Norma polisemica e discorso populista
1. Patologia della norma manifesto
«Ogni precetto normativo contenuto nell’atto è formulato evitando qualsiasi ambiguità semantica e sintattica e rispettando, per quanto possibile, sia il principio della semplicità che quello della precisione»: qual è il fine a cui tende questa prescrizione, collocata all’esordio del testo[1] che disciplina la legistica italiana? Se, come pure è stato sostenuto, ex nihilo nihil l’ambiguità è foriera soltanto di una sciatteria da evitare, o persegue un preciso programma politico? E se sì, quale? Si tratta di una versione nostrana della “manomissione” dell’Esecutivo sulle procedure parlamentari[2], a vantaggio di una concezione populistica della gestione della cosa pubblica? Per scoprirlo, occorre partire dall’esame della modalità con cui per prima la patologia si è fatta, da inutile[3], perniciosa, cioè dalla norma manifesto.
Fedele alla regola secondo cui la storia si ripete in farsa, la legislazione italiana – ad inizio del decennio – scelse di mettere in opera una buffa scimmiottatura della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Il testo dell’articolo 5, con cui l’Assemblea costituente francese dava attuazione all’abolizione dei privilegi feudali, proclama, tra l’altro, che «Tutto ciò che non è vietato dalla legge non può essere impedito». Duecento anni dopo, un testo carico di significato storico-politico, prima che giuridico, venne riproposto in una pluralità di norme del sottobosco legislativo nostrano, nell’evidente sottotesto che occorreva una simile “clausola generale” per recidere il vincolismo amministrativo che sarebbe stato presente nella "Costituzione economica" del nostro Paese.
Cominciò il disegno di legge costituzionale Atto Camera n. 4144 (presentato il 7 marzo 2011, iniziativa del Governo Berlusconi IV), volto ad aggiungere al primo comma dell’articolo 41 della Costituzione le fatidiche parole «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». La relazione governativa correlava la proposta novella con disinvolti giudizi sul testo licenziato dal Costituente: «è noto che l’articolo 41 emerge da un retroterra culturale scettico, allora, nei confronti del sistema di libero mercato»; il suo terzo comma avrebbe delineato «un modello di economia dirigista, nel quale sono poste su uno stesso piano l’attività economica pubblica e quella privata»; le «intrinseche contraddizioni presenti nella disposizione» avrebbero «riguardato essenzialmente la possibilità di conciliare il pieno riconoscimento dell’iniziativa economica privata con la previsione di un’economia di tipo dirigistico». «La crisi economica degli ultimi anni ha riaperto il dibattito giuridico sull’articolo 41 riproponendo i dubbi interpretativi presenti nella disposizione», pur «frutto di un alto compromesso tra diverse anime all’interno dell’Assemblea costituente»: ecco perché la frasetta del 1789 assume una valenza decisiva, per raddrizzare nel senso della piena tutela della libera iniziativa questo testo costituzionale che «se da un lato non ha imposto una normazione decisamente dirigista o comunque contraria ai princìpi del libero mercato né la cassazione di norme che si avviavano sulla strada della libertà dei mercati e dell’economia, dall’altro lato ha permeato di sé ampia parte dell’intervento pubblico nell’economia».
Tanto convinta era quella maggioranza della necessità di riaprire la questione, che, prontamente arenatasi la revisione costituzionale, pensò bene di farne oggetto di due diversi interventi legislativi. In fase di conversione del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, la legge 15 luglio 2011, n. 111 introdusse un articolo 29, comma 1-bis che prevedeva una “ghigliottina” normativa sulle norme incompatibili col principio in questione: la faceva però scattare ad otto mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione, quando «ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero».
Nemmeno un mese dopo, nuovo cambio di fronte: «è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge» diventa principio incorporato direttamente nell’articolo 3, comma 1, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148, sia pure con una serie di eccezioni. Ma anche qui, Rodomonte inciampa sulla sua stessa lama: il comma 3 generalizza l’effetto abrogativo a tutto l’ordinamento della Repubblica, ma nello stesso tempo dilaziona la ghigliottina alla scadenza al 30 settembre 2012. Per fortuna, ci pensò la Corte costituzionale a recidere questo nodo oramai avviluppatosi inestricabilmente: con la sentenza 17-20 luglio 2012, n. 200, il Giudice delle leggi caducava il comma 3, «sotto il profilo della ragionevolezza, determinando una violazione che si ripercuote sull’autonomia legislativa regionale garantita dall’articolo 117 della Costituzione, perché, anziché favorire la tutela della concorrenza, finisce per ostacolarla, ingenerando grave incertezza fra i legislatori regionali e fra gli operatori economici».
La rampogna contro l’automaticità dell’abrogazione, unita all’indeterminatezza della sua portata, era declinata in rapporto alle competenze regionali conculcate, stante il ricorso in via principale che aveva dato origine al giudizio: ma la Corte non si limitò ad evidenziare come la «valutazione sulla perdurante vigenza di normative statali incidenti su ambiti di competenza regionale spetterebbe a ciascun legislatore regionale, e potrebbe dare esiti disomogenei, se non addirittura divergenti». La relatrice al § 7.5 del Considerato in diritto non manca di sottolineare l’inanità dell’intera operazione: «l’atto impugnato, infatti, non stabilisce regole, ma piuttosto introduce disposizioni di principio, le quali, per ottenere piena applicazione, richiedono ulteriori sviluppi normativi, da parte sia del legislatore statale, sia di quello regionale, ciascuno nel proprio ambito di competenza. (...) tale principio non è stato affermato in termini assoluti, né avrebbe potuto esserlo in virtù dei vincoli costituzionali, ma richiede di essere modulato per perseguire gli altri principi indicati dallo stesso legislatore, in attuazione delle previsioni costituzionali». «Poiché la previsione censurata dispone la soppressione per incompatibilità, senza individuare puntualmente quali normative risultino abrogate, essa pone le Regioni in una condizione di obiettiva incertezza, nella misura in cui queste debbano adeguare le loro normative ai mutamenti dell’ordinamento statale» (§ 8.2).
C’è pur qualcosa che distingue questa clausola dalle non infrequenti rodomontate del Legislatore, e che la rende invece l’archetipo di tutte le successive vicende di emersione del populismo giuridico a livello legislativo. La chiave è proprio in quel precedente del 26 agosto 1789. È noto come quella Dichiarazione rivestisse anche un valore gius-filosofico, tanto che il Maestro del diritto parlamentare italiano vi ha rinvenuto la «norma-manifesto del costituzionalismo»[4]: ma ciò accresce i sospetti verso un Legislatore (vieppiù quello ordinario) che utilizza la stessa tecnica delle “fasi costituenti” per scopi tutti interni al “potere costituito”. Non dimostrarono certo uno spiccato senso del ridicolo coloro che scimmiottarono quella formula, adottata mentre i tizzoni della Bastiglia erano ancora caldi, per spacciare una menzogna storiografica, falsa quanto meno per un evidente difetto di proporzioni: la vulgata secondo cui la cosiddetta “prima Repubblica” aveva soffocato le “forze vive” del mercato, né più né meno di quanto avevano fatto i ministri dell’Ancien Régime nei confronti della borghesia d’Oltralpe.
La norma diventava quindi un enunciato polisemico: nel mentre affermava un metodo ermeneutico dell’atto adiettivo e del suo rapporto con le (auspicate) “liberalizzazioni”, essa spacciava un’erba magica idonea a dare un significato alla “seconda Repubblica”: la transizione esiste nella misura in cui si rinnega lo Stato servile, cui il regime dei partiti aveva infeudato l’economia di uno Stato liberale (e liberista). Poco importava se questa visione non collimasse col dirigismo di liberaldemocrazie europee altrettanto, se non più, consolidate; ancor meno importava abbandonare l’antica critica allo sconfinamento del Legislatore nel metagiuridico[5], senza neppure riconoscere legittimità al “controveleno” del sindacato di costituzionalità, che la dottrina aveva individuato per temperare gli eccessi del potere legislativo così scatenati[6]. Si confermava invece la deriva verso «una legislazione spesso fatta di annunci estemporanei e iniziative volte a impressionare gli elettori, per poi essere dimenticate»[7].
Sarebbe però semplicistico ritenere che la vittima di questa deriva sia soltanto la legistica, a fronte del cui vuoto formalismo s’impone il rasoio di Occam, per corrispondere con immediatezza alle esigenze che prorompenti salgono dal Paese reale. Quando ad esempio si segnalò che la riforma Monti-Fornero (legge n. 92 del 2012) in più punti manifestava i più classici caratteri proprio della norma-manifesto[8], vi fu, chi, al suo interno, evidenziò una norma in particolare, il comma 48: esso si prestava non soltanto ad una lettura come "norma inutile"[9], ma anche come «una norma-manifesto contro i giudici»[10].
Che l’organizzazione del lavoro della magistratura rientri in un ambito riservato all’autogoverno[11], è in effetti assunto opinabile, non utilizzato neppure nel tentativo di contestare la legittimità dell’articolo 16 del decreto legge 12/09/2014, n. 132[12]; ma che le guarentigie – che assistono le funzioni requirente e giudicante – siano sempre più frequentemente sotto attacco è un fatto, di recente assurto addirittura a conflitto tra poteri (conclusosi con l’annullamento parziale dell’articolo 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177)[13], ma da anni oramai costatato nel sindacato di costituzionalità delle leggi-provvedimento.
2. Eccesso di potere legislativo e leggi-provvedimento
I due contrapposti schemi dell’eccesso di potere legislativo – quello di Carnelutti sul vizio dell’organo legislativo che eserciti una potestà riservata ad altri poteri, e quello di Mortati sul «sorpassamento dei limiti posti all’esercizio della discrezionalità»[14] lata del legislatore – si dimostrano quindi assai più convergenti di quanto appaiano prima facie. La permeabilità delle frontiere tra i tre poteri si può apprezzare appieno quando si versa in un ambito di giustizia amministrativa, dove vengono in campo sia la sostituzione all’atto amministrativo con la legge, sia la sottrazione della sua sindacabilità al giudice amministrativo. In tali casi la Corte osserva che «in assenza nell’ordinamento attuale di una “riserva di amministrazione” opponibile al legislatore, non può ritenersi preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidate all’azione amministrativa […] con la conseguenza che il diritto di difesa […] non risulterà annullato, ma verrà a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale» (sentenza n. 62 del 1993)[15].
Si tratta del massimo livello cui perviene la "giurisdizionalizzazione" della fattispecie della legge provvedimento, il cui contenuto, a monte, sarebbe di diritto sostanziale: come ricorda la Corte costituzionale nella sentenza n. 103 del 2013, «tale contenuto viene ad incidere su rapporti ancora in corso, vanificando il legittimo affidamento», nel caso concreto quello di «coloro che hanno acquistato beni immobili». In effetti, l’ingerenza del Legislatore nel Giudiziario[16] nasce come ombra proiettata sul processo da una regolamentazione in sé stessa sbilanciata del rapporto sostanziale, la cui (nuova) disciplina può ledere l’affidamento – legittimamente sorto nei soggetti destinatari – quale principio connaturato allo Stato di diritto[17]. Né è un caso che la sua tutela, nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sia stata originata da una giurisprudenza di diritto sostanziale (la violazione del test di legittimità e di proporzionalità, per l’arbitrarietà o imprevedibilità dei risultati della norma giuridica che limita i diritti)[18], per poi dilagare sub specie di violazione dell’articolo 6 paragrafo 1 della Convenzione (che, ponendo i principi della preminenza del diritto e dell’equo processo, comportano il divieto di interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia destinata a influenzare l’esito della controversia, fatta eccezione dei motivi imperativi di interesse generale)[19].
Già nella sentenza n. 93 del 2010 la Corte costituzionale aveva citato giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul divieto di interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia destinata a influenzare l’esito della controversia, fatta eccezione che per motivi imperativi di interesse generale: in quel caso, però, la ricognizione dei precedenti europei, effettuata dalla Corte costituzionale italiana, si fece carico di una lettura che salvaguardasse la possibilità di sanare le discrasie tra le varie giurisprudenze[20]. Ricorrenti sono comunque diventati i casi in cui lo scrutinio di costituzionalità è svolto per il tramite dello scrutinio di "convenzionalità" (il che avviene a seguito di questione incidentale che denunci del contrasto fra la norma impugnata e l’articolo 6 della Cedu, norma interposta per valutare la violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione): nella sentenza 1-4 luglio 2013, n. 170 è stato sostenuto che «lo stato del giudizio e il grado di consolidamento dell’accertamento, l’imprevedibilità dell’intervento legislativo e la circostanza che lo Stato sia parte in senso stretto della controversia, sono tutti elementi considerati dalla Corte europea per verificare se una legge retroattiva determini una violazione dell’articolo 6 della Cedu». Si tratta di figure sintomatiche di illegittimità dell’ingerenza, che oramai la Corte costituzionale «considera vincolanti anche per l’ordinamento italiano»[21] – pur se derivanti da pronunce non direttamente rivolte all’Italia – in quanto «contengono affermazioni generali, che la stessa Corte europea ritiene applicabili oltre il caso specifico»[22].
3. Ingerenza del Legislativo nel giudiziario
Ma fu sul cosiddetto "caso Ilva" che il giudice italiano delle leggi si pose il problema di dettare una linea che avrebbe potuto, virtualmente, condurre ad una censura del Legislatore che, con la legge, ne forzasse i limiti della generalità ed astrattezza[23]: non si può, in proposito, non vedere una reazione alla grossolanità del retrotesto populista con cui il Governo del momento semplificava l’alternativa tra ambiente e lavoro evocando, come meccanismo di innesco del problema, il sequestro giudiziario dell’impianto, e non la situazione di permanente pericolo in cui versavano lavoratori e popolazione tarantina. La sentenza della Corte costituzionale 9 aprile-9 maggio 2013, n. 85 esordì, comunque, in maniera molto equilibrata: «la prevalente dottrina e la giurisprudenza di questa Corte non considerano la legge-provvedimento incompatibile, in sé e per sé, con l’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione» (§ 12). Rispetto ai due fronti di possibile «ingerenza» del cattivo esercizio della funzione legislativa, il livello amministrativo e quello giurisdizionale, quella sentenza "capostipite" si soffermò anzitutto sul primo, ribadendo che «nessuna disposizione costituzionale […] comporta una riserva agli organi amministrativi o “esecutivi” degli atti a contenuto particolare e concreto» (già così in sentenza n. 143 del 1989). Con riferimento al secondo fronte, quello che paventa il pericolo di ingerenze del Legislativo nella funzione giurisdizionale, la Corte ha inoltre precisato che «la legittimità costituzionale di tale tipo di leggi va valutata in relazione al loro specifico contenuto, con la conseguenza che devono emergere i criteri che ispirano le scelte con esse realizzate, nonché le relative modalità di attuazione (ex plurimis, sentenze n. 137 del 2009, n. 267 del 2007 e n. 492 del 1995)».
La sentenza n. 85 del 2013 è, ancora una volta, quella che reca l’impianto argomentativo più interessante, in proposito: non può essere consentito al legislatore di «risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i princìpi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi»[24]. Si tratta di una statuizione che la Corte costituzionale affianca a quelle delle due principali Corti sovranazionali europee, senza commenti; eppure la discrasia dei punti di partenza – proprio nel caso Ilva – è di tutta evidenza, quanto meno nell’ampiezza delle deroghe e della stessa diversità tra le "vie di fuga" prescelte[25]. Rispetto all’esito della sentenza del 2013, che comunque accordò fiducia al Legislatore rigettando la questione di legittimità costituzionale, la consonanza con Strasburgo, proclamata in linea di principio, è ancora lungi dall’essere conseguita.
La strada successivamente intrapresa dal Legislatore ha messo a dura prova la statuizione secondo cui il bilanciamento deve essere condotto senza consentire «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sent. n. 85 del 2013). Nel dichiarare incostituzionale la norma secondo cui «l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro […] quando lo stesso di riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori»[26], la sentenza 7 febbraio 2018, n. 58 ha ricordato proprio che il bilanciamento deve «rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati (sentenze n. 63 del 2016 e n. 264 del 2012)».
Ciò non ha impedito a Strasburgo, a meno di un anno dalla sentenza italiana n. 58/2018, di coinvolgere nella censura lo stesso meccanismo di accesso alla Corte costituzionale. Non solo, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo[27] ha dichiarato la violazione degli articoli 8 e 13 della Cedu in ragione del fatto che «la prosecuzione dell’inquinamento ambientale mette in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, dell’insieme della popolazione residente nelle zone a rischio» (§ 170). La statuizione si fonda sul fatto che l’attività industriale prosegue, in spregio alle constatazioni delle autorità giudiziarie competenti fondate su perizie chimiche ed epidemiologiche, e sul fatto che «un’immunità amministrativa e penale è stata riconosciuta a chiunque sia incaricato di garantire il rispetto delle prescrizioni in materia ambientale, cioè l’amministrazione provvisoria ed il futuro acquirente della società»(§ 169).
Dall’esimente penale i giudici di Strasburgo traggono un’ulteriore, non secondaria conseguenza in rito: l’applicazione della cosiddetta "giurisprudenza Selmouni"[28], che consente di prescindere dalla regola del previo esperimento dei ricorsi nazionali quando la loro praticabilità è di fatto inesistente (§§ 121-127). In effetti, in assenza di amparo, il nostro ordinamento pretende che, per difendere la situazione giuridica soggettiva lesa, si vada da un giudice e gli si chieda di sollevare incidente di costituzionalità. Quello che la sentenza del caso Ilva chiama «un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale» – cui la legge provvedimento deve soggiacere «per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio» (già così in sentenza n. 2 del 1997 e, in senso conforme, in sentenza n. 20 del 2012) – è quindi subordinato a procedure non automatiche, non semplici e, soprattutto, non immediate. A fronte dei valori messi in pericolo da queste leggi, la censura implicita nella statuizione della Corte europea non è di poco rilievo.
4. Gli strumenti preventivi
La prima e più efficace barriera – rispetto ed enunciati normativi polisemici, volti a conseguire scopi in contrasto con il riparto dei poteri – dovrebbe venire direttamente dal Parlamento, anche perché è ad esso, negli ultimi tempi, che si rivolge il principale collettore di proposte di leggi provvedimento, cioè il Governo. Quando questo non può risolvere in proprio, anche solo perché l’attività amministrativa è compiuta da organi composti da magistrati, può giudicare necessario un intervento di decretazione d’urgenza. È quanto avvenne con il decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29, senza il quale – dichiarò in Parlamento il rappresentante del Governo – «si sarebbe impedito a taluni cittadini di esercitare il diritto di voto secondo i propri convincimenti (...) In caso contrario, vi sarebbe stato il rischio concreto di una alterazione del consenso (...) Le disposizioni sono venute incontro all’esigenza di assicurare la piena partecipazione dei diversi schieramenti alle ultime elezioni. Soggiungo, infine, che con le norme contenute nel decreto-legge si è inteso offrire la cornice giuridica affinché la magistratura, sia ordinaria, sia amministrativa, potesse pronunciarsi senza dubbi ed incertezze in una materia tanto delicata, ma anche altrettanto sensibile per i diritti dei cittadini chiamati a rinnovare gli organi regionali e locali interessati dall’ultima consultazione amministrativa»[29]. Il piccolo particolare – che l’organo magistratuale competente si fosse già pronunciato, nel senso dell’esclusione di una lista che il decreto mirava a riammettere "in corsa" – sembra ignorato, a fronte della dirimente esigenza di contrapporre il libero gioco della politica e le formalità procedimentali; ma la retroattività della norma era ancora vissuta come la spia di una possibile forzatura e ciò, in effetti, fu all’origine del voto a sorpresa dell’Assemblea di Montecitorio, che diede luogo alla reiezione dell’intero decreto-legge.
Da questa vicenda si può dedurre l’utilità del lavori preparatori, che non viene meno neppure quando la prima barriera è sfondata[30] e la questione giunge dinanzi alla Corte[31]: che la natura polisemica dei testi sia stata già evidenziata nel dibattito parlamentare può essere un utile indizio, sia per attestare l’esistenza di fini ulteriori[32], sia come spia della pervicacia del proponente nell’escluderne alcuni[33]. In certa misura è il Drafting che contribuisce a quest’operazione di chiarezza, sia nella sua precettistica formale[34] che nel suo calarsi specificamente in rapporto ad un testo[35]. Ma non mancano anche altri contributi di supporto dell’attività parlamentare, soprattutto quando segnalano che esigenze tutte endo-amministrative[36] approdano al rango primario soprattutto per eludere il confine tra poteri dello Stato: nel caso della procedura di selezione per il conferimento dell’incarico di direttore in venti musei, ad esempio, l’impatto della norma di interpretazione autentica, introdotta in sede di conversione di un decreto-legge[37], sul contenzioso giurisdizionale in atto[38], fu oggetto di esame del Servizio studi del Senato[39], che citò dettagliatamente sia la sentenza n. 73/2017 della Corte costituzionale italiana riguardo alle disposizioni costituenti norme di interpretazione autentica, sia la ricca giurisprudenza strasburghese che legittima la Corte europea dei diritti dell’uomo a pronunciarsi «sulla questione se l’intervento del legislatore abbia pregiudicato l’equità del procedimento e, in particolare, la parità delle armi, esercitando, in pendenza di lite, una influenza sull’esito della controversia»[40].
In ultima analisi, la barriera più efficace arriva dal titolare del potere di promulgazione e dalla moral suasion che esso comporta: ma qui lo scontro si sovraccarica di valenze esterne al "potere neutro" del Quirinale, ogni qualvolta che al contributo di meditazione offerto si contrappone la necessità di non disattendere il mandato politico del Governo e della sua maggioranza parlamentare. Ecco perché si sono andate diffondendo prassi eccentriche[41], presenti in altri ordinamenti, come le controfirme presidenziali accompagnate da messaggi al soggetto proponente[42] o comunque ai Presidenti delle Camere[43].
Il problema di queste prassi è che si scontrano con un elemento fondamentale del populismo moderno: rifiutare l’apporto dell’ermeneutica o, se si preferisce, l’ausilio dell’interpretazione adeguatrice. Se, a fronte di una norma-manifesto, ≤compito dell’interprete è comunque privilegiare l’interpretazione che sia in grado di conferire all’enunciato un effetto giuridico», in dottrina si è più volte lamentata la posizione in cui si trova l’interprete che versa «nell’ingrata posizione di dovere scorgere nella previsione di legge una utilità "residuale"»[44]. Non soltanto negli atti parlamentari vengono lasciate a verbale dichiarazioni esplicitamente in senso contrario, tali da escludere ogni lettura "costituzionalmente orientata"; sempre di più in posizioni pubbliche i proponenti rivendicano la funzione di "rompighiaccio" della loro iniziativa legislativa, atta a provocare un mutamento di paradigma in letture della Costituzione giudicate vetuste, che meriterebbero nulla di meno della contrapposizione netta.
Si tratta, a dire il vero, di una strategia per lo più mediatica, che trova scarsa rispondenza nella linea di condotta con cui l’Avvocatura dello Stato cerca poi di ridimensionare la portata della norma, quando questa arriva alla Corte costituzionale[45]: ma l’idea che la maggioranza espressa nel voto parlamentare faccia sentire la voce del Paese[46], travolgendo consolidate teorizzazioni costituzionali non col peso degli argomenti ma con la forza del numero, porta in sé un germe profondamente anti-intellettualistico, dello stesso genere di quello che si affacciò per la prima volta nel 399 a.C., nell’orazione di Meleto dinanzi agli Eliasti di Atene.
Intendiamoci: che la Gazzetta Ufficiale sia infarcita di norme teleologicamente vocate a lanciare un messaggio politico, è un fatto inevitabile, tanto più in una democrazia, dove il potere legislativo promana da un’Assemblea elettiva alla ricerca del consenso. Il giurista si difende con l’antica distinzione tra occasio e ratio legis, ma si tratta di un discrimine sempre più artificioso, quando – tra leggi provvedimento e leggi ad personam – sfuma la stessa distinzione tra scopi ufficiali della legge e scopi realmente perseguiti dal legislatore[47]: tutto pare confluire nella frenetica esigenza di negare l’esistenza di vincoli all’onnipotenza del Parlamento[48].
Il populismo giuridico, infatti, in questo praticamente si traduce: negare che la dittatura della maggioranza possa conculcare diritti inalienabili ed indisponibili dalle minoranze: ponendo dinanzi ad ogni obiezione la prevalenza di una volontà generale ascrivibile all’esito elettorale, si agisce né più, né meno di come – nel Medio Evo – si invocava il guidrigildo per il giudizio di dio. Può apparire strano che gli eredi della Gironda abbiano sposato teoretiche pseudo-rousseauviane, ma ai pozzi avvelenati si sono abbeverate le carovane dell’ultimo ventennio e, per la verità, nessuno può in buona fede tirarsene fuori.
[1] Si tratta del § 2 della circolare «Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi», emanata in pari data dalle presidenze delle Camere e dalla presidenza del Consiglio dei ministri il 20 aprile 2001, cui fece seguito la circolare della presidenza del Consiglio dei ministri del 2 maggio 2001 (Circolare n.1/1.1.26/10888/9.92, recante «Guida alla redazione dei testi normativi», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 101 del 3 maggio 2001, S.O. n. 105). Si tratta di testi per lo più riproduttivi delle circolari delle presidenze delle Camere del 28 febbraio 1986 e di quella, in identico testo, della presidenza del Consiglio dei ministri del 25 febbraio 1986, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 123 del 29 maggio 1986, S.O. n. 40.
[2] Così la definisce, in Francia, Olivier Bonnefoy, Les relations entre Parlement et Conseil Constitutionnel : les incidences de la question prioritaire de constitutionnalité sur l’activité normative du Parlement. Droit. Université de Bordeaux, 2015, § 40.
[3] «Se dovesse prendersi alla lettera, una legge-manifesto supererebbe giocoforza qualunque analisi di fattibilità, perché il suo vero obiettivo si esaurisce nell’annuncio di una norma»: M. Ainis, Attuazione di norme a mezzo di norme, in Giur. cost., fasc. 3, 1996, p. 2015, nota 7.
[4] Così G. Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 103, in riferimento all’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 («Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione»).
[5] Per le critiche che furono accese soprattutto contro le leggi di riforma agraria e nazionalizzazione dell’energia elettrica, che si valevano della delegazione legislativa per dettagliare in norme cogenti le scelte politico-economiche enunciate nella fonte primaria, v. G. Arconzo, Contributo allo studio sulla funzione legislativa provvedimentale, Giuffré, Milano, 2013, pp. 158 ss.
[6] L. Paladin, Il sindacato della Corte costituzionale sull’utilità delle leggi, in Giur. cost., 1964, pp. 144 ss.
[7] B.G. Mattarella, La trappola delle leggi. Molte, oscure, complicate, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 41.
[8] A. Vallebona, La riforma del lavoro, 2012, Utet, Torino, 2012, p. 10: l’articolo 1 dimostra «la bella intenzione di realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico in grado di contribuire alla creazione di occupazione», cui segue «un elenco di strumenti contrassegnati come tali dal gerundio introduttivo, ma che a ben vedere sono anch’essi obiettivi». Al suo interno, P. Tullini, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, in Riv. it. dir. lav., fasc.1, 2013, p. 147 giudica «velleitaria la pretesa di discutere le finalità o le ragioni che sono state poste alla base della riforma per dichiarazione espressa del legislatore storico (nella norma-manifesto: cfr. articolo 1, comma 1, lett. c)».
[9] «Non solo perché ciascun giudice ha sempre trattato i licenziamenti insieme alle altre cause di lavoro, ma soprattutto perché il problema non è tanto la calendarizzazione delle udienze, quanto piuttosto la durata complessiva dei processi»: L. Cavallaro, Il processo del lavoro al tempo dei «tecnici», in Riv. trim. dir. proc. civ., fasc.1, 2013, p. 287.
[10] Si tratterebbe infatti di una norma che tradisce il convincimento che l’eccessiva durata dei processi sia in larga misura ascrivibile al loro scarso impegno sul lavoro, al punto da agitare lo spettro dei procedimenti disciplinari per obbligarli a lavorare di più: L. Cavallaro, Il processo del lavoro al tempo dei «tecnici», in Riv. trim. dir. proc. civ., fasc.1, 2013, p. 287.
[11] La premessa alla circolare n. P. 10588 del 22 aprile 2011 (Delibera del 21 aprile 2011 e succ.mod.) si limitava, correttamente, a dichiarare che «il Consiglio superiore della magistratura è intervenuto frequentemente, sia con circolari sia in sede di risposta a specifici quesiti, in ordine alle modalità di godimento delle ferie da parte dei magistrati. Si tratta, invero, di un tema di un particolare rilevanza, giacché involge, per un verso, l’esercizio di un diritto irrinunciabile costituzionalmente garantito e, per altro verso, la necessità di assicurare il corretto funzionamento degli uffici giudiziari nel corso dell’intero anno solare, ivi compreso il periodo feriale di cui all’art. 90 O.G.».
[12] La sentenza della Corte costituzionale 7 ottobre 2015, n. 222, che dichiarò il difetto di rilevanza della questione, dà conto del fatto che con ordinanza del 23 settembre 2014, il Tribunale ordinario di Ragusa aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della norma soltanto «in riferimento agli articoli 3 e 77, secondo comma, della Costituzione». In particolare, la questione di legittimità costituzionale in punto di ragionevolezza si limitava ad argomentare che «parificando il periodo di congedo ordinario riconosciuto ai magistrati a quello degli altri impiegati civili dello Stato, senza tener conto delle peculiarità dell’attività giudiziaria, mostrerebbe un assetto normativo inidoneo ad assicurare la concreta ed integrale fruizione, da parte dei magistrati, dei trenta giorni di congedo ordinario riconosciuti agli impiegati civili dello Stato, realizzando una disparità di trattamento rispetto a questi ultimi non giustificata e non ragionevole. Si tratterebbe di una parificazione solo apparente, perché la riforma non derogherebbe alla necessità che il giudice rispetti i termini per il deposito dei provvedimenti, anche qualora questi scadano nel periodo di sospensione feriale e nel corso del periodo di congedo ordinario. Il magistrato sarebbe, dunque, tenuto, come nel passato, a prestare la propria attività lavorativa anche durante il periodo di congedo ordinario, non potendo sottrarsi all’obbligo di predisporre e depositare gli atti i cui termini scadano nel corso delle proprie ferie».
[13] Corte costituzionale 6-7 novembre 2018, n. 229, che ha dichiarato che non spettava al Governo della Repubblica adottare la norma, nella parte in cui prevede che «[e]ntro il medesimo termine, al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale», e conseguentemente annullava tale disposizione nella parte indicata. Il ricorso è stato giudicato «fondato, essendo stata lesa la sfera di attribuzioni costituzionali del ricorrente delineata dall’articolo 109 della Costituzione. Nel presente caso, le peculiarità della disposizione oggetto di conflitto pongono innanzitutto in discussione la diretta dipendenza funzionale della Polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria. L’articolo 18, comma 5, del d.lgs n. 177 del 2016 prevede infatti, in capo alla Polizia giudiziaria, obblighi informativi in deroga al segreto investigativo in favore di soggetti, estranei al perimetro della Polizia giudiziaria stessa, che si identificano nei superiori gerarchici dei responsabili dei presidi di polizia di volta in volta interessati. Proprio questo aspetto pone in tensione il principio delineato dall’articolo 109 della Costituzione, con assorbimento, invece, delle censure relative all’asserita lesione dell’articolo 112 della Costituzione»: § 4 del Considerato in diritto della sentenza cit.
[14] G. Arconzo, Contributo allo studio sulla funzione legislativa provvedimentale, cit., pp. 201-211.
[15] È evidente che le due procedure non sono esattamente fungibili, perché occorre trovare un atto amministrativo esecutivo della legge-provvedimento da impugnare e, poi, un giudice disposto a sollevare la questione di legittimità costituzionale, nella forma dell’incidente di costituzionalità.
[16] Per la quale v. anche la sentenza n. 209 del 2010, § 5.1 del Considerato in diritto.
[17] E. del Prato, Ragionevolezza, retroattività, sopravvenienza: la legge attraverso le categorie del contratto, in Giurisprudenza italiana, gennaio 2014, pp. 26-30.
[18] A ben vedere, le statuizioni di Strasburgo affidano l’effettiva protezione dei diritti anche ad un elevato standard di qualità della legge, tale da offrire al cittadino sufficiente chiarezza sulle circostanze e le condizioni in cui un suo diritto potrebbe essere sacrificato (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 25 giugno 1997, caso Halford, § 49). Ma, soprattutto, tale standard prevede (in conformità coll’articolo 13 della Convenzione europea) che si assicuri l’effettività della tutela, a prescindere dal fatto che la violazione sia stata compiuta da chi agisca investito di pubblico potere (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 4 maggio 2000, caso Rotaru, § 64).
[19] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Sez. II 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia. Tale orientamento trova i suoi precedenti nei casi Scanner de L’Ouest Lyonnais e altri contro Francia del 21 giugno del 2007, Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis contro Grecia del 9 dicembre 1994, e Zielinski e altri contro Francia, del 28 ottobre 1999, che censurano la prassi di interventi legislativi sopravvenuti, che modifichino retroattivamente in senso sfavorevole per gli interessati le disposizioni di legge attributive di diritti, la cui lesione abbia dato luogo ad azioni giudiziarie ancora pendenti all’epoca della modifica.Nel caso Zielinski e altri contro Francia, in particolare (come prima nel caso Papageorgiou contro Grecia, sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 22 ottobre 1997), si è riaffermato il principio che nega ogni indebita interferenza del legislatore, fatta salva la sussistenza di «motivi imperativi di interesse generale».
[20] «Questa prassi può essere suscettibile di comportare una violazione dell’art. 6 della Cedu, risolvendosi in un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’amministrazione della giustizia. (...) Ciò posto, occorre rilevare che la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non contrari all’articolo 6 della Convenzione europea particolari interventi retroattivi dei legislatori nazionali. La legittimità di simili interventi è stata riconosciuta, in primo luogo, allorché ricorrevano ragioni storiche epocali, come nel caso della riunificazione tedesca (caso Forrer-Niederthal contro Germania, sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 20 febbraio 2003). (...) In altri casi, nel definire e verificare la sussistenza o meno dei motivi imperativi d’interesse generale, la Corte di Strasburgo ha ritenuto legittimo l’intervento del legislatore che, per porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata, aveva inteso con la legge retroattiva ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore" (Corte costituzionale, sentenza n. 93 del 2010).
[21] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 27 maggio 2004, Ogis Institut Stanislas contro Francia; 26 ottobre 1997, Papageorgiou contro Grecia; 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society contro Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del nord.
[22] Ne è derivato che – sia per violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione, sia per violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 6 della Cedu – la citata sentenza 1-4 luglio 2013, n. 170 ha caducato una normativa che, ampliando il novero dei crediti erariali assistiti dal privilegio nell’ambito delle procedure fallimentari, regolava rapporti di natura privata tra creditori concorrenti di uno stesso debitore, con effetti retroattivi, fino ad influire sullo stato passivo esecutivo già divenuto definitivo, superando così anche il limite del giudicato “endo-fallimentare”.
[23] A partire dalla sentenza 22 gennaio 1957, n. 28 la Corte costituzionale ha chiarito che il rispetto del potere discrezionale del legislatore presuppone che «le norme siano dettate per categorie di destinatari e non ad personam». Nella sentenza 22-29 maggio 2013 n. 103, la Corte costituzionale – in riferimento alle norme retroattive, anche di interpretazione autentica – prosegue lungo questa strada, censurando quelle in cui la retroattività non trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale».
[24] La sentenza 9 aprile-9 maggio 2013, n. 85 cita, come precedente, la sentenza n. 94 del 2009, conforme a sentenza n. 374 del 2000.
[25] La Corte costituzionale punta sul passaggio in giudicato della pronuncia giurisdizionale come limite invalicabile per qualsivoglia "ingerenza" legislativa sulla causa petendi, soprattutto se la avviene con l’emanazione di norme retroattive o comunque – pur se non configurate come retroattive in senso tecnico – applicabili alle disposizioni idonee a travolgere provvedimenti giurisdizionali definitivi (sentenza n. 364/2007); ciò perché, se vi fosse un’incidenza sul giudicato, la legge lederebbe i principi relativi ai rapporti tra poteri e le disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (sentenze nn. 282/2005, 525 del 2000, 374 del 2000 e 15 del 1995). La giurisprudenza della Corte Edu ha invece fatto ricorso alle «impellenti ragioni di interesse pubblico» per eccettuare alcuni limitati casi all’operatività della regola secondo cui il principio dello stato di diritto e la nozione di giusto processo custoditi nell’articolo 6 della Cedu precludono l’interferenza dell’Assemblea legislativa nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia» (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. II, sentenza 14 dicembre 2012, Arras contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia; 21 giugno 2007, Scanner de L’Ouest Lyonnais e altri contro Francia). Quanto alla Corte di giustizia dell’Unione europea, essa si soddisfa nel richiedere che contro tutti gli atti, anche aventi natura legislativa, «gli Stati devono prevedere la possibilità di accesso a una procedura di ricorso dinanzi a un organo giurisdizionale o ad altro organo indipendente ed imparziale istituito dalla legge» (sentenza 16 febbraio 2012, in causa C-182/10, Solvay ed altri contro Région wallone).
[26] Il caveat del 2013 sono qui puntualmente riscontrabili come disattesi. Quando la sentenza n. 85 dichiarò che «nessuna delle norme qui censurate è idonea ad incidere, direttamente o indirettamente, sull’accertamento delle predette responsabilità, e che spetta naturalmente all’autorità giudiziaria, all’esito di un giusto processo, l’eventuale applicazione delle sanzioni previste dalla legge» (§ 8), la Corte costituzionale offrì pure una panoramica exempli gratia di ciò che invece avrebbe fatto scattare l’incostituzionalità di una legge provvedimento: disposizioni che cancellassero una fattispecie incriminatrice o ne attenuassero le pene; disposizioni che contenessero «norme interpretative e/o retroattive in grado di influire in qualsiasi modo sull’esito del procedimento penale in corso, come invece si è verificato nella maggior parte dei casi, di cui si sono dovute occupare la Corte costituzionale italiana e la Corte di Strasburgo nelle numerose pronunce risolutive di dubbi di legittimità riguardanti leggi produttive di effetti sulla definizione di processi in corso» (§ 12.5). Tutti casi, questi, che entrano a piedi uniti in un processo (spesso penale) in corso per alterarne l’esito.
[27] Corte europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, sentenza 24 gennaio 2019, ric. nn. 54414/13 e 54264/15, Cordella ed altri contro Italia.
[28] Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 28 luglio 1999, Selmouni contro Francia [GC], n. 25803/94, § 74, CEDH 1999-V: le disposizioni dell’articolo 35 della Convenzione prescrivono che i ricorsi interni siano inerenti alle violazioni lamentate, che siano disponibili e che siano adeguati; essi devono rivestire un grado sufficiente di certezza non soltanto in teoria ma anche in pratica, perché in caso contrario mancherebbero dell’effettività e dell’accessibilità necessarie. Per i precedenti in cui la Corte non ha ritenuto esigibile il rispetto della regola del previo esaurimento dei ricorsi interni, quando s’è dimostrato che l’esercizio di un ricorso era manifestamente sprovvisto di chances di successo, cfr. sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 16 settembre 1996, Akdivar ed altri cit., p. 1210, § 66, e sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 19 febbraio 1998, Dalia contro Francia, in Recueil cit., 1998-I, pp. 87-88, § 38.
[29] XVI legislatura, Camera dei deputati, Assemblea, 16 aprile 2010, resoconto stenografico, p. 63.
[30] Lo sfondamento, ovviamente, può aver luogo anche ad iniziativa parlamentare, con emendamenti aggiunti in sede di conversione di un decreto che "alza la palla". Non pare avvedersene L. Buffoni, La ‘validità’ della legge scientifica nel caso stamina, in Giurisprudenza costituzionale, fasc.4, 2015, p. 1548, secondo cui «il dl. n. 24 del 2013 è legge-protocollo ove impone il rispetto delle ‘leges artis’; è legge-manifesto ove decide direttamente l’applicazione del metodo Stamina», che, in realtà, fu oggetto del comma 2-bis dell’articolo 2 della legge di conversione n. 57 del 2013.
[31] Come già avvenuto nella sentenza n. 128 del 2008, anche nella sentenza n. 103 del 2013 la Corte si vale degli atti parlamentari per confutare le difese del Governo: «una tale finalità della disposizione censurata non emerge né dai lavori parlamentari, né dal suo intrinseco contenuto normativo», scrisse in proposito la Corte, che quindi ascrive un valore indiziario anche ad atti preparatori da cui emerga ictu oculi una natura provvedimentale.
[32] XVI legislatura, Senato della Repubblica, Servizio studi, Dossier n. 302, p. 28: in ordine all’articolo 3, comma 1 dell’Atto Senato n. 2824 si segnala che «la clausola "di natura non regolamentare" riferita agli emanandi decreti è volta, nella sostanza, a escludere l’applicazione dell’articolo 17, comma 4, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che reca la procedura per l’approvazione dei Regolamenti (prevedendo fra l’altro il parere del Consiglio di Stato) e, qualora il contenuto dei decreti da emanare abbia natura sostanzialmente normativa, si configura come tacita deroga alla citata norma della legge n. 400». Idem, nella stessa legislatura e nello stesso ramo del Parlamento, ex multis Servizio Studi - Scheda di lettura n. 380 (Atto Senato n. 3382); Servizio Studi – Dossier n. 363 (Atto Senato n. 3305); Servizio Studi - Scheda di lettura n. 381/3 e 381/4(Atto Senato n. 3426). Nella successiva legislatura, cfr. tra l’altro Servizio Studi – Dossier n. 209 (Atto Senato. n. 1328-A), ove si aggiunge: «quando il rinvio a decreti di natura non regolamentare è stato oggetto di esame da parte della Corte costituzionale (sentenza n. 116 del 2006), essa lo qualificò come “un atto statale dalla indefinibile natura giuridica”». Più recentemente, il Consiglio di Stato in adunanza plenaria, con decisione 4 maggio 2012, n. 9, ha osservato che: «deve rilevarsi che, nonostante la crescente diffusione di quel fenomeno efficacemente descritto in termini di “fuga dal regolamento” (che si manifesta, talvolta anche in base ad esplicite indicazioni legislative, tramite l’adozione di atti normativi secondari che si autoqualificano in termini non regolamentari) deve, in linea di principio, escludersi che il potere normativo dei Ministri e, più in generale, del Governo possa esercitarsi medianti atti “atipici”, di natura non regolamentare».
[33] XVI legislatura, Senato della Repubblica, Servizio studi, Dossier di illustrazione del decreto-legge 31 marzo 2011, n. 34 segnalava che l’articolo 5 (Sospensione dell’efficacia di disposizioni del decreto legislativo n. 31 del 2010) agiva in sovrapposizione con l’Atto del Governo n. 333 della medesima legislatura (giudicato peraltro non collimante con le Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi, § 3 lettera d) della circolare del presidente del Senato 20 aprile 2001) ed evidenziava che «stante il comunicato del 23 marzo 2011 della presidenza del Consiglio dei ministri, "anche tali nuove disposizioni non troveranno applicazione prima della scadenza della predetta moratoria"; è quindi presumibile che la disciplina della loro entrata in vigore si coordinerà con la tempistica della conversione del decreto-legge in commento, per evitare che la lex posterior frustri almeno parzialmente lo scopo dell’articolo 5».
[34] Tra le Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi, di cui alla circolare del presidente del Senato 20 aprile 2001, ad esempio, vi è il § 3 lettera d): «Occorre inserire correttamente eventuali termini per l’adozione di atti previsti da una «novella»: infatti l’espressione “dalla data di entrata in vigore della presente legge (o del presente decreto)”, inserita nella “novella”, comporta la decorrenza dalla data di entrata in vigore dell’atto modificato. Pertanto, ove si intenda far decorrere il termine dalla data di entrata in vigore dell’atto modificante, occorre inserirlo in autonoma disposizione posta fuori della “novella”». Eppure, il legislatore tende ad aggirare tale precetto utilizzando il termine "presente disposizione" per una decorrenza che gioca sulla sofistica differenza tra norma, interna alla novella, e disposizione, recante la medesima e perciò ad essa concettualmente esterna.
[35] Ex multis si segnala il parere del Comitato per la legislazione della Camera dei deputati della XVI legislatura, che in sede di parere sul disegno di legge n. 3324 di conversione di un decreto-legge, ne rilevava (oltre all’eterogeneità) il fatto che «interviene, in numerosissimi casi, a posporre l’efficacia ovvero ad integrare e modificare disposizioni adottate in tempi recentissimi, sia con il decreto-legge collegato alla manovra finanziaria del 1o ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2007, n. 222, che con la stessa legge finanziaria per il 2008 (n. 244 del 2007); la circostanza che, nella maggior parte dei casi, si interviene sul testo di quest’ultima legge senza procedere ad un’espressa modificazione del testo appare una modalità di produzione del diritto non rispondente ad esigenze di chiarezza, di certezza del diritto e di semplificazione dell’ordinamento vigente, anche in considerazione del fatto che tali modifiche implicite vengono apportate su una disciplina pubblicata in Gazzetta Ufficiale anteriormente al presente decreto ma entrata in vigore successivamente».
[36] Come potrebbero essere quelle che legittimano la Ragioneria generale dello Stato a non ascrivere valore di autorizzazione di spesa ad una norma sostanziale. V. in proposito XVII legislatura, Senato della Repubblica, Servizio studi, Dossier n. 156, pp. 178-179: all’articolo 13 dell’Atto Senato n. 1563 «il comma 3 specifica che dall’attuazione delle disposizioni contenute nell’articolo in esame non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Sul punto la Camera dei deputati ha apportato l’unica modificazione al testo dell’articolo, sottolineando la natura imperativa della prescrizione con l’uso del verbo "dovere"». La circolare dei presidenti delle Camere 20 aprile 2001, recante Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi, al capitolo 4 lettera c) prescrive: «È evitato l’uso del verbo servile diretto a sottolineare la imperatività della norma («deve»; «ha l’obbligo di»; «è tenuto a»)». La regola, disattesa con una certa frequenza dai pareri delle Commissioni bilancio, si ricava anche dalla circolare della presidenza del Consiglio dei ministri del 2 maggio 2001 (Circolare n. 1/1.1.26/10888/9.92, recante «Guida alla redazione dei testi normativi», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 101 del 3 maggio 2001, S.O. n. 105), che sul punto era riproduttiva degli atti precedentemente emanati in materia di drafting legislativo (v. le circolari delle presidenze delle Camere del 28 febbraio 1986 e di quella in identico testo della presidenza del Consiglio dei ministri del 25 febbraio 1986, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 123 del 29 maggio 1986, S.O. n. 40). Peraltro, va notata la peculiarità di questo tipo di clausola che, come tutte quelle che attengono alla copertura finanziaria, assume un valore assimilabile a quello delle "leggi meramente formali" (es. bilancio, rendiconto, autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali), alle quali la disciplina dettata per la redazione dei testi aventi valore propriamente normativo non appare perfettamente trasponibile.
[37] Art. 14, co. 2-bis, di cui il comma 7-bis dell’articolo 22, comma 7, del decreto-legge n. 50 del 2017.
[38] Segnatamente: sentenze Tar Lazio n. 6170/2017 e n. 6171/2017, pubblicate il 24 maggio 2017; le ordinanze n. 2471 e n. 2472 del 15 giugno 2017, del Consiglio di Stato, VI Sezione.
[39] XVII legislatura, Senato della Repubblica, Servizio studi, Dossier n. 169.
[40] § 29 della sentenza del 1° luglio 2014 della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha anche rilevato che l’intervento del legislatore si era verificato in un momento in cui era pendente un procedimento giudiziario in cui lo Stato era parte (§ 30). Vengono anche citate, per quanto riguarda l’Italia, le sentenze Corte europea dei diritti dell’uomo, 11 dicembre 2012, De Rosa contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati contro Italia; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; 10 giugno 2008, Bortesi contro Italia; Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino contro Italia.
[41] Sul punto si può ricordare Corte cost. n. 14 del 1964 nella quale la Corte evidenziò come «non è necessario che l’atto legislativo sia motivato, recando la legge in sé, nel sistema che costituisce, nel contenuto e nel carattere dei suoi comandi, la giustificazione e le ragioni della propria apparizione nel mondo del diritto».
[42] V. la lettera del Capo dello Stato, inviata il 3 ottobre 2018 al presidente del Consiglio in sede di controfirma del decreto-legge n. 113 del 2018.
[43] Secondo V. Lippolis, G. M. Salerno, La presidenza più lunga, Il Mulino, Bologna, 2016, pp. 139-140 il messaggio del Capo dello Stato sull’eterogeneità del decreto legge detto «salva Roma», n. 126/2013, fu inviato il 27 dicembre 2013 sotto forma di «lettera al presidente del Senato Grasso e a quello della Camera Boldrini (secondo quanto risulta dal sito del Quirinale, mentre la lettera sarebbe stata inviata anche al presidente del Consiglio, secondo il resoconto parlamentare della seduta della Camera ove il documento medesimo è stato letto dalla presidente Boldrini)».
[44] M. D’Auria, Informazione e consensi nella procreazione assistita, in Familia, fasc.6, 2005, p. 1005.
[45] V. la stroncatura con cui la sentenza n. 200/2012 cit. liquida l’inutile ritirata della difesa erariale: «la “soppressione” di norme "per incompatibilità con principi così ampi e generali come quelli enunciati all’articolo 3, comma 1, e che richiedono una delicata opera di bilanciamento e ponderazione reciproca, a parte ogni considerazione sulla sua praticabilità in concreto, non appare suscettibile di esplicare effetti confinati ai soli ambiti di competenza statale» (§ 8.2).
[46] Spesso anche a dispetto della possibilità che questa si esprima con strumenti di democrazia diretta, possibilità tutelata proprio da organi "non eletti" di tipo lato sensu giurisdizionale: si ricordano, in proposito, gli interventi di trasposizione del quesito sul ius superveniens, decisivi per lo svolgimento del referendum, compiuti dall’Ufficio centrale della Cassazione sul nucleare nel 2011 e sulle trivelle nel 2016 (di cui la Corte costituzionale ha preso atto rispettivamente nelle sentenze n. 174/2011 e n. 17/2016); per l’intera vicenda, v. G. Buonomo, Il referendum sulla durata della concessione di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi entro le 12 miglia dalla linea costiera, in Diritto pubblico europeo rassegna online, marzo 2016.
[47] Per la quale v. A. La Spina, La decisione legislativa, Giuffrè, Milano, 1989, pp. 289 ss.
[48] La medesima che esprime «l’ipocrisia, propria di chi detta norme che non potranno mai funzionare. Il legislatore si illude, o finge di ritenere, che i problemi si risolvano con un tratto di penna, senza preoccuparsi dell’impatto delle norme, della capacità delle amministrazioni di applicare le leggi, delle reazioni dei cittadini. Fatta la legge, il ministro di turno potrà rilasciare dichiarazioni e interviste, nelle quali si vanterà di aver risolto il problema, mentre avrà solo alimentato l’incertezza del diritto e aggiunto ancora una “legge manifesto” destinata a rimanere inapplicata»: B.G. Mattarella, La trappola delle leggi. Molte, oscure, complicate, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 42 (sottolineatura aggiunta).