Cattura di Cesare Battisti e muta da caccia:
«Un giorno che difficilmente dimenticheremo»
Premessa: gli elementi passionali della penalità
Uno degli elementi che caratterizzano il fenomeno che è stato chiamato populismo penale è il suo fare appello agli istinti e all’emotività che da sempre i fatti sociali legati al crimine suscitano nell’opinione pubblica o in quella che più opportunamente è stata chiamata emozione pubblica[1]. «[P]enal populism takes the form of “feelings and intuitions” rather than some more quantificable indicator: for example, expressions of everyday talk beetwen citizens which revolves around concerns and anxietes about crime and disorder; anger and concern about these matters volubly expressed in the media (…); and a variety of new information and media outlets which allow the voices of the general public a much more direct airing»[2]. Infatti, un altro elemento del populismo penale, che lo accomuna al populismo tout court, è rappresentato dalla critica alle élite intellettuali, ai cd. saperi esperti che a lungo, almeno per quanto riguarda l’Italia, hanno esercitato un potere egemonico sul discorso pubblico in tema di penalità[3].
Entrambi questi elementi fanno leva su di una caratteristica dell’atto del punire che è stata recentemente ricollocata al centro della riflessione sociologica e filosofica sulla pena da un importante lavoro dell’antropologo francese Didier Fassin[4]: la dimensione emotiva e passionale di tale atto. In particolare, egli ha sottolineato come «l’approche rationelle développée par les disciplines normatives autant que par les sciences sociales laisse inexplorée une double dimension à la fois émotionelle et pulsionelle: l’indignation devant l’infraction et la jouissance dans l’administration de la sanction constituent la part occultée du châtiment»[5].
L’indignazione verso il crimine e il sottile piacere che si prova nel punire il colpevole sarebbero quindi stati occultati da una prospettiva razionalista che sottovaluta il peso che tali aspetti passionali giocano nel motivare l’agire e il sentire degli individui. Se questa affermazione coglie senza dubbio un punto di forza del consenso che il populismo penale ha trovato nella impaurita opinione pubblica delle società occidentali tardo-moderne, rischia di trascurare quel filone dei saperi esperti che, a partire per lo meno da Durkheim, ha considerato il processo della civilizzazione moderna proprio come il tentativo di liberarsi dalle “passioni retributive”, addomesticando attraverso gli strumenti della giustizia penale il sentimento della rabbia suscitato dal crimine e offrendo «alle persone un modo di relazionarsi che non preveda estenuanti progetti di vendetta a catena»[6]. Faccio qui riferimento ad un’altra recente riflessione sulla pena elaborata dalla filosofa statunitense Martha C. Nussbaum che, partendo dal richiamo mitologico alla figura delle Erinni (anche dette Furie), le dee della vendetta, nella trilogia dell’Orestea di Eschilo, ha messo in evidenza la trasformazione per la quale le Erinni mutano identità diventando Eumenidi, le benevole. Il loro spirito rabbioso della vendetta viene infatti imbrigliato e moderato dalle istituzioni della città e dell’amministrazione della giustizia. «Le Erinni sono ancora necessarie – scrive la Nussbaum – perché il mondo è imperfetto e ci saranno sempre reati da giudicare. Ma non devono mantenere la loro forma originaria. Non sono più le stesse: sono infatti divenute strumenti di giustizia e di benessere. La città (lo Stato) è liberata dal flagello della furia vendicativa, che produce disordini civili e morti premature. Al posto della rabbia, la città ottiene la giustizia politica»[7].
Vedremo tra breve come tutti gli elementi che qui ho brevemente delineato del populismo penale emergano da un recente caso di cronaca che ha particolarmente turbato l’opinione pubblica e che ha riguardato un momento topico dal punto di vista emotivo delle varie fasi di cui si compone l’agire riguardante la penalità: la cattura del reo. Si è assistito, a tal proposito, ad un fenomeno di esposizione pubblica del corpo del condannato che in qualche misura inverte il processo storico che ha caratterizzato l’esercizio della penalità nella società disciplinare. Parafrasando Foucault, si potrebbe sostenere che ricompare, all’inizio del XXI secolo, il grande spettacolo della punizione, non si nasconde più il corpo del condannato e non si esclude dal castigo l’esposizione della sua sofferenza; si è abbandonata quella “sobrietà punitiva” che ha contraddistinto la cultura della penalità moderna[8]. Tratteremo, in particolare, dell’evento mediatico relativo alla esposizione pubblica del terrorista Cesare Battisti in occasione della sua estradizione in Italia dopo l’arresto avvenuto in Bolivia il 12 gennaio 2019, in specifico attraverso l’analisi del video che il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha diffuso tramite i social networks e ha intitolato «Un giorno che difficilmente dimenticheremo». Si vedrà come la vicenda possa essere utilmente interpretata alla luce del concetto di “muta da caccia” elaborato in Massa e potere, capolavoro della letteratura antropologica dovuto ad Elias Canetti[9]. Tale lettura consentirà di far emergere ulteriori elementi della passionalità primordiale legati all’esercizio della penalità e la loro pericolosità per l’ordine sociale democratico se non adeguatamente “addomesticati” dalla temperanza della legge[10].
1. La muta da caccia secondo Elias Canetti
«La muta» – afferma Canetti – «è la forma di eccitazione collettiva che si ritrova ovunque»[11]. Essa ha la sua origine primordiale dall’istinto della caccia; è la prima e più limitata forma di massa umana, là dove il singolo scioglie la sua paura di essere toccato dall’ignoto e da ciò che può rappresentare una minaccia. «La sua attività attraverso decine di millenni è stata così intensa da lasciare tracce ovunque, e perfino nella nostra epoca, profondamente diversa dalle precedenti, sopravvivono numerose forme che procedono direttamente da essa»[12]. Tra queste sopravvivenze, Canetti cita espressamente il linciaggio come forma di “sospensione della giustizia” in cui «l’imputato non conta più nulla. (…) La diversità del suo aspetto e del suo comportamento, l’abisso aperto dall’omicidio fra lui e la sua vittima, inducono a trattarlo come un animale[13]. Quanto più a lungo egli riesce a sottrarsi con la fuga ai suoi inseguitori, tanto più avidamente essi divengono una muta»[14].
La penalità ha molto a che fare con queste pratiche ancestrali che hanno lasciato tracce nel linguaggio dei media quando si occupano del crimine. È sufficiente anche una superficiale ricerca negli archivi online dei principali quotidiani per trovare decine di articoli e di relative titolazioni che utilizzano metafore venatorie parlando dei fatti criminali e delle operazioni di polizia che ne seguono. Termini come “caccia”, “fuga”, “cattura”, “tracce”, “depistaggio”, “preda” si presentano più volte nelle narrazioni giornalistiche a rievocare l’eccitazione della ricerca del criminale e il compiacimento per il suo arresto.
La muta per sua natura coinvolge direttamente un numero limitato di individui. I suoi componenti infatti devono nutrire tra loro una certa confidenza, Ìquei pochi si conoscono bene fra loro. Hanno sempre vissuto insieme, s’incontrano ogni giorno, in molte imprese collettive hanno imparato a valutarsi l’un l’altro nel modo più preciso»[15]. Si tratta di quello che viene definito nei percorsi di socializzazione professionale delle forze dell’ordine “spirito di corpo”[16]. I processi di civilizzazione e di burocratizzazione hanno ovviamente depositato massicci strati di cultura su questo fiume di lava sotterranea che, tuttavia, riemerge in alcune occasioni proprio come un’improvvisa e devastante eruzione vulcanica. Occorre sottolineare questa autovalutazione che i membri della muta svolgono reciprocamente nelle imprese collettive perché la muta, contrariamente ad altri gruppi sociali statici, è di per sé dinamica e protesa all’agire. «La muta è (…) una unità di azione, e si manifesta in modo concreto»[17]. Tale concretezza si mostra in primo luogo nella sua determinazione a raggiungere un obiettivo, nella impossibilità di ammettere anche il minimo dissenso del singolo componente rispetto a quell’obiettivo trascinante e pervasivo. «La prima cosa che spicca nella muta è l’immutabilità del suo orientamento. L’uguaglianza si manifesta nell’essere tutti ossessionati dalla medesima meta: per esempio, dall’aspetto di un animale che si vorrebbe uccidere»[18].
In questa ossessione della cattura perde la sua umanità non solo la preda, ma anche coloro che cacciano. La muta infatti si ispira ad un modello di agire animalesco: il branco di animali che cacciano insieme. «Gli uomini hanno imparato dai lupi. (…) Uso la parola “muta” – continua Canetti – per uomini anziché per animali, poiché designa nel modo migliore la collettività del movimento frettoloso e la meta concreta dinanzi agli occhi di tutti coloro che vi sono coinvolti. La muta vuole una preda: vuole il suo sangue e la sua morte. (…) La muta si incoraggia abbaiando tutta insieme. Non si deve sottovalutare il significato di questo clamore, in cui si mescolano le voci dei singoli animali»[19].
Il clamore non è finalizzato solamente al reciproco incoraggiarsi ed eccitarsi, ma sia ad attrarre altri cacciatori per farli unire alla caccia, sia eventualmente a richiamare l’attenzione di un pubblico che assista al rito della spartizione della preda una volta catturata. Sotto il primo profilo, è nella natura della muta accrescere il numero dei suoi componenti. «La muta è un gruppo di uomini eccitati, il cui desiderio più intenso è essere di più. Qualunque cosa essi intraprendano insieme, caccia o guerra, sarebbe meglio per loro essere di più»[20]. Non è detto necessariamente che la partecipazione alla muta fornisca un contributo diretto alla caccia; può essere sufficiente l’incitamento di un pubblico che sprona all’inseguimento e alla cattura della preda. E qui emerge il secondo profilo, la ricerca di un pubblico che assista alla cattura e all’uccisione della preda. Nell’istante in cui la fuga della preda è terminata, e dunque l’obiettivo della muta è stato raggiunto, essa si trasforma immediatamente. «La smania frenetica cessa nell’istante dell’uccisione. Tutti stanno improvvisamente silenziosi intorno alla vittima caduta. Tutti gli astanti formano il cerchio di coloro fra i quali andrà spartita la preda»[21]. La più antica legge, secondo Canetti, è quella della sua spartizione. Colui che presiede a tale spartizione è di regola il capo della muta; egli talvolta non soddisfa direttamente il proprio desiderio di appropriarsi della preda: la sua generosità verso gli altri componenti della muta è un segno del suo potere. Molto spesso alla spartizione partecipano anche coloro che hanno solo assistito alla caccia. «[L]’aver osservato rappresenta una complicità nell’azione: se ne è corresponsabili, e dunque se ne godono i frutti»[22]. Ciò rafforza l’unità che si instaura tra la muta e il resto del gruppo. Essa diventa il braccio armato che, dopo aver individuato e catturato la preda, la spartisce a beneficio di tutto il gruppo.
2. Caccia e cattura di Cesare Battisti: il video del ministro Bonafede
Istinti primordiali, dinamiche di potere che si instaurano tra esseri umani ed animali in contesti apparentemente a distanze siderali dall’homo sapiens tardo moderno. Forse non è proprio così. Possiamo rintracciare nel presente eredità che provengono dalla radice ancestrale dell’agire umano. Vengono alla mente le prime scene di quel capolavoro della cinematografia novecentesca di Stanley Kubrick: 2001 Odissea nello spazio. Sono immagini che ci interrogano sulla capacità del processo di civilizzazione di aver addomesticato del tutto gli istinti che guidavano l’azione dei primi ominidi che si affacciavano sul globo terracqueo. Il caso della cattura del terrorista italiano Cesare Battisti ripresenta alcuni tratti del paradigma della muta da caccia particolarmente inquietanti per chi abbia a cuore il destino del processo di civilizzazione compiutosi in particolare a partire dell’illuminismo penale moderno.
La vicenda contiene singolari elementi che consentono di iscriverla abbastanza agevolmente nel modello antropologico della muta da caccia nel quadro politico-culturale del populismo penale contemporaneo. Abbiamo visto che uno di tali elementi sia la fuga prolungata ed ostinata della preda[23]. Il primo arresto di Battisti risale addirittura al 1972 per una rapina[24]; è controverso se la sua politicizzazione sia avvenuta in carcere, ma in ogni caso la sua latitanza comincia a partire dall’evasione dall’Istituto penitenziario di Frosinone avvenuta il 4 ottobre 1981. La sua ostinazione a sfuggire alla cattura e a non accettare il ruolo di condannato, almeno fino al suo ultimo arresto, è confermata sia dalle ripetute dichiarazioni pubbliche in cui si è professato innocente dei reati attribuitigli e non pentito dell’attività “politica” svolta durante i cd. anni di piombo[25], sia dalle successive scarcerazioni/evasioni avvenute in Francia nel 1991 e nel 2004 e in Brasile nel 2018, venuto meno il suo status di rifugiato politico concessogli dal governo Lula. Inoltre, il profilo socio-politico-culturale di Battisti si presta molto bene a sollecitare quel risentimento verso le élites intellettuali che abbiamo visto essere uno degli elementi costitutivi del populismo in generale e di quello penale in particolare. Battisti infatti, nonostante la sua estrazione sociale sia, si sarebbe detto un tempo, proletaria, è diventato nel corso del tempo uno scrittore, un esponente di quella sinistra “salottiera” e radical chic, in Francia chiamata Gauche caviar o Bo-bo (Bourgeois-bohème), che il populismo, non solo nostrano, vede come bersaglio preferito su cui attirare il risentimento popolare delle classi sociali più colpite dai processi di globalizzazione. Questo tra l’altro dimostra come sia solo parzialmente vero ciò che Didier Fassin sostiene a proposito dell’esistenza di una forte disparità sociale a svantaggio dei gruppi sociali marginali nella distribuzione del desiderio di vendetta suscitata dalle azioni criminali. Se questo è indubbio dal punto di vista della penalità materialmente esercitata, lo è molto meno sotto il profilo simbolico delle politiche criminali: politici corrotti, terroristi irriducibili, finanzieri spregiudicati possono senza troppe difficoltà essere utilizzati come target della rabbia popolare[26].
La preda dunque appare particolarmente ostinata nello sfuggire alla cattura e la sua astuzia si è manifestata anche nel saper sfruttare protezioni e tradimenti registratisi nella schiera dei cacciatori o per lo meno tra coloro che avrebbero dovuto essere suoi sostenitori. Quella ossessione della preda, quella unità e determinatezza che si manifesta nell’essere tutti orientati alla sua cattura è stata intaccata da qualche traditore. In particolare, questi traditori si annidano in Paesi che sono diventati nemici da additare all’emozione pubblica come la Francia o il Brasile di Lula. Uno dei capi della muta, infatti, commenta: «è un giorno di festa. Vedere un assassino che beveva champagne a Parigi o prendeva il sole sulla spiaggia brasiliana era immorale (…). Se io fossi uno di quegli pseudo-intellettuali che negli anni passati ha firmato appelli a favore di questo assassino oggi starei zitto»[27].
Ma infine la preda è stata raggiunta, grazie anche ad amici che si sono aggiunti alla muta e hanno defenestrato i traditori[28], e ora «all’istante decisivo, ciascuno ha la possibilità di uccidere e ciascuno tenta di farlo. Le frecce o le lance di tutti possono concentrarsi su una creatura. Esse non sono che il proseguimento degli sguardi bramosi durante la caccia»[29]. Che l’uccisione non sia fisica è particolare non certo irrilevante, ma meno importante in una società che non ha più il coraggio della coerenza dell’azione coi propri pensieri. Del resto, che l’annientamento della preda debba essere il suo destino è chiarissimo dalle parole dello stesso capo muta: «Ergastolo, dibattito surreale, a me interessa che stia in galera fino all’ultimo dei suoi giorni di vita, poi gli auguro che il buon Dio gliene dia tanti, dieci, venti, trenta, quaranta … l’importante è che non esca da uomo libero da una galera italiana»[30]. L’ergastolo, dunque, come equivalente funzionale dell’uccisione della preda.
Il momento topico della spartizione della preda, la ripartizione del bottino, tuttavia, non può avvenire se non attraverso un rituale, una cerimonia. «Ciascuno vuole qualcosa per sé, e quanto più è possibile. Se la ripartizione non fosse regolata con precisione, secondo una legge tradizionale, e non vi presiedessero uomini esperti, essa potrebbe finire in contese mortali e in uccisioni»[31]. Si sviluppa in tal modo un processo che è esattamente opposto a quello della formazione della muta che si era costituita attraverso un progressivo accrescimento: la muta si scioglie nelle sue varie componenti che erano parse una cosa sola nel corso della caccia. Due elementi specifici del caso Battisti rendono più evidente tale scioglimento: la tradizionale conflittualità dei vari corpi di polizia in Italia[32] e la presenza nella muta di due leader che fanno parte, come ministri, dello stesso Governo, ma che hanno prospettive politiche assai diverse e sono quindi in perenne competizione nell’ampliare la propria visibilità mediatica, spesso l’uno a discapito dell’altro[33]. Ciò rievoca un altro elemento che Foucault aveva considerato tipico dei supplizi: «Il supplizio non ristabiliva la giustizia riattivava il potere. (…) un cerimoniale accurato, in breve tutto il suo apparato, si inscriveva nel funzionamento politico della penalità»[34]. Questo scomporsi della muta e il sotteso conflitto di potere lo apprezzeremo proprio durante il rito della spartizione che, come tutte le cerimonie nella società dell’immagine, non poteva non avere una appendice visuale da affidare alla rete dei social network. Ecco così che, nell’età della disintermediazione, uno dei capi della muta decide di autoprodurre un filmato del rituale di spartizione della preda che, proprio in ragione del dilettantismo con cui è stato confezionato[35], si trasforma in uno straordinario documento visivo sull’immaginario del populismo penale italiano.
Il video va analizzato in modo dettagliato per poterne apprezzare il suo significato recondito[36]. Comincia con alcune immagini del volto in primo piano di Battisti con il sottofondo sonoro del tipico click dell’otturatore della macchina fotografica. I cinque scatti non sono posti in sequenza casuale, ma si susseguono per indicare che la preda, dapprima certa di sfuggire alla muta, perde progressivamente la sua sicurezza e comincia a sentirsi braccata e preoccupata della cattura. In particolare, la seconda immagine mostra Battisti con un bicchiere di vino in mano mentre augura buona salute, con aria strafottente, a coloro che stanno dietro l’obiettivo, come a farsi beffe della muta che lo insegue. Nell’ultima, invece, il suo sguardo è triste, ferito e rassegnato, simile a quei cani che vengono bastonati dal loro padrone[37].
A questo punto prende avvio la colonna sonora e la prima sequenza mostra immediatamente quella che è la protagonista dell’intera narrazione: la muta da caccia. Qui è rappresentata nella fiduciosa attesa dell’arrivo della preda, ma è va sottolineato come essa venga colta da subito nella sua composizione non più unitaria come nella fase della caccia. Il movimento della cinepresa che si sposta da destra verso sinistra coglie, infatti, dapprima un gruppo di agenti di Polizia penitenziaria con i caratteristici baschi azzurri e, subito dopo, l’altra parte della muta costituita dal gruppo di agenti della Polizia di Stato con la scritta POLIZIA sul dorso della divisa. Già da questa primissima inquadratura si nota peraltro che sarà la prima ad avere un ruolo preponderante nella narrazione: gli agenti della Polizia penitenziaria non solo vengono inquadrati per primi, ma mostrano anche un atteggiamento marziale ostentando il possesso di armi automatiche in primo piano[38], a simboleggiare la loro posizione preminente nella cattura della preda. Anche qui sovviene il cerimoniale dei supplizi delle società d’ancien régime: «la giustizia del re si mostra come una giustizia armata. La spada che punisce il colpevole è anche quella che distrugge i nemici»[39]. Non siamo nell’ambito del temperato esercizio della giustizia, ma piuttosto in quello della «ostentazione della forza fisica, materiale e temibile del sovrano»[40].
La muta dopo la cattura comincia a dissolversi e le sue componenti che erano amalgamate nella determinatezza della caccia emergono nelle loro identità. Anche l’assoluta eguaglianza dei cacciatori lascia spazio alle gerarchie nella ripartizione della preda. Ecco allora l’inquadratura per uno dei capi della muta, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, che scende dall’auto ministeriale e viene immediatamente ossequiato da alcuni funzionari che gli aprono lo sportello in segno di deferenza e da un agente che, al suo cospetto, porge il saluto militare[41].
Nella scena successiva entra in scena un altro degli attori fondamentali della narrazione: il gruppo di coloro che hanno assistito alla caccia senza parteciparvi, ma che hanno sostenuto la muta nella sua ossessione vendicativa. Questo ruolo è impersonato nel video dalla schiera di fotoreporter e giornalisti in attesa dell’arrivo della preda all’aeroporto di Ciampino. Il video li passa in rassegna con una breve carrellata, muniti delle loro armi per scrutare e immortalare ciò che avviene: macchine fotografiche con vistosi teleobiettivi montati su treppiedi, telecamere portate a spalla come potenti lanciarazzi. Il rito a cui assisteremo perderebbe ogni senso se non esistesse questa componente. Il video, in tal modo, diventa meta-racconto, in quanto ingloba in esso anche le infinite narrazioni che di quell’evento verranno prodotte dai media presenti.
In un istantaneo fotogramma, prima di inquadrare l’atterraggio dell’areo che porta la preda, viene mostrato in primo piano, sull’avambraccio della divisa di un agente di polizia penitenziaria, lo stemma dei GOM (Gruppo Operativo Mobile). Si tratta di un reparto speciale della Polizia penitenziaria addetto alla custodia dei detenuti ad alto tasso di pericolosità, in particolare quelli reclusi con il regime detentivo di cui all’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, e all’intervento di ripristino dell’ordine e della sicurezza in occasione di rivolte carcerarie. È evidente qui l’intenzione di ribadire l’identità e la supremazia della componente principale della muta attraverso l’esposizione di un emblema che raffigura, all’interno di due riquadri, un tondo cerchiato col tricolore della bandiera italiana in cui si mostra un’aquila ad ali spiegate, mentre si accinge ad artigliare un bersaglio posto sulla cartina geografica dello Stivale. Stemma che, tra l’altro, si differenzia da quello tradizionale della Polizia penitenziaria[42] per il suo carattere particolarmente bellicoso che rievoca proprio la metafora della caccia attraverso l’inesorabile volo dell’aquila che piomba dall’alto a ghermire la preda.
Ma ecco finalmente, sotto un cielo cupo di nuvole basse, comparire il velivolo che custodisce al proprio interno la preda. Appena si arresta sulla pista di atterraggio, vediamo le sagome scure di un gruppo di uomini avvicinarsi all’aereo; sono una quindicina, la misura tipica della muta da caccia[43]. Anche in questa sequenza che la riprende a distanza, si distinguono chiaramente le sue due componenti: gli agenti della Polizia di Stato con le consuete pettorine con la scritta e gli agenti della Polizia penitenziaria coi baschi azzurri. Compare qui per la prima volta la preda Battisti, ma senza particolare enfasi, mentre scende dalla scaletta dell’aereo e si avvia sulla pista verso gli uffici dell’aeroporto di Ciampino. È circondato dal gruppo di agenti che lo seguono, lo affiancano e lo precedono mentre cammina come ad impedire ogni residua via di fuga. Si accompagnano alla muta degli agenti alcuni cineoperatori e fotografi intenti a riprendere la preda catturata.
Nella scena successiva vengono inquadrati per la prima volta insieme i capi della muta che, con la stessa ansia con cui il cacciatore aspetta i cani da riporto[44], attendono che venga loro consegnata la preda: vediamo schierati in primo piano a partire da sinistra il ministro dell’interno Matteo Salvini che sfoggia una delle sue ormai consuete divise da poliziotto, al centro il ministro Bonafede “in borghese” e a destra un altro uomo in divisa. Alle loro spalle altri uomini in divisa che sembrano comporre una muta indifferenziata che sta alle spalle dei capi per ribadirne la forza. È da sottolineare come nessuno dei capi muta entri in contatto diretto con la preda. Emerge qui un aspetto che si è già rilevato della legge della spartizione: il componente che si pone alla direzione della muta può scegliere di esercitare il suo potere anche rinunciando alla sua parte di preda a beneficio degli altri membri[45].
Che la muta abbia comunque perso quel senso di assoluta uguaglianza tra i suoi membri che si produce nel corso della caccia, lo si evince chiaramente nella scena successiva nella quale ascoltiamo le uniche frasi presenti nel video che sono appunto del capo muta: l’unico soggetto che ha diritto di parola e che può quindi descrivere verbalmente il significato da attribuire al rito che si sta celebrando. Ecco allora il Guardasigilli dichiarare, rivolto ai giornalisti davanti ad un piccolo tavolinetto ingombro di microfoni: «Battisti varcherà la soglia del carcere, a quel punto sconterà finalmente la pena, che è la pena dell’ergastolo per tutti i reati che ha commesso». Risuona anche qui il termine ergastolo come sinonimo di uccisione della preda e la prospettiva della telecamera è laterale in modo che compaiano nell’inquadratura, ma in una posizione chiaramente defilata, sia l’altro capo muta, il ministro Salvini[46], sia la schiera di giornalisti che fanno da uditorio alle parole di Bonafede.
Nella inquadratura successiva, in una soggettiva sull’auto degli agenti che si trova nel corteo che scorta la preda verso il luogo dove avverrà la sua spartizione vera e propria, troviamo la rievocazione attenuata della muta intenta alla battuta di caccia. Vengono ripresi, adottando la loro prospettiva, due agenti: l’uno alla guida dell’auto e l’altro al suo fianco che impugna un walkie-talkie con cui presumibilmente comunica con gli altri componenti della muta. Si nota anche, riflesso nello specchietto retrovisore, lo sguardo attento dell’agente alla guida che sembra essere pronto a reagire a qualche estremo tentativo di fuga della preda. Viene riproposta, in tal modo, la tensione e l’ossessione della cattura che hanno caratterizzato la fase della caccia; tensione che si ripresenta ogni qualvolta la preda catturata deve essere spostata da un luogo all’altro e quindi potrebbe approfittare di ciò per ritentare la fuga[47].
Stiamo arrivando al climax del video e nella scena successiva finalmente la preda diventa protagonista. Inquadrato di mezza figura, Battisti viene ripreso, circondato da quattro agenti della Polizia di Stato, mentre un agente in camice e guanti bianchi gli afferra la mano destra e gliela pone sulla superficie di uno scanner per il rilevamento delle impronte digitali. È da notare come la preda venga rappresentata come del tutto soggiogata dal potere della muta: il semplice gesto di appoggiare le dita di una mano su di uno scanner non viene svolto autonomamente, ma viene forzato attraverso la presa dell’agente. In tutto il filmato, infatti, non si nota alcuno scambio verbale tra la muta e la preda catturata; quest’ultima viene rappresentata come un essere in completa balìa della muta e tutto ciò accentua evidentemente l’aspetto ferino della narrazione. In questa scena, tra l’altro, nel suo movimento la camera riprende di sfuggita anche un poliziotto che cerca di coprirsi il volto per non essere riconosciuto, essendo probabilmente in una condizione di agente sotto copertura. Episodio che riconferma il carattere “amatoriale” del filmato, ma che ha dato vita ad una reazione della principale forza politica di opposizione che mostra la pervasività del populismo penale contemporaneo. Infatti, uno dei principali atti di protesta istituzionale posti in essere dal Partito democratico in merito al video[48] è stata una interrogazione parlamentare, presentata dall’on.le Anna Rossomando ed altri deputati nella seduta del 18 gennaio 2019, nella quale si chiede ]se il Ministro [della giustizia] abbia valutato l’opportunità di diffondere tale video, alla luce delle evidenti ragioni di sicurezza e protezione che dovrebbero essere garantite ai poliziotti penitenziari impiegati in un servizio così delicato; se tra gli uomini ripresi vi fossero anche appartenenti al GOM (Gruppo Operativo Mobile), reparto della Polizia penitenziaria, che svolge il delicato compito della custodia di pericolosi detenuti mafiosi e terroristi; se la pubblicazione del video non abbia esposto poliziotti penitenziari e agenti della Polizia di Stato a rischi per la loro sicurezza e incolumità e cosa intenda fare il Ministro per tutelarli, dopo la rivelazione e diffusione ad un larghissimo pubblico della loro identità». Dunque, per il maggior partito di opposizione, la questione principale sollevata dal video sembra essere quella di preservare l’anonimato degli agenti di polizia e la loro sicurezza. Tutti gli altri aspetti inquietanti del populismo penale che emergono dal video vengono ignorati, con ogni probabilità, per timore di opporsi a quel sentire comune dell’emozione pubblica percepito come un’onda che si può solamente cavalcare, ma a cui non ci si può opporre in alcun modo.
Arriviamo così alla scena clou dell’intero filmato preceduta da una soggettiva nella quale tre agenti camminano nei corridoi degli uffici per arrivare al luogo dove avrà luogo la spartizione della preda. Vengono inquadrati di passaggio computer, monitor, stampanti in una citazione della cinematografia statunitense che mostra spesso gli uffici della polizia come luoghi efficienti e frenetici nella caccia ai criminali; citazione che si trasforma ben presto in parodia quando la camera non può evitare di inquadrare la trasandatezza e la sciatteria di un corridoio con l’intonaco sbrecciato in più punti[49].
Gli agenti infine giungono nella stanza dove Battisti sta attendendo con il solito sguardo smarrito. Assistiamo al momento topico dell’intera narrazione perché la preda è qui letteralmente “spartita” attraverso la presa di possesso del suo corpo che passa da un gruppo all’altro della muta. I due agenti della Polizia di Stato che stringono per le braccia Battisti abbandonano la preda per consegnarla a due agenti di Polizia penitenziaria con guanti di lattice[50] e basco azzurri. La preda li guarda stranito e sembra chiedere con lo sguardo se debba svestirsi del giubbotto che indossa, ma non viene degnato nemmeno di un’occhiata. Ogni interlocuzione verbale con la preda è interdetta. Uno dei due agenti a questo punto guarda in camera come per ottenere il consenso da parte di chi sta girando il video se il rituale preveda ora la traduzione della preda verso il luogo della sua “ultima destinazione”. Si tratta, tra l’altro, dell’unica inquadratura in cui il filmato sembra mostrare l’esistenza di una regia che abbia predisposto una sceneggiatura. Battisti viene condotto al di fuori della stanza e la prospettiva cambia perché non si tratta più di una soggettiva, ma la camera attende i protagonisti che gli si avvicinano. La formazione del drappello rispecchia perfettamente la muta che ha catturato la preda: quest’ultima è posta al centro di un’ideale rombo rispetto al quale sono occupati i quattro punti cardinali che rappresentano le possibili vie di fuga. Il drappello, infatti, è guidato da un agente di Polizia penitenziaria in divisa scura, segue Battisti tenuto strettamente per le braccia dai due agenti che l’hanno preso in consegna nella scena precedente e, per ultimo, giunge un altro agente di Polizia penitenziaria di statura imponente a chiudere la tragicomica processione.
Nel suo incedere il gruppo si avvicina alla cinepresa e, per un breve istante, il volto di Battisti viene ripreso per la prima volta in primo piano, mentre il suo sguardo inespressivo sembra rivolgersi verso la camera. Il gruppo esce, infine, dagli uffici sempre accompagnato da mute laterali che guardano passare la preda e viene accolto all’esterno da un altro stuolo di fotoreporter con gli obiettivi delle macchine fotografiche spianati, come se anch’essi, con l’esibizione delle loro armi, volessero partecipare alla spartizione della preda.
Dopo un’altra soggettiva all’interno di una delle auto del corteo che riaccompagna la preda all’aeroporto molto simile a quella precedente, ecco che Battisti viene finalmente accompagnato e spinto ad entrare nel piccolo velivolo che dovrà condurlo alla sua meta definitiva. All’interno dell’abitacolo la camera si concentra sulla figura di un agente che, seduto di fronte alla preda, presumibilmente deve sorvegliare che essa non tenti qualche gesto disperato. Qui il componente della muta mostra tutto il suo imbarazzo nell’esercitare una mansione così indiscreta in favore di telecamera[51]. Il malcapitato giovane agente, scruta per un attimo la preda per sondarne la pericolosità con ogni probabilità senza trovarne alcun riscontro considerato il grado di prostrazione in cui essa si trova; poi lancia uno sguardo imbarazzato alla camera, controlla l’allacciatura delle sue cinture di sicurezza, si volta verso l’oblò accanto al suo sedile come farebbe un qualunque passeggero in attesa del decollo; ad un certo punto sembra quasi volersi alzare e liberarsi delle cinture per porre fine all’imbarazzante situazione. Nell’atteggiamento di questo giovane agente sembra manifestarsi tutto il turbamento di quei componenti della muta che debbono prestarsi ad un rituale di cui intuiscono i connotati grotteschi.
E siamo giunti in tal modo alla scena conclusiva, in cui la colonna sonora si tace per lasciare posto al fruscio delle eliche dell’aereo che viene inquadrato in movimento sulla pista mentre si accinge all’accelerazione che precede il decollo. Questa scena finale richiama, in modo ovviamente involontario, il modello dei filmini amatoriali da matrimonio con gli sposi che dopo la cerimonia si allontanano verso il tradizionale viaggio di nozze su di un automobile; alcuni commentatori hanno sottolineato questa analogia ironizzando sull’assenza dei tradizionali barattoli che in queste occasioni si agganciano all’auto degli sposi. Tale modello è suggerito soprattutto dal commento musicale che è quello tipico di filmini amatoriali che suggeriscono, con un tema semplice e ripetitivo che prevede tuttavia un “crescendo” con l’attacco della chitarra elettrica per raggiungere il climax del motivo musicale, l’idea di celebrare un evento che giunge da una lunga storia (il fidanzamento) e si proietta verso un futuro altrettanto duraturo e radioso (il matrimonio indissolubile). Qui in realtà tale narrazione musicale non si addice alla trama e alla scena finale del video[52], in quanto l’immagine del velivolo che abbandona la pista non esprime l’idea della proiezione verso un’esistenza futura, ma vorrebbe invece rievocare all’opposto il totale annientamento della preda, la sua definitiva espulsione dal consesso sociale che, nell’immaginario collettivo della cultura popolare, ha il suo corrispettivo giuridico nella pena dell’ergastolo. La preda è dunque spartita, divorata e definitivamente eliminata allo stesso modo in cui i resti del corpo del suppliziato venivano bruciati e le ceneri disperse al vento nell’età dei supplizi. La scena «deve manifestare il potere smisurato del sovrano su quegli che egli ha ridotto all’impotenza»[53]. Che tutto questo avvenga sul piano simbolico della comunicazione pubblica e non più nella penalità praticata non è certo un elemento da trascurare. Pur tuttavia che il populismo penale si nutra della riemersione di istinti primordiali che il processo di civilizzazione moderna ha cercato in tutti i modi di sopire e di governare è altrettanto evidente ed estremamente inquietante. Dunque non si può che concordare col ministro Bonafede sul significato da dare alla cattura di Cesare Battisti: «un giorno che difficilmente dimenticheremo».
[1] Concetto sviluppato da Paul Virilio come conseguenza della sovraesposizione mediatica e dell’avvento dei nuovi media digitali in uno dei suoi ultimi lavori: L’arte dell’accecamento, R. Cortina, Milano, 2007.
[2] J. Pratt, Penal populism, London-New York, Routledge, 2007, p. 12.
[3] Si veda la ricostruzione che Massimo Pavarini ha fatto della domanda di penalità nell’Italia repubblicana sino alle soglie di Tangentopoli caratterizzata dalla percezione diffusa dai saperi esperti che il vocabolario punitivo dovesse svilupparsi nell’ambito delle questioni politiche e sociali più che secondo le categorie morali della colpa e della pena (cfr. Id., La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell’Italia del XX secolo, in L. Violante, a cura di, La criminalità, Storia d’Italia, Annali, vol. 12, Einaudi, Torino, in particolare pp. 1026 ss.).
[4] Si tratta del libro Punir une passion contemporaine, Paris, Éd. du Seuil, 2017, recentemente tradotto in italiano da Lorenzo Alunni per l’editore Feltrinelli.
[5] Ivi, p. 155.
[6] M. C. Nussbaum, Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, Il Mulino, Bologna, 2017, p. 17.
[7] Ivi, p. 15.
[8] Come noto, Foucault sottolinea come all’inizio del XIX secolo, nel breve giro di qualche decennio, scompaia il grande spettacolo della punizione fisica tipica dell’età dei supplizi e si instauri quella “vergogna a punire” tipica di una società che delega al carcere, istituzione totale opaca e separata dalla comunità dei cittadini liberi, l’esercizio della penalità (cfr. Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976, pp. 17 ss.).
[9] Concetto che, a mio parere, si presta molto bene alla descrizione di altre fasi di cui si compone l’esercizio della penalità. Ad esempio, i casi di tortura o di rivolte all’interno delle carceri rispetto ai quali sto lavorando al caso giudiziario di due detenuti torturati nell’Istituto penitenziario di Asti. Cfr. C. Sarzotti, La carogna da dentro a me. Piéce teatrale liberamente tratta da una sentenza penale, con post-fazione di M. Palma, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2012.
[10] Relativamente al profilo giuridico e alle numerose violazioni normative poste in essere attraverso la diffusione del video sul caso Battisti si può leggere M. Miceli, Le tutele da parte dell’ordinamento penale nelle traduzioni da un luogo ad un altro. Il caso di Cesare Battisti, «Cammino diritto. Rivista giuridica online»”, n. 1/2019, nonché l’esposto presentato dalle Camere Penali di Roma.
[11] E. Canetti, Massa e potere, tr. it. di F. Jesi, Rizzoli, Milano, 1972, p. 99.
[12] Ivi, p. 101.
[13] Canetti scrive a partire dagli anni Trenta la sua opera comparsa solo nel 1960 nella sua prima edizione, in un periodo storico in cui la cultura animalista non era ancora molto diffusa. Oggi si potrebbe affermare che il trattamento che la muta riserva alla preda non sarebbe tollerato dalla maggior parte dell’opinione pubblica neanche nei confronti degli esseri viventi non umani.
[14] Ivi, p. 126. L’altra forma di sopravvivenza della muta ricordata da Canetti è quella relativa a piccoli gruppi di individui che, in situazioni arcaiche, si impegnano in imprese come attraversate oceaniche su piccole imbarcazioni, spedizioni in terre sconosciute, «il sogno di vivere con pochi altri in una natura paradisiaca». Qui Canetti sembra preconizzare quei reality televisivi ambientati in contesti esotici come L’isola dei famosi …
[15] Ivi, p. 100.
[16] Una penetrante descrizione cinematografica dei processi attraverso i quali si crea questo spirito di corpo e delle pratiche di stigmatizzazione a cui sono sottoposti coloro che ad esso non si adeguano si trova nel film di Stefano Sollima ACAB. All Cops Are Bastards (2012) tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini.
[17] Ivi, p. 101.
[18] Ivi, p. 100.
[19] Ivi, p. 103.
[20] Ivi, p. 99. Tra i quattro modelli di muta indicati da Canetti ve n’è una chiamata espressamente di accrescimento.
[21] Ivi, p. 105.
[22] Ibidem.
[23] Le notizie biografiche sulla vicenda sono contenute nei lavori dell’ex magistrato Giuliano Turone: cfr. Cesare Battisti: storia di un’inchiesta, Garzanti, Milano, 2019; Il caso Battisti: un terrorista omicida o un perseguitato politico?, Garzanti, Milano, 2011.
[24] Battisti ha sempre sostenuto che anche i suoi primi reati rappresentassero degli “espropri proletari”, motivati dal suo impegno politico, e non fossero quindi delle semplici rapine.
[25] È interessante leggere, in questa prospettiva, la lettera che Battisti inviò al Tribunale Supremo Federale del Brasile nel 2009 pubblicata dal settimanale Panorama (cfr. www.vuotoaperdere.org/articoli/Articolo.asp?ArtID=130). Affermazioni, tra l’altro, totalmente smentite dall’ampia confessione che Battisti avrebbe reso al procuratore Alberto Nobili nel carcere di Oristano il 24 marzo scorso.
[26] L’Italia è stata uno dei primi Paesi a sperimentare tali dinamiche nei confronti delle élites che per certi aspetti richiamano quelle del cd. panico morale con le vicende di Tangentopoli all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso.
[27] Dichiarazioni del ministro dell’interno Matteo Salvini del 13 gennaio 2019 visibili in www.youtube.com/watch?v=KCTQUQaRtxE (trascrizione mia). In un’altra intervista Salvini ha dichiarato: «37 anni di attesa per vedere questo balordo che mi sembrava fosse sogghignante con tutti i morti che ha sulle spalle. (…) Ce ne sono tanti, troppi, di terroristi ancora liberi anche in Francia. Nella vicina Francia che ci dà lezioni di morale, di accoglienza, di solidarietà, di generosità. Penso sia giusto ora scrivere al Presidente francese perché i terroristi che hanno ammazzato in Italia smettano di andar liberi a bersi champagne in giro per la Francia» (cfr. www.ilmessaggero.it/video/cronaca/battisti_salvini_ciampino_arrivo-4230115.html).
[28] Come noto, l’estradizione di Battisti è stata resa possibile dalla svolta politica registratasi in Brasile con l’avvento del Governo di estrema destra guidato da Jair Bolsonaro che non a caso è stato ringraziato dal Governo italiano in più di un’occasione. Cfr. infra nota 46.
[29] E. Canetti, op. cit., p. 104.
[30] Dichiarazioni del ministro dell’interno Matteo Salvini del 13 gennaio 2019 (cfr. www.youtube.com/watch?v=KCTQUQaRtxE, trascrizione mia). In un’altra dichiarazione nello stesso giorno dell’arrivo di Battisti in Italia si utilizza l’espressione, ormai diventata proverbiale, «marcirà in galera»: «Vedevo in queste ore che c’è ancora qualche cretino che su Facebook scrive, beh però ha ammazzato per motivi politici, poverino è passato tanto tempo, però il carcere è disumano, l’ergastolo non è rispettoso dei diritti umani. Come se questo qua quando ammazzava avesse pensato ai diritti umani dei morti e dei parenti dei morti. Quindi marcirà in galera. Qualche giornale oggi scriveva, ma un ministro non può dire marcirà in galera, sì marcirà in galera, anzi lo farà troppo tardi» (cfr. www.ilmessaggero.it/video/cronaca/battisti_salvini_ciampino_arrivo-4230115.html).
[31] E. Canetti, op. cit., p. 105.
[32] Come noto, l’Italia è forse l’unico Paese al mondo in cui operano cinque corpi di polizia con specifici culture professionali, modelli organizzativi e mission istituzionali. Tutto ciò non può che produrre non solo difficoltà di coordinamento, ma anche conflitti relativi all’acquisizione di risorse e di visibilità pubblica. Cfr., tra gli altri, F. Battistelli, Produttori di sicurezza. I Corpi di polizia in Italia tra competizione e cooperazione, Quaderni di Sociologia, n. 46, 2008, pp. 169-192.
[33] È interessante notare come, nel caso specifico, Matteo Salvini della Lega e Alfonso Bonafede del Movimento Cinque Stelle abbiano mostrato piena identità di vedute rispetto al contenuto del messaggio da inviare al proprio elettorato attraverso il caso Battisti. Il conflitto, infatti, è insorto esclusivamente su chi dovesse avere una posizione di prima fila nel rito di spartizione della preda: la Polizia penitenziaria operante alle dipendenze del Ministero della giustizia o la Polizia di Stato in attività presso il Ministero dell’interno?
[34] M. Foucault, op. cit., p. 54.
[35] Il giornalista Sebastiano Messina del quotidiano La Repubblica ha ironizzato sul video definendolo «un inquietante filmino matrimoniale» con la parte della sposa toccata all’ex terrorista, quella dello sposo a Salvini e con il Guardasigilli che si è riservato il ruolo del celebrante. Vedremo infra come il modello narrativo in effetti ricordi in qualche misura questo tipo di produzioni amatoriali, ma il suo contenuto è molto più complesso ed interessante rispetto al tema che sto affrontando.
[36] Il filmato è reperibile in www.youtube.com/watch?v=HSMH-6WooA0 (visitato il 18/03/2019).
[37] Triste pratica molto in uso e perfettamente tollerata sino a qualche decennio fa dalla cultura contadina e da cui traggo questa similitudine. Nel dialetto piemontese esiste un’espressione che indica con precisione questa condizione: un can patlà (un cane bastonato).
[38] L’esibizione delle armi che hanno consentito la cattura della preda è un altro segno di distinzione che consente di differenziare i singoli membri della muta una volta avvenuta tale cattura.
[39] M. Foucault, op. cit., p. 54.
[40] Ivi, p. 55.
[41] Pratica non superata anche dopo la smilitarizzazione del corpo di polizia dello Stato e regolata dall’articolo 16 del dPR n. 782 del 25 ottobre 1985.
[42] Lo stemma del Corpo richiama, invece, l’articolo 27 della Costituzione attraverso la speranza del recupero nella società della persona in espiazione della pena rappresentata attraverso tre fiamme azzurre, simbolo appunto di speranza e con il motto Despondere spem munus nostrum, iscritto nella lista d’oro alla base dell’emblema.
[43] Canetti parla di «gruppi di dieci o venti uomini» (Id., op. cit., p. 99).
[44] Come noto agli appassionati dell’attività venatoria, i cani da caccia si distinguono in cani da cerca, cani da ferma, cani da tana e cani da riporto. Questi ultimi si caratterizzano percacciare a vista e per riportare la preda al loro padrone, trionfanti per il servizio reso loro. Di solito si tende a chiamare la loro bocca “soffice” in quanto non rovina la preda. Il loro addestramento è particolarmente complesso perché bisogna vincere l’istinto dell’animale di cibarsi immediatamente della preda uccisa per soddisfare il senso di fame.
[45] In questo senso vanno colte anche le dichiarazioni del ministro Bonafede: «Non ho fatto alcun video spot, era semplicemente un video per onorare il lavoro che stava facendo in quel momento la Polizia penitenziaria e che abbiamo postato sul sito della Polizia penitenziaria. (…) Era semplicemente un riconoscimento del lavoro che aveva fatto la Polizia penitenziaria» Cfr. https://video.repubblica.it/politica/video-spot-arresto-battisti-bonafede-critiche-social-era-solo-un-tributo-a-polizia-penitenziaria/324621/325239.
[46] È significativo, a mio parere, che Salvini non abbia rilasciato alcun commento al video evidentemente per non fornirgli altro spazio mediatico. Tra l’altro, da un altro video che si trova sul sito del quotidiano Il Giornale, risulta che nell’occasione le parole di Bonafede non siano state le uniche pronunciate durante la cerimonia. Salvini, infatti, ha tenuto a ringraziare brevemente il Governo brasiliano, il presidente Bolsonaro e le autorità boliviane, cfr. www.ilgiornale.it/video/politica/battisti-salvini-ringrazio-bolsonaro-1628619.html.
[47] La stessa scena, infatti, verrà riproposta qualche secondo più avanti, in modo pressoché identico, quando Battisti viene portato in auto all’aeroporto dove dovrà imbarcarsi per la sua destinazione definitiva.
[48] Un’altra interrogazione parlamentare presentata dall’On.le Alfredo Bazoli il 22 gennaio 2019 ha un contenuto diverso e fa riferimento anche alla «lesione di ogni minimo principio di tutela della dignità della persona, che deve riguardare chiunque, anche i condannati per reati efferati, che non possono essere sottoposti ad una gogna pubblica come accadeva nel passato».
[49] Da notare che anche in questo frangente, come in altri precedenti, emerge nei componenti della muta appartenenti alla Polizia penitenziaria una certa distanza tra, da un lato, gli aitanti e giovani agenti in tuta mimetica e basco azzurro e, dall’altro, gli anziani signori, un po’ panciuti, con la divisa classica da ispettore. I primi fanno parte dei GOM e si identificano perfettamente con il profilo aggressivo della muta da caccia; i secondi, invece, rappresentano il tipico agente che opera nelle sezioni detentive, abituato a convivere ogni giorno con la preda ormai addomesticata e che quindi può assumere atteggiamenti molto più bonari.
[50] È da notare che anche gli agenti della Polizia di Stato indossano guanti non di lattice, ma di pelle. I guanti, tra l’altro, rappresentano un segno inequivocabile di come la muta non debba essere contaminata dal contatto fisico con la preda.
[51] È noto alla letteratura di sociologia della vita penitenziaria come l’attività di sorvegliare di per sé sia un agire considerato poco gratificante e stigmatizzante per chi lo esercita. In questo caso, la situazione è resa ancor più imbarazzante dal fatto di essere esposta all’attenzione del pubblico attraverso una ripresa cinematografica.
[52] È significativo che il ministro Bonafede, chiamato a dare un giudizio sul video, abbia esercitato una critica quasi esclusivamente sulla colonna sonora, quasi come avesse intuito la sua inadeguatezza per il messaggio che si voleva trasmettere.
[53] M. Foucault, op. cit., p. 55.