Il populismo penale nell’età dei populismi politici
1. Il nesso funzionale tra populismo penale e populismo politico
La questione penale è sempre più centrale nei nostri sistemi politici. Non si tratta di un fenomeno nuovo. Da molti anni l’uso demagogico e congiunturale del diritto penale, diretto a riflettere e ad alimentare la paura quale fonte di consenso elettorale tramite politiche e misure illiberali tanto inefficaci alla prevenzione della criminalità quanto promotrici di un sistema penale disuguale e pesantemente lesivo dei diritti fondamentali – in breve il populismo penale – forma un tratto caratteristico delle nostre politiche securitarie. In questi ultimi mesi, tuttavia, tutti i tradizionali aspetti del populismo penale si sono fortemente accentuati perché si sono rivelati perfettamente funzionali al populismo politico oggi al governo del Paese. Per tre ragioni, tutte legate al nesso tra populismo penale e populismo politico e al connaturato antigarantismo di qualunque populismo.
La prima ragione è il consenso di massa ottenuto dalle politiche securitarie. L’Italia è uno dei Paesi più sicuri del mondo. In questi ultimi 20 anni si è prodotta una riduzione costante del numero dei delitti: 397 omicidi nel 2017, gran parte dei quali consistenti in femminicidi, rispetto alle molte migliaia degli anni passati: oltre 4.000 alla fine dell’Ottocento, più di 3800 negli anni Venti e quasi 2.000 negli anni Novanta del secolo scorso. Siamo anche in presenza di una riduzione delle violenze sessuali e perfino dei furti, benché si sia notevolmente ridotta la cifra nera delle une e degli altri. E tuttavia è aumentata l’insicurezza a causa della distanza crescente tra percezione e realtà. In passato la cronaca nera occupava le ultime pagine dei giornali. Oggi i telegiornali si aprono con l’ultimo omicidio o l’ultimo stupro. La percezione dell’insicurezza è insomma interamente una costruzione sociale, prodotta da quelle fabbriche della paura nelle quali si sono trasformati i media e in particolare la televisione. Se infatti tutti gli omicidi e tutti gli stupri vengono raccontati in televisione, se su di essi si svolgono dibattiti e inchieste giornalistiche, se poi i relativi processi vengono seguiti in tutte le loro fasi, si crea la sensazione che viviamo nella giungla. È precisamente questa paura e la conseguente richiesta di punizione che il populismo politico intende interpretare e prima ancora alimentare quale facile fonte di consenso.
La seconda ragione è il tendenziale colpevolismo dell’opinione pubblica. Le garanzie non fanno parte della cultura di massa e neppure del senso comune. Gli imputati, secondo l’opinione corrente, non si presumono innocenti, ma colpevoli. Il garantismo non fa parte del senso comune, che ha bisogno, purtroppo, di avventarsi immediatamente su capri espiatori. In breve, esso non è popolare e questo basta al populismo per rifiutarlo come un lusso da anime belle. Naturalmente siamo qui di fronte a un paradosso. Il garantismo non è solo un sistema di limiti e vincoli al potere punitivo, sia legislativo che giudiziario, a garanzia delle libertà delle persone da punizioni eccessive o arbitrarie. Esso è ancor prima un sistema di regole razionali che garantiscono, nella massima misura, l’accertamento plausibile della “verità processuale” e perciò la punizione dei veri colpevoli. Ma è precisamente questa razionalità che non viene accettata né capita da gran parte dell’opinione pubblica, che aspira al contrario alla giustizia sommaria, tendenzialmente al linciaggio dei sospetti. E anche questo è sufficiente al populismo per offrire rappresentanza a tale concezione e alla conseguente domanda di vendetta.
La terza ragione della funzionalità del populismo penale al populismo politico è la convergenza tra la tendenza di questo a definirsi sulla base dell’identificazione di nemici e il paradigma del diritto penale del nemico. Tutti i populismi hanno bisogno di legittimarsi attraverso un nemico o meglio attraverso più nemici: nemici interni che complottano e nemici esterni come la Francia o l’Unione europea o l’Onu; nemici in alto, rappresentati dalle élites, e nemici in basso rappresentati dai migranti e dai soggetti devianti; nemici identificati con i precedenti Governi e nemici consistenti nelle opposizioni. Auto-identificazione degli eletti con il popolo sovrano, aggressioni alle élites, razzismo, paura per i crimini di strada, intolleranza del dissenso, fastidio per il pluralismo sia politico che istituzionale, vittimismo permanente sono gli ingredienti di questa logica del nemico. È chiaro che i devianti e, prima ancora, gli indagati e gli imputati si rivelano come i nemici ideali. L’abbiamo visto con la spettacolarizzazione dell’arresto di Cesare Battisti, messo in scena come una gogna. Il populismo, del resto, non conosce cittadini ma solo amici e nemici. Concepisce la giustizia penale come una guerra contro il male e l’insicurezza come emergenza quotidiana che richiede di essere rappresentata, drammatizzata e spettacolarizzata. Alimenta ed interpreta il desiderio di vendetta su capri espiatori. Configura l’irrogazione di pene come nuova e principale domanda sociale e perfino come risposta a gran parte dei problemi politici.
2. Quattro differenze tra il populismo penale tradizionale e quello odierno
Ma l’uso populistico del penale non si limita alla sua accentuazione demagogica quale strumento per ottenere consenso. Non si tratta soltanto di una crescita quantitativa, ma anche di una sua mutazione qualitativa. Questa mutazione è legata al suo terreno privilegiato, oggi costituito dalle politiche contro i migranti – i differenti per antonomasia – che stanno mettendo in crisi tutti i principi della nostra democrazia.
Certamente questo Governo e, in particolare, il ministro dell’interno Salvini non hanno affatto inaugurato, ma hanno solo proseguito le politiche e le pratiche contro gli immigrati del precedente ministro Minniti e quelle degli altri Governi europei. Ci sono però quattro gravissime differenze qualitative nell’operato di questo Governo rispetto a quello dei Governi passati, tutte connesse all’approccio populistico alla questione dell’immigrazione e tutte corrispondenti ad altrettante perversioni del tradizionale populismo penale.
2.1. La prima differenza è il carattere criminogeno assunto oggi in Italia dalle leggi e dalle politiche governative in tema di sicurezza. Mi limito a ricordare due misure il cui effetto sarà quello di accrescere la devianza, la marginalità sociale e l’insicurezza.
La prima è il decreto cosiddetto “sicurezza” voluto dal ministro Salvini, che oltre alle solite misure punitive ha ridotto le forme di integrazione e soppresso di fatto il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ne sta seguendo l’espulsione dal sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e dai centri di accoglienza straordinaria (Cas) di decine di migliaia di migranti, gettati sulla strada come irregolari e destinati ad alimentare l’emarginazione sociale e la delinquenza a beneficio ulteriore della politica della paura. Si tratta di una misura disumana e crudele, stupidamente persecutoria, con la quale migliaia di persone perfettamente integrate nella società italiana vengono strappate dal loro mondo e trasformate in persone illegali e virtualmente devianti: giacché sempre le persone escluse dalla società civile sono esposte e disposte ad essere incluse nelle società incivili o illegali o peggio nelle organizzazioni criminali.
La seconda misura criminogena è la proposta di legge sull’estensione dei presupposti della legittima difesa. Nel testo approvato al Senato viene di fatto soppresso il requisito della proporzionalità tra difesa e offesa, semplicemente con l’aggiunta che in caso di violazione di domicilio tale requisito ricorre “sempre”, senza possibile valutazione da parte del giudice, e quindi anche nel caso di chi in casa propria spari per difendere i propri beni. L’inviolabilità del domicilio e dei beni viene così anteposta all’inviolabilità della vita umana. Ne risulterà inoltre l’aumento degli omicidi mediante la ragion fattasi, ma anche dei suicidi e degli infortuni dovuti all’uso di armi da fuoco. Basti pensare al numero attuale degli omicidi in Italia, dove nessuno va in giro armato, e al loro numero in America, dove tutti possono comprare armi: meno di 400 omicidi in un anno in Italia, come ho già ricordato, 66.000 in Brasile, circa 30.000 negli Stati Uniti e in Messico dove tutti si armano per paura. Non è azzardato prevedere che l’uso delle armi promosso da Salvini porterà anche da noi il numero delle morti violente ai livelli americani.
2.2. La seconda differenza delle attuali politiche con quelle del passato è ancor più inquietante. Consiste nel fatto che il consenso popolare viene perseguito, dagli odierni populismi, non soltanto nei confronti di misure punitive, ma anche nei confronti di politiche e di pratiche consistenti in aperte violazioni dei diritti umani delle persone e talora in veri e propri reati. Qui il populismo penale consiste nella ricerca del consenso non già facendo leva sulla paura per la criminalità di strada e inasprendo le pene, bensì ostentando politiche esse stesse illecite, consistenti in lesioni massicce dei diritti umani. Si pensi alla preordinata omissione di soccorso, alla chiusura dei porti e allo spettacolo penoso dapprima dell’Aquarius e della Diciotti e poi della Sea-Watch lasciate vagare in mare o impedite all’approdo con i loro carichi sofferenti di centinaia di persone, così private della libertà. Il ministro Salvini ha non solo commesso, ma ha anche rivendicato il reato di sequestro di persona contestatogli dalla Procura di Agrigento e per il quale è stata chiesta l’autorizzazione a procedere. Con la cosiddetta “chiusura dei porti” – misura informale equivalente di fatto a un provvedimento discriminatorio, perché adottato unicamente nei confronti delle navi recanti a bordo migranti – e più in generale con le diffide contro chi tenta di approdare in Italia, sono state inoltre violate una lunga serie di norme di diritto interno e di diritto internazionale: dalle norme penali sull’omissione di soccorso alla Convenzione di Amburgo del 1979 che impone di operare i salvataggi «nel modo più efficace possibile» portando i naufraghi in un *porto sicuro», al Testo Unico sull’immigrazione del 1998 che vieta i respingimenti di quanti intendono chiedere asilo, nonché dei minori non accompagnati e delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto, fino al principio elementare del diritto del mare, oltre che delle tradizioni marinare di tutti i Paesi civili, che chi rischia la vita in mare deve essere comunque salvato.
Ebbene, questo cumulo di illegalità sta provocando una catastrofe della quale l’Italia, l’Europa dovranno un giorno vergognarsi e saranno, dalla storia, chiamate a rispondere. Negli anni 2014-2016 centinaia di migliaia di persone furono salvate dalle navi della Marina militare italiana e della Guardia costiera, dalle navi delle Ong, le quali da sole hanno salvato ben 46.796 persone nel solo 2016, e dai mercantili di passaggio. Ma ora, a causa della preordinata omissione di soccorso decisa dal Governo con la chiusura dei porti, la strage continua in dimensioni ben maggiori. Poiché la Marina militare italiana viene tenuta a distanza, le navi delle Ong sono state allontanate e i mercantili di passaggio girano al largo per non perdere giorni di viaggio a causa dell’impossibilità di trasferire a terra i migranti salvati – altre migliaia di naufraghi resteranno senza soccorsi e moriranno affogati, ovviamente lontano dai nostri occhi e dalle nostre coscienze. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel 2018 ben 2.275 persone sono affogate nel Mediterraneo, e il tasso di mortalità, lungo la rotta Libia-Europa, che nel 2017 è stato di un decesso ogni 38 arrivi, è stato nel 2018 di un decesso ogni 14 arrivi. Inoltre l’85% dei migranti tratti in salvo nell’area di mare libica sono stati consegnati alla Libia dove sono stati incarcerati in condizioni spaventose. A causa dell’omissione di soccorso, lo scorso 18 gennaio sono affogati ben 117 migranti dei 120 naufraghi al largo della Libia, tra cui 10 donne e due bambini, uno dei quali di 10 mesi. Si è trattato di una strage, di cui questo Governo porta la responsabilità, dato che esso non solo non si è direttamente attivato, ma con la chiusura dei porti e l’allontanamento delle navi della nostra Marina e delle navi delle Ong ha di fatto impedito che altri prestassero soccorso a questi disperati. Non solo. Alla strage e poi all’inerzia si è aggiunta l’incredibile aggressione del ministro Salvini alle Ong, alle quali proprio Salvini aveva impedito i salvataggi: «Tornano in mare davanti alla Libia le navi delle Ong, gli scafisti tornano a fare affari e a uccidere e il cattivo sono io?». «La pacchia è finita … La mangiatoia è finita … Basta con il cinismo delle Ong».
Sono queste gigantesche omissioni di soccorso e soprattutto la loro aperta rivendicazione e ostentazione i tratti principali per i quali questo Governo cosiddetto “del cambiamento” passerà tristemente alla storia e che valgono a oscurare, per la loro drammatica immoralità e illegittimità, tutte le altre politiche governative. Non si tratta soltanto di politiche che alimentano il veleno razzista dell’intolleranza e del disprezzo per i diversi quale veicolo di facile consenso. Perseguire il consenso dell’elettorato tramite l’esibizione dell’illegalità equivale a deprimere la moralità corrente e ad alterare, nel senso comune, le basi del nostro Stato di diritto: non più la soggezione alla legge e alla Costituzione, ma il consenso elettorale quale fonte di legittimazione di qualunque arbitrio, persino se delittuoso.
2.3.Vengo così alla terza differenza delle politiche di questo Governo contro i migranti rispetto a quelle messe in atto dai Minniti e dai Macron e che semmai assimila Salvini al presidente americano Trump. Essa consiste nel fatto che la violazione dei diritti umani, mentre era occultata da Minniti, viene ora sbandierata come fonte di consenso. Di qui il veleno distruttivo immesso nella società italiana. Il ministro Salvini non si limita a interpretare la xenofobia, ma la alimenta e la amplifica, producendo due effetti distruttivi sui presupposti della democrazia.
Il primo effetto è l’abbassamento dello spirito pubblico e del senso morale nella cultura di massa. Quando l’indifferenza per le sofferenze e per i morti, la disumanità e l’immoralità di formule come «prima gli italiani» o «la pacchia è finita» a sostegno dell’omissione di soccorso sono praticate e ostentate dalle istituzioni, esse non soltanto sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano. Non capiremmo, senza questo ruolo performativo del senso morale svolto dall’esibizione dell’immoralità al vertice dello Stato, il consenso di massa di cui godettero il nazismo e il fascismo. Queste politiche crudeli stanno avvelenando e incattivendo la società, in Italia e in Europa. Stanno seminando la paura e l’odio per i diversi. Stanno logorando i legami sociali. Stanno screditando, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Stanno fascistizzando il senso comune. Stanno svalutando i normali sentimenti di umanità e solidarietà che formano il presupposto elementare della democrazia.
Stanno, infine, ricostruendo le basi ideologiche del razzismo; il quale, come scrisse lucidamente Michel Foucault, non è la causa ma l’effetto delle oppressioni e delle violazioni istituzionali dei diritti umani: la «condizione», egli scrisse, che consente l’«accettabilità della messa a morte» di una parte dell’umanità. In tanto, infatti, possiamo accettare che decine di migliaia di disperati vengano respinti ogni anno alle nostre frontiere, che vengano internati senza altra colpa che la loro fame e la loro disperazione, che affoghino nel tentativo di approdare nei nostri Paesi, in quanto questa accettazione sia sorretta dal razzismo. Non a caso il razzismo è un fenomeno moderno, sviluppatosi dopo la conquista del “nuovo” mondo, allorquando i rapporti con gli “altri” furono instaurati come rapporti di dominio e occorreva perciò giustificarli disumanizzando le vittime perché diverse e inferiori. Che è lo stesso riflesso circolare che in passato ha generato l’immagine sessista della donna e quella classista del proletario come inferiori, perché solo così se ne poteva giustificare l’oppressione, lo sfruttamento e la mancanza di diritti. Ricchezza, dominio e privilegio non si accontentano di prevaricare. Pretendono anche una qualche legittimazione sostanziale.
2.4. C’è poi un altro effetto, non meno grave, e una quarta differenza di queste politiche ostentatamente disumane rispetto al passato. Consiste nel mutamento da esse prodotto delle soggettività politiche e sociali: non più le vecchie soggettività di classe, basate sull’uguaglianza e su lotte comuni per comuni diritti, ma nuove soggettività politiche di tipo identitario – italiani contro migranti, prima gli italiani, come in Usa prima gli americani, noi contro gli stranieri, le identità nazionali l’una contro l’altra – basate sull’identificazione delle identità diverse come nemiche e sul capovolgimento delle lotte sociali: non più di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso, dei poveri contro i poverissimi e soprattutto dei cittadini contro i migranti, trasformati in nemici contro cui scaricare la rabbia e la disperazione generate dalla crescita delle disuguaglianze e della povertà.
Le politiche contro i migranti si coniugano così con le politiche antisociali che in questi anni hanno accresciuto la disoccupazione e il precariato nei rapporti di lavoro, provocando la disgregazione delle vecchie forme di soggettività politica collettiva basate sull’uguaglianza nei diritti e sulla solidarietà tra uguali. Espressioni come “movimento operaio” e “classe operaia”, “coscienza di classe” e “solidarietà di classe”, che per oltre un secolo sono state centrali nel lessico della sinistra, suppongono infatti l’uguaglianza dei lavoratori nelle condizioni di vita e nella titolarità dei diritti e la stabilità dei rapporti di lavoro e delle relazioni tra lavoratori. Oggi, a causa dei rapporti precari e mutevoli, perfino nelle grandi fabbriche i lavoratori neppure si conoscono tra loro. Quelle espressioni sono quindi andate fuori uso essendo venuta meno, con la precarietà e la moltiplicazione dei tipi di rapporto di lavoro, l’uguaglianza nei diritti, sicché i lavoratori, anziché solidarizzare in lotte comuni, sono costretti a entrare in competizione tra loro.
Questo mutamento di struttura della società, prodottosi in questi anni in Italia come in gran parte delle democrazie occidentali, è stato provocato da molti fattori. Ma io credo che il principale fattore siano state le politiche contro il lavoro: la crescente svalutazione del lavoro, la precarizzazione dei rapporti di lavoro e la loro arbitraria differenziazione, la distruzione dell’uguaglianza nei diritti e con essa della solidarietà di classe su cui si basavano la soggettività politica dei lavoratori e la forza delle lotte sociali. Si capisce come questo mutamento della struttura sociale abbia inciso profondamente sulle basi della democrazia. Le politiche antisociali di questi anni e, soprattutto, quelle che hanno demolito il diritto del lavoro generalizzando il precariato e introducendo la disuguaglianza e la competizione tra lavoratori, hanno alterato e distrutto le basi sociali del pluralismo politico e, in particolare, della sinistra.
Si spiega così la svolta reazionaria, non solo in Italia, avviata alla fine degli anni Settanta. Le lotte sociali della stagione sessantottesca avevano prodotto una lunga serie di riforme, tutte informate all’uguaglianza e alla garanzia dei diritti fondamentali: lo Statuto dei diritti dei lavoratori, il nuovo processo del lavoro, la riforma della scuola e dell’università, la riforma sanitaria, l’introduzione del divorzio, la depenalizzazione dell’aborto, la riforma dell’ordinamento penitenziario e le altre riforme garantiste in materia penale. Queste lotte sociali e le riforme da esse conquistate avevano minacciato uno spostamento di potere, nelle fabbriche e nella società, a favore dei lavoratori e dei ceti più deboli. Di qui, negli anni Ottanta e Novanta, il capovolgimento del rapporto tra politica ed economia, tra sfera pubblica e sfera privata e il primato dei poteri economici privati su quelli pubblici: una vera controrivoluzione, in risposta alle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta, che si è realizzata attraverso la lesione del principio di uguaglianza in entrambe le sue dimensioni – l’uguale valore delle differenze personali e la riduzione delle disuguaglianze materiali – e la conseguente trasformazione delle soggettività e dei conflitti sociali.
Stiamo infatti assistendo a un ribaltamento delle forme delle soggettività collettive: non più il rispetto e l’inclusione delle differenze e la lotta contro le disuguaglianze, sulla cui base si sono sempre formate le soggettività politiche di tipo progressista, bensì lo sviluppo di soggettività e di conflitti identitari contro le differenze e a sostegno delle disuguaglianze; non più le vecchie soggettività politiche di classe, unificate dall’uguaglianza, dalla solidarietà e dai conflitti sociali contro le disuguaglianze, bensì la ricomposizione regressiva di nuove soggettività, cementate dalla difesa delle loro identità, dall’intolleranza per le identità altrui e dai conflitti contro le altre differenze. Si sono insomma prodotti due processi convergenti, l’uno di scomposizione e l’altro di ricomposizione sociale: la disgregazione, ad opera delle politiche liberiste di precarizzazione del lavoro e di moltiplicazione delle disuguaglianze, delle tradizionali soggettività di classe basate sull’uguaglianza e la solidarietà, e la riaggregazione in chiave reazionaria, ad opera delle politiche populiste, di nuove soggettività basate sull’intolleranza per i differenti alimentata dalle campagne sulla sicurezza e dai sentimenti di paura e di rancore da esse generati contro capri espiatori: gli italiani contro i migranti, gli integrati contro i soggetti emarginati, i garantiti contro i non garantiti e viceversa.
Si è trattato di due azioni congiunte e complementari messe in atto dalle due destre – le destre razziste e le destre liberiste, di fatto alleate – che hanno prodotto un ribaltamento della direzione della vecchia lotta di classe: non più gli operai contro i padroni e i poveri contro i ricchi in nome dell’uguaglianza e contro le disuguaglianze, ma i poveri contro i poverissimi, i deboli contro i debolissimi e soprattutto i cittadini contro i migranti, in nome dell’affermazione delle proprie identità superiori contro le differenze, espulse o emarginate come inferiori. Non più il conflitto tra le classi, ma la divisione, la competizione e la concorrenza tra lavoratori messi gli uni contro gli altri.Si è così rivelato il nesso tra la crisi delle garanzie del lavoro e la perdita delle basi sociali della sinistra, tra il crollo dell’uguaglianza tra i lavoratori e il declino della rappresentanza politica.
3. Tre anticorpi culturali all’attuale deriva della democrazia
Domandiamoci a questo punto: cosa è possibile fare contro una simile deriva? Io penso che quanto meno occorra introdurre, nel dibattito pubblico, taluni efficaci antidoti o anti-corpi democratici.
3.1. Il primo antidoto contro la corruzione del senso comune e del senso morale prodotta dall’ostentazione dell’immoralità e della disumanità operata da questo Governo a sostegno delle sue politiche anti-migranti consiste nel chiamare queste politiche con il loro nome: si tratta di violazioni massicce dei diritti umani costituzionalmente stabiliti e, in molti casi, di veri e propri reati. È questa l’importanza civile, ancor prima che giuridica, svolta dalle denunce e dalle iniziative giudiziarie contro queste politiche, al di là dei loro esiti processuali: la creazione della percezione sociale della loro illegalità, oltre che della loro immoralità, in grado di arginare la loro accettazione acritica o peggio il loro aperto sostegno.
Non è facile, giacché oggi l’opinione pubblica è portata a indignarsi assai più per un fatto di corruzione che per una strage di 117 migranti. Ma questa è una ragione di più della necessità di questa battaglia. La negazione parlamentare dell’autorizzazione a procedere, anche da parte di quanti fino a ieri hanno gridato “onestà” e “legalità”, non è stata motivata, infatti, dalla supposta esistenza di un qualche fumus persecutionis o comunque, come nel caso del famoso voto del Parlamento sul fatto che Berlusconi supponeva che la minorenne Ruby fosse la nipote di Mubarak, dalla tesi dell’inesistenza del reato contestato. Esattamente al contrario, è stata motivata con l’aperta rivendicazione del reato da parte dell’intero Governo in nome di un preminente interesse pubblico. E qui dobbiamo purtroppo riconoscere che l’articolo 9 della legge costituzionale n. 1 del 16.1.1989 – prevedendo la negazione parlamentare dell’autorizzazione a procedere sulla base della “valutazione insindacabile” della maggioranza, del cui sostegno i ministri godono per definizione, «che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico» – ha introdotto una mina nel nostro sistema costituzionale. Questa mina è esplosa, forse nell’inconsapevolezza generale, con il voto parlamentare del 19 febbraio in favore del ministro Salvini, la cui legittimità formale nulla toglie alla sua gravità politica. Con quel voto è stato deliberato che è nell’interesse dello Stato la violazione dei diritti umani e dei doveri di solidarietà stabiliti dalla nostra Costituzione: è stata affermata, in breve, l’insindacabilità della politica, ed è stata perciò negata la sostanza del costituzionalismo e dello Stato costituzionale di diritto, cioè il sistema dei limiti e dei vincoli imposti dalla Costituzione al potere politico.
3.2. Il secondo anticorpo contro la deriva in atto è la vergogna, che dobbiamo provocare con un appello alla coscienza civile di tutti. Di quanto sta accadendo dovranno, un giorno, vergognarsi non soltanto gli attuali governanti, ma anche quanti li hanno votati e li sostengono con il loro consenso. Costoro non potranno dire: non sapevamo. Nell’età dell’informazione sappiamo tutto. Siamo a conoscenza delle migliaia di morti provocati dalle nostre politiche. Sappiamo perfettamente che in Libia i migranti vengono torturati, stuprati, schiavizzati, uccisi. Conosciamo esattamente le forme di sfruttamento fino alla riduzione in schiavitù cui sono sottoposti, in Italia, molti migranti. Per questo difendere i diritti dei migranti significa anzitutto difendere noi stessi. Per questo affermare la dignità dei migranti come persone equivale ad affermare e a difendere la nostra dignità. Per questo rifiutare la parola d’ordine “prima gli italiani” equivale a rifiutare il razzismo che ad essa sta dietro e difendere, contro il razzismo, l’identità democratica del nostro Paese.
È questa vergogna, io credo, che deve portarci ad auspicare che i terribili effetti della chiusura delle frontiere dei Paesi ricchi – le penose odissee di quanti fuggono dalla miseria, dalle guerre o dalle persecuzioni, le migliaia di persone che muoiono ogni anno nel tentativo di raggiungere le nostre coste, le decine migliaia di disperati che si affollano ai nostri confini contro barriere e fili spinati – saranno un giorno condannati come gli orrori dei nostri tempi che imporranno al costituzionalismo del futuro un nuovo mai più: l’affermazione e la garanzia della libertà di circolazione sul pianeta di tutti gli esseri umani, lo ius migrandi appunto come autentico diritto ad avere diritti, condizione elementare dell’indivisibilità e dell’effettività di tutti gli altri diritti della persona oggi sanciti nelle tante carte dei diritti facenti parte del nostro diritto internazionale ma sistematicamente violate. Si stabilirebbe così il presupposto elementare di un costituzionalismo globale. Si chiuderebbe il mezzo millennio del falso universalismo dei diritti umani inaugurato con la proclamazione del diritto di emigrare ad uso esclusivo delle politiche di conquista dell’Occidente. Si rifonderebbe la dignità di tutti gli esseri umani – dei migranti, ma anche di noi stessi – in quanto ugualmente persone e si avrebbe un aumento della qualità della vita di tutti.
3.3. È precisamente questo il terzo e forse il più importante anticorpo. Esso consiste nella cattiva coscienza che dobbiamo creare intorno all’enorme contraddizione tra le attuali politiche contro l’immigrazione e tutti i valori costituzionali. Consiste perciò nella scelta che la questione dei migranti impone alla coscienza civile di tutti: se i diritti umani e la dignità delle persone vadano presi sul serio o se si ridurranno, a causa delle loro massicce violazioni, in una vuota e insopportabile retorica. Dei diritti umani, infatti, fa parte anche il diritto di emigrare. Questo diritto è stabilito dalla nostra Costituzione, che lo enuncia nell’articolo 35, 2° comma, e nel diritto internazionale, che lo afferma negli articoli 13, 2° comma e 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani e nell’articolo 12, 2° comma, del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Non solo. Esso è il più antico dei diritti fondamentali, essendo stato formulato fin dal secolo XVI da Francisco De Vitoria a sostegno della conquista del “nuovo mondo”, quando erano gli europei a “emigrare” per colonizzare e depredare il resto del pianeta, e poi da John Locke, che lo pose alla base del diritto alla sopravvivenza: il quale, egli scrisse, diversamente dal diritto alla vita contro la violenza omicida non richiede garanzie, essendo assicurato dal lavoro, sempre accessibile a tutti purché lo si voglia, quanto meno emigrando nelle «terre incolte» dell’America perché c’è «terra sufficiente nel mondo a bastare al doppio dei suoi abitanti».
Ebbene, prendere sul serio i diritti umani stabiliti in tutte queste carte vuol dire, di nuovo, chiamare con il suo nome – diritto fondamentale – anche questo diritto, e quindi assicurare la libertà di circolazione delle persone al pari della libertà di circolazione delle merci. Vuol dire abbattere le frontiere. Non è un’ipotesi utopistica o estremistica, ma al contrario un imperativo di ragione e insieme una risposta realistica alla questione migranti. I flussi migratori sono infatti fenomeni strutturali e irreversibili, frutto della globalizzazione selvaggia promossa dall’attuale capitalismo, che né le leggi, né i muri, né le polizie di frontiera saranno mai in grado di fermare ma solo di drammatizzare e clandestinizzare. Inoltre, come ha mostrato Thomas Pogge in un libro di dieci anni fa su La povertà e i diritti umani, «la povertà nel mondo è molto più grande, ma anche molto più piccola di quanto pensiamo… La sua eliminazione richiederebbe poco più dell’1% del prodotto globale»: precisamente l’1,13% del Pil mondiale, circa 500 miliardi di dollari l’anno, meno del bilancio annuale della difesa dei soli Stati Uniti. È certo, d’altro canto, che l’Occidente non affronterà mai seriamente i problemi che sono all’origine delle migrazioni di massa – la miseria, la fame, le devastazioni ambientali – se non li sentirà come propri, e non li sentirà mai come propri se la pressione degli esclusi alle sue frontiere non diventerà irresistibile.
Naturalmente so bene che nessun uomo politico potrebbe oggi sostenere una simile tesi. Non potrebbe farlo a causa di due aporie che vincolano la politica e la democrazia, l’una relativa allo spazio e l’altra al tempo: gli spazi angusti dei territori rappresentati e i tempi brevi delle scadenze elettorali e dei sondaggi ai quali sono ancorati il consenso e la rappresentanza politica. Ma questa non è una ragione sufficiente – ed è anzi una ragione di più – perché la cultura giuridica dica le cose che la politica non riesce a dire. Sostenere e mostrare che il diritto di emigrare è un diritto vigente, che in quanto tale richiede di essere garantito significa nient’altro che prendere il diritto positivo sul serio, rilevarne la normatività e criticare come un’indebita lacuna la mancata produzione delle sue garanzie e delle connesse funzioni e istituzioni di garanzia. Se la politica non è capace di dire tutto questo, se non ha il coraggio, perché vittima della demagogia, di riconoscere che il diritto di emigrare è stato ed è tuttora un diritto di tutti, allora è la cultura giuridica che deve dirlo, sul piano scientifico ancor prima che su quello politico. È questo ruolo critico e progettuale che il costituzionalismo rigido, disegnando con i diritti e gli altri principi costituzionali il “dover essere giuridico” del diritto positivo, ha imposto alla scienza del diritto e ovviamente alla politica: un dover essere – i principi costituzionali presi sul serio – dalla cui attuazione peraltro, come continuano ad ammonirci realisticamente i preamboli alla Carta dell’Onu e alla Dichiarazione universale dei diritti umani, dipende il futuro della convivenza pacifica e, dobbiamo oggi aggiungere, dell’abitabilità del pianeta.
La cattiva coscienza di questo “dover essere” del diritto, oggi così vistosamente violato, dovrebbe quanto meno suggerire la creazione di corridoi umanitari per l’ingresso regolare in Italia e in Europa di quote minime di migranti. E potrebbe far maturare, nel senso comune, la concezione del fenomeno migratorio come l’autentico fatto costituente di un futuro ordine internazionale basato sull’effettiva uguaglianza di tutti gli esseri umani. Una politica realista, oltre che informata alla garanzia della dignità e dei diritti fondamentali di tutti, potrebbe, su questa base, trovare il coraggio di assumere il diritto di emigrare come il potere costituente di questo nuovo ordine globale e il popolo meticcio ed oppresso dei migranti, con le sue infinite differenze culturali, religiose e linguistiche, come il popolo costituente dell’umanità futura quale unico popolo globale, anch’esso meticcio perché formato dall’incontro e dalla contaminazione di più nazionalità e di più culture, senza più differenze privilegiate né differenze discriminate, senza più cittadini né stranieri perché tutti accomunati dalla condivisione, finalmente, di un unico status, quello di persona umana, e dal pacifico riconoscimento dell’uguale dignità di tutte le differenze. L’alternativa, dobbiamo saperlo, è un futuro di regressione globale, segnato dall’esplosione delle disuguaglianze, dei razzismi e delle paure e, insieme, delle guerre, dei terrorismi e della generale fragilità e insicurezza.