Per un concetto politico di popolo
Ho trovato l’Introduzione di Enrico Scoditti al tema Populismo e diritto (in questo fascicolo) molto pertinente rispetto alla congiuntura politica che sta vivendo il Paese. È opportuno che pensatori del diritto e pensatori della politica uniscano le loro voci per sbrogliare una matassa che si è notevolmente aggrovigliata riguardo al rapporto tra istituzioni e società. Veniamo da decenni di confuso andamento oggettivo del passaggio tra fantomatiche Repubbliche non pensate giuridicamente e politicamente. La reazione antinovecentesca non si è dimostrata all’altezza dei grandi temi che la scienza giuridica e la teoria politica avevano sollevato dentro la tragica storia di quel secolo. Non si trattava di ripeterli, quei temi, però, sì, di riprenderli, aggiornarli, adattarli e riformularli. Si è creduto si fosse passati ad un’altra forma di Stato e di società, mentre quelle stesse forme avevano solo mutato aspetto e non sostanza. Sono convinto che, accanto agli importanti dati strutturali sicuramente intervenuti, una delle cause dell’attuale degrado della vita pubblica, e conseguentemente del dibattito pubblico, sia da ricercarsi in una caduta di culture, che non hanno più posseduto, e quindi controllato, il corso dei processi reali, non tanto perché, questi, fossero profondamente mutati quanto perché si erano tremendamente accelerati. Adesso è giunta l’ora che la nottola di Minerva del pensiero arrivi, in tarda sera, a pronunciare il suo Gericht. Non basterà certo per cambiare l’andamento delle cose. Ci vuole, accanto, indispensabile, un’iniziativa pratica di raccolta delle forze in grado di imporre la svolta.
Scrive Scoditti, quasi a premessa del suo discorso: «È di tutta evidenza il nesso fra popolo e democrazia, meno evidente è quello fra popolo e diritto, come dimostra la dialettica fra democrazia e costituzionalismo che si è sviluppata nel corso del Novecento». Nella congiuntura presente, c’è purtroppo da osservare che non è neppure più così evidente il nesso tra popolo e democrazia. E questo perché ambedue i poli del rapporto hanno subito una deriva, appunto non posseduta intellettualmente e controllata politicamente. È un dato materiale della situazione presente. E l’anomalia italiana interviene ad aggravare, sottolineandola, una condizione, che è europea e occidentale. Voglio parlare qui, e credo mi si chieda di parlare qui, più che di populismo e diritto, di popolo e politica. Del resto costituzionalismo politico e costituzionalismo giuridico hanno da porsi a questo punto la domanda del perché e come nella democrazia realizzata di oggi si sia così gravemente guastato il rapporto fra politica e popolo.
Anche su questo argomento, come su tanti altri, è opportuno sbarazzarsi del dogma progressista del “tutto è nuovo”. Sull’irruzione nel discorso pubblico e nella pratica politica del termine populismo si è prodotta una chiacchiera mediatica di proporzioni tali da confondere forse irrimediabilmente una considerazione seria sul termine popolo. È da qui allora che bisogna ripartire. Populismo ha una contingenza politica precisa, sia nelle esperienze ben determinate di fine Ottocento negli Stati Uniti e in Russia, sia in quelle novecentesche latino-americane. Questa sorta di odierno neopopulismo ripete qualcosa senza sapere niente della cosa stessa. La prova è che se il paleopopulismo si esprimeva in un progetto, il neopopulismo si rappresenta in una pulsione. Ma questo carattere dei comportamenti irrazionali di massa è un tema che già il Novecento aveva tragicamente posto all’attenzione del pensare e dell’agire politico. E avviene che la sua attuale ripetizione farsesca è paradossalmente più difficile da comprendere e da contrastare, perché ti viene il dubbio se sia il caso di prenderla sul serio o di lasciarla andare aspettando che passi la nottata: sempre domandando alla sentinella a che punto siamo della notte. Meglio allora è tornare a ragionare sulla radice del problema, quel termine-concetto storico di popolo, che nella sua lunga durata ha depositato prassi e teoria di grande livello.
Le incarnazioni dello spirito di popolo sono state tante e non riconducibili ad unità.
Il demos dei greci non è il populus dei romani. Il we the people degli americani non è la sovranità che appartiene al popolo degli europei. La radice ci conferma che popolo può avere un significato neutro, popolazione, gente e un significato specifico, politico. Per questo Weber considerava il termine inservibile per un’indagine realmente seria. E Sartori lo considerava equivoco perfino per una teoria della democrazia. È che popolo designa di fatto una base prepolitica, che può diventare o politica o antipolitica. Lo possiamo vedere oggi forse meglio che nel passato. Perché vediamo qui e ora ripetersi – a dispetto di tutti i nuovismi – ben note dinamiche novecentesche: non tanto offerta populista quanto domanda demagogico-antipolitica. È la richiesta di una funzione simbolica del capo, che attraverso una legittimazione plebiscitaria, si faccia carico dei bisogni reali, con una delega di potere anche al di fuori o addirittura al di sopra delle leggi. È qui, secondo me, che si incrocia, insieme a populismo e diritto, antipolitica e istituzioni. Weber non ha fatto in tempo a vedere la realizzazione del potere carismatico in potere totalitario. E ha visto meglio quello che ci serve di vedere per l’oggi. Ogni democrazia – diceva – porta in corpo una inclinazione plebiscitaria. In fondo, dopo la fine della prima Repubblica e con le squallide vicende pubbliche che ne sono seguite, abbiamo vissuto l’inconscio collettivo di una situazione quasi weimariana: senza i grandi protagonisti politici e culturali di quella stagione. Anticorpi sociali resistenti hanno impedito e impediscono una soluzione autoritaria. Quell’inclinazione della democrazia all’antipolitica riesce benissimo ad esprimersi in forme trasformative interne, senza la necessità di superamenti istituzionali. Non a caso sono falliti tutti i tentativi di riforme costituzionali. Basta una pratica quotidiana di disintermediazione tecnologicamente armata di un direttismo democratico – niente a che vedere con la democrazia diretta – orientato dai mezzi sempre più alienanti della comunicazione di massa.
Contingenza e storia raramente coincidono dando luogo a uno stato d’eccezione. Non è questo il caso che ci è dato di sperimentare. Oggi il contingente è a-storico. E quindi impolitico. E allora qui c’è una difficoltà della pratica che solo il pensiero può tentare di superare. Non è l’inservibilità, o l’equivocità, del concetto di popolo che conviene sottolineare. È piuttosto questa sua ambiguità, che si tratta di assumere. Del resto, tutta la modernità ha avuto a che fare con questo Giano bifronte. Già Hobbes distingueva tra popolazione e popolo, tra un certo numero di uomini che vivono in un territorio geografico e l’aggregato politico portatore di sovranità. Questa distinzione si è poi stabilizzata e trasformata in popolo-nazione e popolo società, in concetto politico e concetto sociale di popolo. La forma borghese della società capitalistica ha compiuto con intelligenza questa operazione. Sono idee personali, ma non ne ho altre da mettere a disposizione. Io vedo un popolo prima della classe, un popolo con la classe e un popolo dopo la classe. Abbiamo ora a che fare con quest’ultima specie di popolo. C’è un populus aeternus, che ci interessa poco per quello che abbiamo da fare qui adesso. Ci ha interessato quel popolo che, non il capitalismo in generale, ma lo specifico del capitalismo industriale, ha messo in forma di classe. Lì abbiamo avuto un popolo strutturato, organizzato, un reale sociale politicizzato, agente nella lotta di classe, come masse in movimento al seguito di un’aristocrazia sociale e di una élite politica. È stato il tempo in cui il popolo ha tenuto in forma un rapporto di società contro gli spiriti animali della produzione, del mercato e del consumo che tendevano a dissolverlo.
Quando questi spiriti animali hanno riconquistato dominio politico ed egemonia culturale, tra l’altro a livello globale, e non più solamente nazionale, lì la storia contemporanea ha girato su sé stessa, con una narrazione ideologica a suo modo geniale, con un premoderno presentato come postmoderno. Ha ragione Scoditti: a quel punto, si è dissolto il moderno equilibrio tra diritto e popolo, mediato dalla politica. Quella mediazione si svolgeva a due livelli, dall’alto attraverso lo Stato, dal basso attraverso il partito. Sono più che convinto di questa osservazione: «la compenetrazione del calore sociale e identitario con la freddezza del Giuridico, pura tecnica di limitazione del potere, si è realizzata grazie alla politica». È questa la ragione di fondo per cui l’intelligenza di sistema, a difesa del proprio interesse di parte, ha speso gli ultimi decenni in un lavorìo quotidiano di delegittimazione della politica. E senza abbandonare la tradizionale presa di possesso sulla macchina statale, ha puntato a smontare la rappresentanza politica dell’interesse di parte opposto. L’antipolitica di sistema è andata con sicurezza a colpire lo specifico politico realizzato nella forma-partito. E siccome, giustamente, «il partito politico del Novecento europeo, elaboratore decisivo di indirizzi politici, ha rappresentato il punto di arrivo della moderna nozione di Politico, da Hobbes in poi …», è venuta così a cadere una delle leve di quel processo di civilizzazione, di cui ha parlato Norbert Elias. È corretto allora parlare di imbarbarimento del rapporto sociale. Ma bisogna coglierne, per combatterli, i modi inediti attraverso cui l’operazione tentata è poi riuscita. Questi modi sono due, contemporanei e complementari: una plebeizzazione di popolo e una volgarizzazione di élite. Sarebbe un evento da definire tragico se noi, figli del Novecento, non conoscessimo ben altre altezze, o bassezze, del tragico nella storia. Si tratta in realtà di un passaggio drammatico, con dominanti movenze farsesche.
Oggi, un popolo senza riferimento di classe produce un rapporto sociale senza forma. Quando si è detto: non esiste la società, esiste l’individuo, si è pronunciata una massima di verità, che definisce il presente. Ma così l’individualismo non si personifica, si massifica. E il rapporto sociale scompare, non perché non esiste, ma perché viene stravolto in qualcosa che non lo fa più riconoscere. Anzi, lo fa addirittura contestare. Contribuisce alla radicalità del fenomeno la tecnologia post-umana della comunicazione virtuale. Oggi il bellum omnium contra omnes si è trasferito nella palestra recitativa del web. Il bellum civile va allora ritradotto, riformulato, e così riportato alla materialità della condizione umana. L’individuo va ripensato come persona. Tutt’altro che allontanarsi dai reali bisogni quotidiani del singolo, del suo assetto famigliare, della sua appartenenza territoriale, occorre riavvicinare la politica a questi luoghi, tenendo conto dei loro tempi. Lo stesso diritto dovrebbe riformulare in questo senso la sua materia. Tra l’attuale dominante globalizzazione, non solo della storia, ma della cronaca, da un lato e, dall’altro la nuda vita delle persone, una volta si diceva in carne e ossa, e ancora meglio si diceva degli uomini e delle donne semplici, va colmata una distanza alienante che produce soltanto insicurezza, rabbia, paura. Solo, forse, politica e diritto insieme possono intestarsi questo compito operativo, che io chiamerei redentivo. È la via per rifare società, rifare popolo. Ri-fare perché il fatto che c’è, l’attuale falsamente eterno presente, è la negazione dell’una e dell’altro. Questo non avverrà se non si riordina il conflitto. Non si dà al momento la tradizionale contrapposizione di ordine e conflitto. In una società divisa è il conflitto che mette in ordine. Conflitto vero, sociale e politico, tra visioni e azioni e passioni alternative. Nella società di tutti, un nuovo popolo deve farsi parte. Quanto di lavoro giuridico e di lavoro politico va messo in campo per questa operazione è tutto da calcolare. Certo è che la porta stretta di una rivoluzione di cultura chiede di essere al più presto coraggiosamente attraversata.