Populismo e informazione.
Intervista a Maurizio Molinari
Il suo recente volume, Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa, è stato scritto, come Lei dice nell’introduzione, «on the road», viaggiando in lungo ed in largo sul territorio nazionale. Èun libro quindi scritto a partire dalla percezione del Paese reale ancor prima del suo ceto politico. Si può affermare, sulla base del suo viaggio in Italia, che ancor prima dell’apparizione di un ceto politico di segno populistico, sia l’epoca in cui viviamo ad avere i caratteri del populismo? Lei si chiede come sia possibile che proposte legislative anti-costituzionali trovino spazio nel dibattito pubblico e si diffondano a macchia d’olio nella popolazione e lo imputa ad una carenza di memoria nazionale sulle devastazioni che il nazifascismo ha arrecato al nostro Paese: più in profondità, è possibile affermare che l’estremismo del vertice politico sia non solo causa, ma anche e soprattutto effetto dell’estremismo che tende a diffondersi nella società?
L’estremismo, che sia presente o meno in politica, è frutto di una stagione nella quale i problemi aggrediscono il ceto medio e sono di dimensioni tali da rendere difficile per la leadership politica la loro gestione. Le diseguaglianze economiche, l’integrazione dei migranti e la lotta alla corruzione, che sono le tre cause chiare del populismo in Italia, hanno dimensioni tali e richiedono soluzioni così vaste, che i partiti tradizionali non vi rispondono e i partiti della protesta si limitano ad offrire soluzioni che sono tali nella narrativa ma non nell’efficacia e questo crea una dinamica che tende all’estremismo perché nell’assenza della elaborazione delle soluzioni vere alle questioni delle diseguaglianze, dei migranti e della corruzione, ciò che i populisti fanno semplicemente è identificare degli avversari: per le diseguaglianze la globalizzazione, per gli emigranti gli stranieri, per la corruzione la casta. La dinamica è contro gli avversari e non a favore di soluzioni e quindi tende all’estremismo.
Alla base del fenomeno populistico, non solo italiano, lei individua il tema della rivolta del ceto medio, colpito al cuore da tre grandi questioni cui la politica sarebbe rimasta inadempiente: diseguaglianze sociali, migrazioni e corruzione. È innegabile che stiamo vivendo, come lei scrive, la prima grande sollevazione del ceto medio del XXI secolo. Il ceto medio, che a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso aveva occupato gran parte della composizione sociale all’insegna di un benessere generalizzato, si è stratificato e frammentato sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico in una crescente pluralità di segmenti sociali, che vivono in condizioni assai lontane da quella che gli analisti una volta chiamavano società opulenta. Non si assiste però solo ad un mutamento della geografia sociale. Progressivamente a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso sono arrivate ad un punto di esaurimento le culture politiche che hanno dominato la scena nella seconda metà del Novecento. Quelle culture, attraverso la forma-partito politico, si erano date un grande compito: formare il popolo, dargli un’ossatura politica. Possiamo rovesciare il paradigma ed affermare che il fallimento principale della politica non risiede tanto nell’incapacità di rispondere alle nuove questioni sociali, che per il loro carattere inedito e per la loro potenza rappresentano un ostacolo obiettivo ed una sfida temibile per qualsiasi agire politico, quanto nell’incapacità di formare il popolo, di diffondere una coscienza politica circa la complessità del presente? In una parola, nell’incapacità di prevenire la spoliticizzazione della società?
Non sono d’accordo. Il punto vero è che le tre questioni che noi abbiamo davanti sono questioni reali, che hanno a che vedere con la trasformazione delle democrazie in Occidente. La democrazia cresce e si sviluppa affrontando i pericoli, i rischi, gli ostacoli che via via la storia le frappone. La sfida per la democrazia è trovare sempre delle soluzioni. Il problema non è la politicizzazione o non politicizzazione dei singoli, il problema è che questi problemi sono reali e che le democrazie devono affrontarli. Non c’è nessun dubbio che la globalizzazione ha creato degli squilibri sociali con la rilocalizzazione delle aziende, la competizione al ribasso dei mercati locali e la polverizzazione dei lavori nelle manifatture. Di fronte a questo la classe media ha bisogno di nuove protezioni, ha bisogno di un nuovo Stato sociale. Il punto è che un nuovo Stato sociale per il ceto medio significa ridefinire, ridisegnare l’uso delle risorse dello Stato, delle finanze pubbliche, ed è una sfida esattamente come quella dell’arrivo di un numero consistente di migranti, la quale implica per i Paesi europei seguire le democrazie anglosassoni nella definizione di un nuovo patto sociale tra chi arriva e chi accoglie. E sono sfide epocali. Per questo le democrazie sono impreparate ma per questo quelle sfide devono essere affrontate. I leader delle nuove generazioni saranno coloro che si faranno portavoci delle risposte più efficaci e che si dimostreranno in grado di rendere il tessuto democratico più stabile. Fino a quando tali risposte mancheranno, saranno invece i populisti a prevalere.
Depoliticizzazione della società e diffusione di movimenti populistici rinviano al cosiddetto fenomeno della disintermediazione: il rapporto fra cittadino e potere non è più mediato da corpi intermedi e l’individuo è lasciato solo a se stesso. L’informazione, soprattutto la carta stampata tradizionale, è stata uno di questi corpi intermedi? Che ruolo ha svolto l’informazione nell’intermediazione sociale? In quali termini l’informazione è ancora agente di intermediazione fra cittadino e potere?
Non c’è dubbio che nella sfida all’intermediazione e alla rappresentanza dopo il Parlamento, dopo i partiti ed i sindacati, i populisti arrivino ad affrontare il nodo dei giornali, dei media, perché il giornalista di per sé è un intermedario. Il punto è che la società democratica si è sviluppata nel Novecento, dall’indomani della rivoluzione industriale, nel segno della sua diversificazione interna attorno ai corpi intermedi. L’evoluzione digitale consente ai movimenti populisti di poter ambire a una sorta di democrazia diretta anche sul fonte dell’informazione, cioè una persona parla e improvvisamente può essere ascoltata da un miliardo di persone. Il punto però è che le fake news dimostrano come nell’assenza di regole si moltiplichinono le falsità, le bugie e anche le informazioni destinate a recare danni fisici alle persone. Da qui la necessità di una correzione. Quanto sta avvenendo nella società americana in merito alla correzione del comportamento dell’opinione pubblica ci lascia comprendere la capacità del mercato di correggersi. Nella misura in cui le fake news minacciano la sicurezza dei singoli, cosa succede? I singoli utenti iniziano a pagare in quantità sempre maggiori le informazioni e quindi noi oggi abbiamo grandi giornali come il Washington Post o il New York Times, dove per una parte strategica i bilanci sono sostenuti da lettori che pagano. Il mercato dunque si corregge. La democrazia diretta porta alle fake news e dunque in ultima istanza proprio sul fronte dell’informazione ci può essere la reazione all’eccesso di democrazia diretta.
Fra le tante cose che il Novecento ci lascia in eredità vi è il primato del linguaggio comunicativo e della comunicazione in generale. La tecnologia digitale rappresenta un fattore di straordinario potenziamento della primazia del momento della comunicazione. Come cambia l’informazione nell’epoca del dominio della comunicazione e del digitale? Quali sono i rischi per l’informazione, al di là del tema, che ormai connota la nostra quotidianità, delle fake news? Come può l’informazione formare ed accrescere la consapevolezza del proprio pubblico in un tempo in cui tutto è comunicazione?
Come ho appena detto, la chiave è che le fake news mettono a rischio i diritti digitali. Come vengono difesi i diritti digitali? I diritti digitali si difendono con l’informazione pagata dagli utenti, cioè gli utenti per difendersi dalle fake news scelgono la informazione di qualità e scelgono l’informazione di qualità pagando.
Il populismo contemporaneo si alimenta fortemente della miscela di linguaggio comunicativo e tecnologia digitale. Si può anzi affermare che populismo e comunicazione digitale siano in una relazione di reciproco potenziamento. Come si va delineando in generale il terreno dei rapporti fra questa nuova tendenza ed il mondo dell’informazione?
Torno su quanto appena detto. Il populismo si nutre della rivoluzione digitale e ciò avverrà fino a quando la rivoluzione digitale non entrerà nella fase della protezione dei diritti digitali, ovvero della presenza di regole che tutelino i singoli quando interagiscono con il mondo digitale. Anche la rivoluzione industriale quando inizia vede i singoli non protetti e poi nell’arco di uno, due generazioni c’è la protezione con i diritti dei lavoratori. Siamo nella rivoluzione digitale, la rivoluzione digitale comporta i diritti digitali. Quando i diritti saranno creati, declinati e applicati le fake news saranno abbattute e non ci sarà più terreno per i populisti, ma è una fase di trasformazione che dal punto di vista normativo deve essere creata. Ripeto, siamo in una fase in cui noi abbiamo bisogno di nuovi concetti, nuove istituzioni, nuove idee. La democrazia ha bisogno di adattarsi alla sfida delle comunicazioni digitali per poter fronteggiare la sfida del populismo.
Se ci avviciniamo al tema del populismo dal punto di vista del costituzionalismo la grande questione che viene in primo piano è quella dei diritti fondamentali che devono restare intangibili e dei limiti del potere politico. In quali termini anche il diritto dell’informazione, e il diritto all’informazione, diventano un limite da opporre al potere in un’epoca dai tratti populistici?
I diritti per essere declinati nella stagione digitale devono essere reinterpretati. Alan Dershowitz lo dice benissimo nel suo libro Rights From Wrongs. Egli ci spiega in maniera chiara che quando c’è un reato importante, un grande crimine, la società democratica risponde creando diritto. Noi siamo in una fase nella quale i diritti di proprietà, i diritti della sicurezza personale, i diritti della produzione intellettuale, non vengono protetti sul web. Abbiamo dunque bisogno di declinare il nostro Stato di diritto nella realtà digitale, di incrociare le nuove piattaforme con i contenuti che già disponiamo. Esattamente come i giornali stanno tentando di trasferire i contenuti nella realtà digitale, così bisogna fare sul fronte del diritto e del rispetto delle garanzie. È una sfida temibile, ma è la sfida della nostra generazione.
Il tema dell’oggi è sicuramente quello della risposta alle grandi questioni sociali da cui siamo partiti, le nuove povertà ed il gigantesco irrompere dell’immigrazione, ma anche quello di un ritorno della società alla politica quale sentimento di appartenenza ad una comunità e consapevolezza diffusa della complessità del presente. Come può l’informazione contribuire per un verso ad una fuoriuscita dalla dimensione impolitica del rancore, del risentimento e della disgregazione e per l’altro al ritrovamento di un senso dello stare insieme?
Non c’è nessuno dubbio che bisogna ritrovare uno spirito di comunità, io direi che bisogna non ritrovare ma creare, riportare nel mondo digitale la capacità di operare assieme. È molto interessante che non quest’anno ma l’anno precedente a Davos Jack Ma, Ceo di Alibaba, sia partito nel suo intervento dal seguente interrogativo: come possono i nostri figli vincere la competizione dei robot? Egli si è chiesto: che cosa devono studiare i nostri figli per poter avere successo nella competizione con i robot? Come ha risposto Jack Ma? Il segreto non è insegnare loro numeri, geometrie e dati, perché i robot saranno sempre più efficaci. Quello che invece i nostri figli potranno fare, che è la vera differenza tra esseri umani e robot, è il teamwork, la capacità di lavorare assieme, la creatività. Questo è l’elemento chiave: stare assieme, essere creativi, rispettarsi l’uno l’altro, ciò che rende gli essere umani superiori ai robot è questa dimensione comunitaria. Il punto vero è che bisogna trasferire queste competenze, queste cognizioni, nella realtà digitale per consentire a tutti di prendervi parte. Quindi serve un nuovo corpo di regole, serve un nuovo corpo di diritti, servono i diritti digitali. La sfida della nostra generazione è trasformare gli elementi di fondo dello Stato di diritto nel corpo dei diritti digitali, rendendoli capaci di essere condivisi da ogni singolo cittadino. Certo, è una sfida difficile perché non è chiaro chi lo farà, in quale spazio verrà fatto, quale autorità sarà in grado di farlo. Però attenzione perché la discussione che è iniziata al Parlamento europeo sulla protezione dei diritti digitali sta andando avanti, ha trovato dei voti favorevoli e può diventare un terreno di compromesso fra i due modelli alternativi che in questo momento abbiamo a disposizione, da una parte le grandi corporation che dispongono della maggioranza dei dati scambiati dai cittadini negli Stati Uniti, dall’altra il modello cinese, dove l’unico Stato dispone dei dati di tutti i cittadini. Guardando al modello iperstatale dei cinesi in cui uno Stato possiede tutti i dati di un miliardo e quattrocento milioni di persone, al modello americano, con cinque o sei grandi corporation della West Coast che possiedono la rete, e al modello europeo della protezione dei diritti dei cittadini come via mediana tra i due grandi competitori globali in questo momento, comprendiamo che la sfida più temibile e avvincente per la nostra generazione è già iniziata e soprattutto può essere vinta.