché rompere le “sbarre” che abbiamo dentro di noi resta comunque una cosa difficile. Per tutti. Anche per questo “gli uomini della Corte” vanno ringraziati di essersi messi in gioco.
Ovviamente non tutti si sono spinti fino in fondo sul terreno dei contenuti, raccogliendo tutte le potenzialità giuridiche e “politiche” che alcune domande sollecitavano. Quando Giorgiana ha chiesto senza infingimenti, in sostanza, se l’attualità del messaggio costituzionale, fondato su concetti culturali in continua evoluzione, può comportare solo un allargamento dei diritti o, al contrario, al mutare delle sensibilità esterne (e dunque del contenuto di quelle parole), può significare anche una regressione e, quindi, se l’ordinamento penitenziario attuale può essere “peggiorato” senza violare la Costituzione, nessuno ha potuto o voluto offrire una risposta chiara. Le è stato detto, giustamente, che l’ordinamento penitenziario del ’75 è stato un’attuazione della Costituzione, ma nessuno ha potuto tranquillizzarla che il percorso si può fare solo in una direzione. Del resto noi, noi giuristi, ce l’abbiamo tutti una risposta chiara a questa domanda? Forse noi che scriviamo su questa Rivista sì, abbiamo una nostra risposta. Ma escludo che molti altri intorno a noi l’abbiano. O magari non quella che ci aspettiamo. Del resto gli esempi di “restringimento” dei diritti ci sono stati e non sempre sono incorsi nella mannaia di una bocciatura costituzionale, o magari non ancora. Perché si tratta di questioni complesse. Dunque non mi sento certo di biasimare i giudici costituzionali che lì per lì una risposta non l’hanno trovata. O magari l’hanno trovata dentro di sé, ma non l’hanno restituita esplicitamente a chi pur ne aveva bisogno. Si tratta di una domanda difficile, anzi, si tratta, oggi, della Domanda. E, come in un giallo di tradizione, non se ne può anticipare la risposta.
Ma l’iniziativa, nel suo complesso, ha annullato per tre ore quella barriera fra mondi non comunicanti e ha messo uomini e donne così diversi uno di fronte all’altro, sostanzialmente per quello che erano come uomini e donne. Entrambe le parti di questa relazione hanno trovato conferme a cose che si attendevano e hanno scoperto cose che non si aspettavano. Ed è così che Marta Cartabia ha risposto ad Annamaria Repichini “da donna a donna, da mamma a mamma e non ancora da nonna a nonna” che il tema dell’affettività in carcere aspetta di essere declinato diversamente innanzitutto a cura del Legislatore, ma, se posto nel modo corretto e nell’occasione giusta, anche la Corte costituzionale potrebbe trovarsi a dire una parola significativa, perché il diritto all’affettività è compreso nella Carta costituzionale. Ed è così che Giuliano Amato si è fatto sedurre dal suggerimento di Francesco Pagliuca, che invocava un ricorso diretto del cittadino alla Corte costituzionale “come fanno in Germania”, ed ha galoppato veloce fra gli istituti della democrazia tedesca, con la freschezza di uno studente e la competenza di un accademico tedesco, raccogliendo applausi scroscianti, che si sono anche raddoppiati quando, con un paio di pennellate, ha coniugato i valori in gioco intorno alla limitazione del diritto di voto per talune condanne.
Certo, nessuno ha potuto togliere a Vincenzo la – paradossale – paura di ciò che lo aspetta “fuori”, dove, al di là delle belle parole, la risocializzazione passa attraverso un lavoro che per un ex detenuto semplicemente non c’è. Ma qualcuno, almeno, ha potuto dirgli, guardandolo negli occhi che il diritto alla speranza nessuno potrà mai toglierglielo. E non è poco.
Se intorno al mondo della giustizia è possibile fare comunicazione – interrogativo intorno al quale questa Rivista a breve intende offrire una propria risposta, anzi, intende porre una propria domanda, come nel nostro stile – la Corte costituzionale con questa iniziativa mostra di voler dire proprio la sua. Ricordare in una sede come il carcere di Rebibbia, con la semplicità e la naturalezza con cui lo ha fatto il presidente Lattanzi, che «La Costituzione appartiene a tutti, anche ai detenuti, e la dignità umana è uno di quei valori che vanno salvaguardati pure in carcere» è un gesto semplice quanto potente e considerarlo banale o scontato sarebbe davvero ingenuo. E chi lo ha ascoltato non era un ingenuo.