Magistratura democratica

Stato di diritto, gioco democratico e populismo

di Alejandra M. Salinas
Il presente contributo analizza la relazione concettuale tra lo Stato di diritto, il gioco politico democratico e il populismo, illustrandola con riferimento ad alcune recenti esperienze latinoamericane. L’ipotesi da esplorare è l’attitudine del populismo, nella misura in cui risulti animato da una logica antagonistica, egemonica e discrezionale, alla distorsione del gioco politico democratico e all’indebolimento dello Stato di diritto.

Introduzione

Per quanto la letteratura sull’ideale democratico sia diversificata, si può affermare che vi sia consenso per includere, tra i suoi requisiti minimi, la libertà di associazione, di informazione e di espressione, l’esercizio egualitario dei diritti politici, con la garanzia di elezioni periodiche, libere, trasparenti e competitive. Una concezione più inclusiva aggiungerebbe maggioranze straordinarie o voti popolari per la riforma della Costituzione e delle leggi fondamentali, oltre a meccanismi diretti di partecipazione, deliberazione e decisione dei cittadini insieme alle istanze rappresentative. Così concepito, l’ideale democratico si basa su uno Stato di diritto inteso come validità e rispetto generale delle istituzioni, delle norme e delle procedure prestabilite in funzione del libero sviluppo delle interazioni sociali e politiche.

Nonostante la loro importanza, gli aspetti normativi della relazione concettuale tra Stato di diritto e democrazia sono quasi assenti dalla produzione degli autori latinoamericani pubblicata a partire dal 1990. Se si scorrono alcuni titoli nel campo della teoria democratica, per quel periodo si possono individuare come prioritari i seguenti temi di indagine: egualitarismo, deliberazione politica, femminismo, multiculturalismo, repubblicanesimo, movimenti sociali, questioni di genere (in gran parte sulla scia dei dibattiti ampiamente diffusi negli Stati Uniti e in Europa)[1]. D’altra parte, e nonostante l’aumento della letteratura sull’ascesa populista degli ultimi due decenni, il rapporto tra populismo e Stato di diritto non è ancora stato oggetto di approfondimento. Si richiama, inoltre, l’esclusione o la sottostima della categoria di conformità/deviazione, nei regimi populisti, rispetto allo Stato di diritto nelle trattazioni che distinguono tra “populismo autoritario” e “populismo democratico”, e in quelle che li descrivono e comparano. Per esempio, si afferma che il populismo «incorpora politicamente gli esclusi, promuove la loro inclusione materiale e simbolica, senza tuttavia rispettare necessariamente i diritti dell’opposizione», e che consente di rinnovare la democrazia, pur potendo costituire una minaccia per la diversità sociale[2].

Alla luce di queste affermazioni, ci si domanda: se le pratiche populiste non rispettano certi diritti e se attentano alla diversità, è una semplice contingenza storica o si tratta, invece, di implicazioni inerenti alla logica populista? Prima di tutto, però, sarà opportuno esaminare le diverse concettualizzazioni del populismo. La letteratura disponibile offre letture del populismo classificabili, in senso lato, in base ai seguenti cluster o gruppi teorici: “populismo” come fenomeno ideologico, stile politico, nonché regime e/o agenda di politiche pubbliche. Chi intende il populismo come fenomeno ideologico lo considera su di un piano religioso, psicologico o culturale. Da un lato, esso è raffigurato come una cosmovisione tipica dei «tempi passati dominati dal sacro», che riposa «su una premessa religiosa più o meno remota nel tempo, in cui l’idea che le società siano corpi naturali e il popolo uno e indivisibile riprende il concetto di creato come riflesso compiuto della volontà di Dio»[3]. Altri offrono una lettura psicologica, nella quale il popolo è costituito da un gruppo di fratelli che amano il leader-padre e gli obbediscono. Si può ritrovare questo sentimento, ad esempio, nel discorso di un leader argentino che citava Mazzini: «Ascoltatemi con amore, ché anch’io vi parlerò ispirato dallo stesso sentimento»[4]. Dal punto di vista psicoanalitico, l’identificazione tra leader e popolo renderebbe manifesto un “legame libidico” sostanziale nell’esperienza populista, dove tra gli attori domina la relazione emotiva[5].

D’altra parte, da un punto di vista culturale, il populismo invoca la difesa delle caratteristiche e delle consuetudini nazionali popolari, in parte basate sull’idea – centrale nell’immaginario romantico – di “anima del popolo” e tratteggiata in opposizione a un soggetto collettivo altro, estraneo a quelle caratteristiche e consuetudini[6]. Secondo questa interpretazione, si afferma, tra l’altro, che la cultura europea ha oscillato tra un nazionalismo civile di matrice liberale e uno populista, nel quale il popolo è anteposto alla natura del sistema. La regione latinoamericana rappresenterebbe “la manifestazione più convincente” del nazionalismo populista[7].

Un secondo gruppo di teorici considera il populismo uno stile, un modo di fare politica. Esso è principalmente presentato come: a) una mobilitazione politica tesa a raggiungere diversi scopi sociali, politici ed economici; b) una forma estensiva di inclusione cittadina in società che presentano, al loro interno, grandi disuguaglianze; c) una modalità di rappresentanza politica concentrata intorno a un leader, che può (peraltro, non necessariamente) ignorare le procedure, i meccanismi e gli equilibri di potere, le garanzie del giusto processo – elementi propri di una democrazia; d) uno stile “rappresentativo” in cui il leader populista è l’attore principale, il popolo è il pubblico e la politica è la messa in scena che assiste l’azione del leader e la risposta popolare; e) un discorso carismatico che ignora le strutture e contribuisce a conferire un “carattere redentivo” alla politica[8].

Un terzo gruppo di autori si concentra sui contenuti programmatici del populismo, di cui si avrebbe riscontro nei discorsi di candidati e funzionari governativi, nelle piattaforme elettorali e nelle politiche pubbliche che si rivolgono a un “popolo” escluso o emarginato. In questo campo, sostengono gli economisti, il populismo offre tutela del lavoro e inclusione sociale senza tener conto della sostenibilità economica e fiscale dei programmi presentati[9].

I paragrafi precedenti illustrano alcuni tra i principali approcci al populismo. Non trova spazio, in questa sede, una valutazione nel dettaglio dei contributi e dei limiti di tali orientamenti; tuttavia, si può notare come essi siano complementari nel senso di una mutua integrazione di aspetti psicologici, politici, culturali ed economici, funzionale a una più completa comprensione del fenomeno. Ciò premesso, il rapporto tra populismo, democrazia e Stato di diritto rimane ancora un ambito sottoesplorato e la sua analisi occuperà il centro di questo lavoro, suddiviso in tre sezioni: la prima verte sulle definizioni di “Stato di diritto” e “sistema democratico”, intesi come l’insieme di istituzioni e di regole sottese al “gioco” politico e, rispettivamente, il funzionamento di quest’ultimo. La seconda sezione espone gli elementi concettuali che consentono di definire la logica populista come logica antagonistica, egemonica e discrezionale, applicata alla creazione e all’esercizio del potere politico. Si sviluppa, qui, l’ipotesi secondo cui il populismo, nella misura in cui è animato da tale logica, distorce il gioco politico democratico e mina lo Stato di diritto. Nella terza e ultima sezione, si illustrano gli argomenti presentati con un sintetico riferimento alla recente esperienza populista dell’America Latina.

1. Lo Stato di diritto e il gioco politico democratico

In senso lato, lo Stato di diritto è l’insieme di istituzioni, principi e valori che guidano e governano le pratiche, le forme e le finalità dell’attività statale. In un senso più ristretto, esso è legato all’approvazione e promulgazione delle norme, e alla loro custodia. Due sono le componenti concettuali da analizzare: il suo sviluppo storico nelle moderne società occidentali e il principio normativo emergente da tale processo. In merito alla prima componente, in The Foundations of Freedom Hayek analizza il dibattito su chi dovrebbe essere titolare della funzione legislativa ed entro quali limiti. Secondo l’Autore, a partire dal XVII secolo, si consolidò l’idea di un Governo limitato dalla separazione dei poteri; un secolo dopo, il costituzionalismo americano fu l’espressione scritta di quei limiti, al fine di proteggere la libertà individuale. Da questo processo storico emerge il principio normativo secondo cui lo Stato di diritto è una dottrina meta-legale, un ideale politico accettato dalla maggior parte dei membri di una società per frenare l’avanzata illegittima del potere politico[10]. Nella stessa ottica, lo Stato di diritto prescrive che l’azione statale dovrà fondarsi e collocarsi all’interno delle istituzioni, dei principi e dei valori derivati dai diritti e dalle garanzie fondamentali che tutelano la sfera individuale. A tal fine, la forma costituzionale distribuisce le attribuzioni e competenze del potere statale tra i vari organi governativi, soggetti a controllo e responsabilità.

L’obiettivo dello Stato di diritto è garantire un riferimento stabile e prevedibile a partire dal quale le persone potranno scegliere tra linee di condotta alternative per lo sviluppo delle loro attività. Nelle parole di Leoni, tale prevedibilità «non può essere mantenuta senza garantire effettivamente la certezza della legge, intesa come possibilità per gli individui di pianificare a lungo termine il proprio comportamento, nella vita privata come negli affari. Tale pianificazione richiede una certezza sul lungo periodo [che si riferisce] all’uniformità delle regole nel corso dei secoli e alla continuità del lavoro modesto e limitato delle Corti di giustizia, piuttosto che di quello prodotto dagli organi legislativi»[11]. La funzione di creazione e mantenimento dell’ordine politico dello Stato di diritto è spesso evidenziata, sebbene altrettanto importante risulti l’ambito della prevedibilità, sopra menzionato. Viceversa, come è frequente il richiamo all’emergere del conflitto in assenza dello Stato di diritto, sarà altrettanto importante sottolineare l’instabilità, l’imprevedibilità e l’impunità generate da tale assenza.

Quali sono, allora, gli elementi principali di cui disponiamo per riconoscere l’esistenza di uno Stato di diritto? Il filosofo Joseph Raz cita i seguenti: leggi lungimiranti, elastiche, chiare e relativamente stabili, assistite da regole generali; l’indipendenza della magistratura; i principi della “giustizia naturale” (udienza aperta e imparziale, assenza di pregiudizi interpretativi); la judicial review (o controllo di costituzionalità); tribunali accessibili e agenzie per la prevenzione della criminalità che operino nel rispetto della legge. Tuttavia, Raz non si limita a una rassegna di tali componenti, affermando che lo Stato di diritto: «è ideato per minimizzare il danno alla libertà e alla dignità che la legge può causare nel conseguimento dei suoi obiettivi, a prescindere dall’intrinseca meritevolezza di questi ultimi»[12]. Da questa preoccupazione si deduce l’associazione dello Stato di diritto alla difesa dei diritti e delle libertà in senso negativo («minimizzare il danno»): un criterio utile a segnare la differenza rispetto a uno Stato con diritto, purché questo si basi su un sistema giuridico attuato secondo procedure prestabilite. Ciò che distingue essenzialmente lo “Stato di diritto” dallo “Stato con diritto” è che il primo lavora per garantire la libertà e prevenire o limitare il danno causato dal potere politico, mentre il secondo può servire a raggiungere l’obiettivo opposto: limitare la libertà ed espandere il potere politico. Ciò si riscontra, ad esempio, nel caso del Venezuela: l’articolo 2 della Costituzione dichiara di adottare «uno Stato democratico e sociale di Diritto e di Giustizia, che sostiene come valori superiori del proprio ordinamento giuridico e della propria attività la vita, la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la solidarietà, la democrazia, la responsabilità sociale e, in generale, la preminenza dei diritti umani, l’etica e il pluralismo politico». Ciononostante, un regime populista e dittatoriale governa il Paese dal 1998, senza rispetto per gli stessi valori contenuti nel dettato costituzionale[13].

Secondo la distinzione appena tracciata, uno Stato di diritto stabilisce i limiti entro i quali troverà posto un’azione politica legittima, limiti che possono intendersi come le “regole del gioco”. Applicata alla moderna democrazia costituzionale, la metafora del “gioco” è stata impiegata dai teorici per alludere sia alle basi e alle modalità di quel sistema (le “regole del gioco”), sia al suo funzionamento in ogni caso particolare (il “gioco” in se stesso). Tra gli autori contemporanei che si riferiscono alla politica come “gioco”, Oakeshott [1962] associa l’immagine del governante a quella dell’arbitro, la cui funzione consiste nell’applicare le regole del gioco in modo imparziale, prevenendo l’«invenzione di nuove regole» da parte dei giocatori, se non in forma occasionale e moderata[14]. La proposta di evitare che le modifiche alle regole del gioco siano frequenti od opportunistiche mira a garantire stabilità e prevedibilità, in modo che i giocatori possano pianificare le loro scelte.

In A Theory of Justice [1971], anche Rawls ricorre all’analogia con i giochi per riflettere sull’organizzazione della vita politica fondata su regole. L’Autore distingue in quattro tipi i fini perseguiti da un gioco: «l’obiettivo del gioco, come definito dalle regole»; «le varie motivazioni individuali dei giocatori»; «i fini sociali serviti dal gioco» e «il desiderio, comune a tutti, di partecipare a un buon gioco». Quest’ultimo potrà realizzarsi solo «se giocato secondo le regole, se si ha una tendenziale parità fra le parti e se i giocatori sentono di giocare bene». Rawls conclude che «una buona mossa è un risultato collettivo, che richiede la cooperazione di tutti»[15]. Oltre a porre in rilievo il carattere cooperativo del “buon gioco”, Rawls introduce nella sua analisi il requisito egualitario (immaginando i partecipanti «più o meno alla pari»), al fine di offrire a tutti l’opportunità di aspirare ad essere buoni giocatori (e permettere loro di sentire che «stanno giocando bene»). Cooperazione e uguaglianza costituiscono, così, i valori salienti di un gioco fondato su regole.

In una prospettitva contrattualista comparabile, nel modello di James Buchanan i membri di una società democratica concordano sull’impegno ad agire pro futuro entro un determinato quadro normativo. Nel riferirsi alla modalità di tale accordo, l’Autore ricorre a un’analogia tra regole politiche e regole dei giochi di carte: esse possono essere considerate “giuste” e “buone” dai giocatori, e quindi essere accettate, oppure “ingiuste” e “cattive”, e perciò rifiutate. Sarà “giusta” la regola concordata dai giocatori prima di conoscere la particolare posizione di ciascuno all’interno del gioco[16]. Secondo Buchanan, l’adozione delle regole ha l’obiettivo di porre dei limiti ai comportamenti futuri. La legge è considerata un vincolo, un “costo” o, nel linguaggio dell’Autore, una «imposta sulla libertà» che i partecipanti assumono come necessaria allo svolgimento del loro gioco senza interferenze altrui. In assenza di regole, osserva Buchanan, il gioco è governato dalla legge del più forte. Al contrario, l’adozione di regole comuni consente di ottenere benefici generali[17].

I valori della moderazione, della cooperazione e dell’uguaglianza, insieme all’intenzione di assicurare la prevedibilità a partire da regole basate sul consenso dei partecipanti, animano la logica dello Stato di diritto che assiste le interazioni tra persone. Tuttavia, questa logica può apparire ad alcuni un criterio insufficiente a organizzare la vita sociale. In proposito, C. Vilas ha osservato che «Nelle società frammentate da profonde diseguaglianze non è sufficiente concordare le “regole del gioco”, ma [occorre altresì accordarsi su] il tipo di gioco al quale si partecipa: la conservazione di una straordinaria concentrazione di risorse (...), o le trasformazioni sociali e politiche in linea con le aspirazioni di queste maggioranze; [e] tutto ciò che è compreso tra la prima e le seconde»[18]. La citazione si riferisce a quelli che Rawls chiama «i fini sociali serviti dal gioco», che, in termini costituzionali, sono i principi e i valori incorporati in una Carta (per esempio, il preambolo della Costituzione argentina enumera le seguenti finalità: «costituire l’unione nazionale, garantire la giustizia, consolidare la pace interna, provvedere alla difesa comune, promuovere il benessere generale e assicurare i benefici della libertà»). La deliberazione su quali siano i «fini sociali serviti dal gioco» spetta, in via fondamentale, ai costituenti. In termini di coerenza, essa dovrebbe risultare il più inclusiva possibile ed evitare di essere ridotta a falsi dilemmi. Riferendo la citazione di Vilas – in senso contrario a quanto afferma l’Autore – al campo del diritto di proprietà, si può deliberare in sede costituzionale sul mantenimento di una certa distribuzione della proprietà (se essa è stata legittimamente acquisita e trasferita) e, allo stesso tempo, aspirare a una maggiore mobilità sociale sotto la spinta di un migliore sviluppo delle capacità individuali[19]. In questo senso, la dicotomia tra uno Stato di diritto sensibile e uno indifferente alla questione sociale riflette un riduzionismo che trascura la possibilità di adottare certe clausole costituzionali allo scopo di evitare discrezionalità nei trasferimenti e nella redistribuzione da parte dei governi – e, in particolare, dei governi populisti[20].

Naturalmente, via via che si dispiega il gioco democratico, una volta che le sue regole sono state adottate, né un’autentica deliberazione né l’esistenza di una costituzione garantiranno, da sole, la stabilità e la persistenza dello Stato di diritto in senso forte. Queste ultime dipenderanno da un’adeguata combinazione di comportamenti di una maggioranza di giocatori tale da comprendere elementi etici (la volontà di limitare una condotta sulla base di ideali personali e virtù sociali), culturali (la volontà di rispettare e conformarsi alle norme) e politici (la volontà di promulgare leggi in base all’ordinamento e di sanzionare la loro infrazione). Nel complesso, è l’ethos delle convenzioni, delle interpretazioni e delle applicazioni della teoria ad alimentare lo Stato di diritto. Nella sua forma minima, questo ethos è comunemente associato con l’assenza di corruzione, l’indipendenza della magistratura e una presunzione in favore della libertà individuale[21]. Nella sua espressione ideale, esso comprende i limiti legali all’esercizio del potere pubblico e privato, uno Stato che adempia ai doveri fondamentali nei confronti della popolazione e operi nell’interesse pubblico, la tutela delle persone dalla violenza e il loro accesso a meccanismi idonei a risolvere controversie e avanzare reclami[22].

In sintesi, il concetto di Stato di diritto fornisce un principio normativo per legittimare l’azione statale. I suoi elementi fondamentali sono la costituzione come norma suprema, la sottomissione dei pubblici poteri alle norme, la divisione e l’equilibrio dei poteri governativi e la protezione dei diritti individuali. Ciò rende possibile un’azione governo soggetta a limiti, l’effettivo esercizio dei diritti e il controllo della corruzione, della violenza e della criminalità. Così concepito, lo Stato di diritto mira a garantire la pace, il pluralismo e la prevedibilità.

Nel successivo paragrafo si esporranno alcune considerazioni sull’incompatibilità tra queste previsioni e la logica antagonistica, egemonica e discrezionale propria del populismo.

2. La logica populista

Negli ultimi due decenni, tra i diversi autori che si sono occupati di populismo, spicca – ai fini di questo contributo – Ernesto Laclau per l’approccio concettuale che esprime nel saggio La razón populista[23]. Nella sua analisi, il populismo si costruisce attraverso il discorso di un’istanza rappresentativa che articola molteplici richieste sociali unite da un comune malcontento indirizzato verso un altro soggetto collettivo, considerato antagonista. Con questa premessa, il populismo avrebbe quattro caratteristiche principali: la presenza di un leader dotato di forte carisma, la domanda di un insieme di attori formanti il “popolo”, un grado elevato di antagonismo verso il non-popolo e il prevalere del leader sulle istituzioni[24].

Gli aspetti della logica populista da porre in rilievo sono la costruzione di un’egemonia da parte dell’istanza rappresentativa, la discrezionalità implicita attribuita al leader nella creazione di un’identità popolare e nell’attuazione del suo programma politico, e il presupposto di un antagonismo inconciliabile tra “popolo” e “non-popolo”. I tre elementi – egemonia, discrezionalità e antagonismo – contrastano con lo Stato di diritto di una democrazia, così come definito nel paragrafo precedente. Tale contrasto sarà ora oggetto di analisi.

In primo luogo, l’aspirazione a costruire un sistema egemonico di tipo centralizzato e totalizzante contraddice le regole del gioco democratico funzionali a garantire la diffusione e il controllo del potere politico, che rendono possibile il pluralismo rappresentativo. Su questo aspetto, tra i vari argomenti addotti dai critici, si è fatto notare che, in democrazia, nessuno rappresenta completamente il popolo, essendo la rappresentanza sempre «provvisoria, fallibile e limitata»[25], e che l’accentramento di potere, l’indebolimento dei “freni e contrappesi” e il disprezzo per l’opposizione sono potenzialmente deleteri per le forme istituzionali democratiche[26]. Si è, parimenti, sottolineato che il desiderio di concentrare il potere e, contemporaneamente, di fare appello al popolo «potrebbero finire per trasformare l’attivismo popolare in acclamazione plebiscitaria dei sedicenti redentori autoritari delle loro nazioni»[27]. Anche in questo caso, alla luce degli eventi e delle politiche attuate in Venezuela dal regime populista bolivariano (a partire dal 1999), la cosiddetta “democrazia partecipativa” istituita per via costituzionale si inserisce pienamente, negli effetti, nella tradizione plebiscitaria e autoritaria. I dati evidenziati per quel Paese sollevano una domanda che sovrasta l’analisi del fenomeno: fino a che punto il suo affermarsi dipende da congiunture locali e personalità legate a un particolare contesto politico, senza seguire una logica universalista? In altre parole, ci si può aspettare che tutti i populismi convergano verso regimi plebiscitari e autoritari nello stile del Venezuela?

Il ricorso al concetto di egemonia può essere utile per rispondere alla domanda e introdurre al secondo contrasto tra populismo e Stato di diritto. L’egemonia è il filtro utilizzato dal populismo (nell’accezione qui accolta) per guardare alla politica come a un campo di dominio di alcuni gruppi su altri, e non come a un tentativo di accordarsi su quali regole permetteranno una cooperazione sociale finalizzata all’interesse generale. L’egemonia presuppone una volontà di dominio, che in Laclau consiste nella volontà dell’istanza rappresentativa (il leader) posta in evidenza quando si conferisce identità al popolo e si articolano le sue richieste. Questa volontà di dominio non è, a rigor di termini, necessariamente plebiscitaria, ma per definizione comporta un importante livello di autoritarismo.

Pertanto, la logica populista non è associata alla rappresentanza (come nel sistema repubblicano) né al dominio di classe (come nel sistema comunista), ma alla costruzione di un’egemonia come configurata e intesa dal leader. Quest’ultimo aspetto è rivelatore della natura discrezionale di questa logica, nella misura in cui essa riposa su criteri personalistici e aleatori. L’osservazione vale, in l’America Latina, per i critici del populismo di matrice sia liberale che socialista. Così, i primi criticano l’assenza di una cittadinanza effettiva e della ricerca di consenso nella soluzione dei problemi economici e politici; i secondi respingono il sostituirsi della discrezionalità personale alla negoziazione collettiva propria della dinamica partitica[28]. In ogni caso, entrambi i gruppi criticano l’arbitrio populista, reclamando un maggior peso delle istituzioni.

Un terzo contrasto con lo Stato di diritto è costituito dal ricorso all’antagonismo quale elemento fondante del populismo. La critica delle istituzioni e le vessazioni nei confronti di persone e gruppi mostrano l’intento logico di identificarli, rispettivamente, come ostacoli e minacce al rafforzarmento dell’egemonia populista. Quest’ultima è, essenzialmente, antagonistica, e proprio tale caratteristica la distingue da altre attitudini anti-sistema e anti-elitarie. Si possono citare, al riguardo, due casi storici. Agli inizi del Novecento, le suffragette avanzarono rivendicazioni considerate anti-sistema con la loro critica all’esclusione delle donne dal voto politico; tuttavia, non erano populiste, poiché miravano a ottenere istituzioni più inclusive, non a ignorarle o cancellarle. Considerando l’altro esempio, il movimento per i diritti civili affermatosi negli Stati Uniti a metà del XX secolo era anch’esso anti-elitario, dal momento che sfidava la segregazione razziale e l’esclusione sociale autorizzate dalle élite legislative di allora, ma non può essere definito populista, perché difendeva il valore delle istituzioni e non presentava antagonismi, sviluppandosi in forma di resistenza non violenta contro la discriminazione culturale e giuridica.

Alla luce di questi e di altri esempi, appare chiaro che non tutte le affermazioni contro le ingiustizie, i limiti e i fallimenti di un sistema politico corrispondono a rivendicazioni populiste: lo saranno nella misura in cui siano accompagnate da discorsi e azioni che mettono in discussione o attentano ai principi e alle istituzioni dello Stato di diritto, sostengano un antagonismo radicale e promuovano una visione egemonica della politica.

Applicando questa prospettiva all’analisi del mondo odierno, tra le posizioni “anti-sistema” è possibile distinguere posizioni populiste da altre non populiste – come ogni distinzione analitica, è relativa e limitata, ma può in parte aiutare a chiarire il concetto. Così, alcune posizioni anti-sistema possono risultare elitarie in un senso diverso dal populismo à la Laclau (alcuni euroscettici britannici mettono in dubbio il rapporto con l’Unione europea pur senza difendere il populismo); i partiti della destra xenofoba, nell’Europa centrale e settentrionale, criticano l’establishment politico, al pari di certi populisti, ma sono anche culturalmente conservatori, in modo diverso dai populisti (è il caso di Podemos in Spagna)[29]. Da parte loro, gli ambientalisti Verdi in Germania sono anti-sistema nella loro critica all’impiego delle fonti energetiche convenzionali, ma sostengono il sistema rappresentativo (almeno dal 1998) e sono decisamente internazionalisti, in contrapposizione al nazionalismo solitamente invocato dai populisti.

Come ultimo termine di paragone, in genere i gruppi e i partiti anti-sistema non populisti affrontano i loro avversari politici, ma non definiscono la loro identità in termini negativi rispetto ai “nemici”, come fa il populismo; inoltre, essi attuano il proprio gioco politico all’interno del quadro istituzionale, con l’intenzione di riformarlo, differenziandosi in tal senso dal populismo, che si autorappresenta contro le istituzioni. Infatti, nell’opinione di quanti offrono una lettura apologetica del populismo, lo Stato di diritto o la “normatività liberale” sono strumenti che esprimono un rapporto di potere, un dominio sul popolo, inteso come «architettura, organizzazione e mantenimento dell’esclusione»[30]. Di conseguenza, è logico che l’agenda populista operi a spese della “normatività” e cerchi di indebolire lo Stato di diritto. Alcuni autori hanno minimizzato questo rischio: «I timori liberali sul populismo distolgono l’attenzione da questioni cruciali legate alla natura e all’autorità del popolo sovrano. Rivendicando il potere per il popolo, chiedendo a quest’ultimo di redimere la politica, i populisti evidenziano i presupposti fondamentali della politica contemporanea», scrive Canovan[31]. Nondimeno, i timori liberali non vanno sottovalutati: indebolire i tribunali, accentrare il potere e discriminare per etnia, religione, condizione economica, origine nazionale non solo indebolisce la democrazia[32], ma pregiudica la possibilità di vivere in una società pluralista, pacifica e prospera.

3. La recente esperienza dell’America Latina sotto il populismo

I sistemi repubblicani in America Latina si edificarono nel corso del XIX secolo, ispirandosi principalmente al modello costituzionale liberale, basato sulla sovranità popolare, la garanzia dei diritti individuali e un governo centrale forte ed efficace, ancorché limitato[33]. Tuttavia, nella pratica, le tendenze accentratrici e di controllo dei Governi latinoamericani si sono evolute verso un presidenzialismo a potere accentrato, in quelle che O’Donnell ha descritto come «democrazie delegative». In tali sistemi, «chi vince le elezioni presidenziali è autorizzato a governare come più riterrà opportuno, costretto solo dalla realtà dei rapporti di forza in atto e dal limite costituzionale di durata del suo mandato (...) a elezione avvenuta, ci si aspetta che gli elettori diventino spettatori passivi, ma che accolgano festosamente gli atti posti in essere dal presidente»[34]. L’anti-istituzionalismo di questa tradizione presidenziale si è mosso contro le norme e le procedure, preparando così un terreno culturale favorevole alla nascita di pretese egemoniche tali da spazzar via i limiti e i controlli all’azione statale ancora esistenti.

Non sorprenderà troppo, allora, nella recente esperienza latinoamericana del fenomeno populista, che la corruzione costituisca forse la conseguenza più clamorosa dell’arbitrio e dell’egemonia portati all’estremo. Vi sono abbondanti prove al riguardo:

- Il periodo dei governi kirchneristi in Argentina (2003-2015) sarà ricordato come una delle stagioni più corrotte e “devianti” dello Stato di diritto in tempo di democrazia. Solo per citare alcuni esempi, il vicepresidente Amado Boudou è stato imprigionato per arricchimento illegale, riciclaggio di denaro e traffico di influenze illecite. Sono stati, inoltre, emessi provvedimenti di custodia cautelare per la ex-presidente Cristina Fernandez e altri ex-alti funzionari e alleati politici. Peggio, risuona ancora il grido di giustizia nel caso del procuratore Alberto Nisman, assassinato un giorno prima di presentare la sua denuncia contro Cristina Fernandez, relativa all’aver favorito un accordo con l’Iran che congelava l’indagine sulla attacco antisemita del 1994, nel quale morirono più di 80 persone[35].

- In Ecuador l’ex-presidente Rafael Correa è stato accusato in seguito al rapimento dell’ex-parlamentare Fernando Balda, occorso nel 2012. Le norme penali ecuadoriane non consentono il processo in contumacia; forse per questo motivo, Correa si è rifugiato a Bruxelles un anno e mezzo fa[36].

- In Brasile, sotto il regime del Partito dei Lavoratori (PT), si è avuto un progressivo avanzamento del potere esecutivo con un aumento della legislazione per decreto presidenziale; ci sono stati tentativi di censura della stampa e minacce alla magistratura; è cresciuta la corruzione e, oltre all’inflazione, è aumentata la spesa pubblica[37]. Tra i casi di corruzione spiccano il pagamento di favori e tangenti da parte della società di costruzioni brasiliana Odebrecht, e il caso Lava Jato sulla corruzione interna all’impresa statale Petrobras, per il quale l’ex-presidente Luiz Lula da Silva è stato condannato a nove anni di detenzione.

- In Bolivia, nei dodici anni sotto il presidente Evo Morales, sono state segnalate decine di casi di corruzione, inclusa la malversazione di denaro pubblico destinato al Fondo indigena, nonché casi di abuso di influenza e arricchimento illecito nella compagnia petrolifera statale. A questi problemi si aggiunge l’eventualità, avallata dai Tribunali, che Morales sia rieletto Presidente nel corso del 2019 (in aperta opposizione al referendum del 2016, che negava questa possibilità), favorendo così il proseguimento dell’iter populista nel Paese.

- Come anticipato nella sua campagna elettorale, il nuovo Presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador, nel suo primo discorso, ha annunciato cambiamenti sociali in senso populista, peraltro promettendo di «attenersi all’ordinamento giuridico». Tale garanzia di adesione è stata presto messa in dubbio dal riconoscimento, da parte dello stesso Obrador, del nuovo mandato presidenziale di Nicolás Maduro in Venezuela, nonostante le accuse di crimini contro l’umanità che hanno portato (finalmente) al rifiuto della dittatura venezuelana da parte della comunità internazionale.

I casi citati chiariscono che la salute futura della democrazia in America Latina richiede uno Stato di diritto più forte e una quota minore o nulla di populismo. Dei 24 Paesi della regione analizzati nell’ultimo «Indice della democrazia», due soltanto sono considerati “democrazie piene” (Costa Rica e Uruguay), mentre quattordici sarebbero “democrazie difettose”, cinque “regimi ibridi” e tre “regimi autoritari”[38]. Nel caso specifico dell’Argentina (inclusa tra le democrazie difettose), per rafforzare lo Stato di diritto occorre sradicare la tradizione di instabilità e opportunismo che pesa sul potere giurisdizionale, soggetto agli arbitri dell’esecutivo, che tende ad acuirsi con il populismo. L’interferenza presidenziale con il sistema giudiziario non è stata solo dannosa alla stabilità e all’affidabilità economica del Paese, ma ha anche incrinato la fiducia e il rispetto dei cittadini verso le istituzioni[39]. Se la fiducia non è rafforzata, ciò può essere dannoso in futuro per la cultura democratica e lo Stato di diritto, alimentando il circolo vizioso tra il riconoscimento dei fallimenti istituzionali da un lato e la conseguente domanda di candidati che promettano di risolvere questi fallimenti con una dose maggiore di populismo.

Conclusioni

Lo Stato di diritto stabilisce le regole del gioco democratico, lo protegge e lo garantisce. Al contrario, la logica populista distorce il gioco democratico: anziché deliberazione e negoziazione, promuove l’antagonismo e rende impossibile la cooperazione; sostituisce l’imparzialità e la prevedibilità delle istituzioni e delle norme con la discrezionalità e l’instabilità proprie del suo forte personalismo; la lotta per l’egemonia aspira a totalizzare lo spazio politico e minaccia il pluralismo che è proprio della democrazia.

La recente esperienza in America Latina evidenzia lo scontro tra una democrazia che si regge sullo Stato di diritto e il populismo. Aníbal Romero esprime questo scontro con eloquenza: «La “spina dorsale” dello Stato di diritto è un potere giurisdizionale capace di sostenere un senso comune di disciplina, il rispetto reciproco tra i cittadini, la libertà, l’equità e l’efficienza. Nella pratica populista in America Latina, i diritti umani sono violati e frequentemente sottoposti a compressioni che sarebbero considerate intollerabili nelle democrazie liberali avanzate. L’esercizio arbitrario del potere [presuppone] confini ambigui tra ciò che è legale e illegale, e (…) uno Stato di diritto ampiamente fittizio, eroso dalla corruzione della giustizia»[40].

È possibile ricostruire la democrazia associata allo Stato di diritto dopo più di un decennio e mezzo segnato dalla crescita populista in gran parte dell’America Latina? In caso affermativo, come in ogni processo di ricostruzione, questo avrà un costo, che aumenterà in proporzione al passare del tempo – in assenza di cambiamenti sostanziali – e all’aggravarsi del danno sociale, economico e politico. Pertanto, riconoscere e affrontare il populismo non è soltanto necessario, ma anche urgente. Dal punto di vista analitico, il riconoscimento del fenomeno può partire da una maggiore levatura teorica ad esso attribuita, senza scartarlo come concetto subalterno, fenomeno atavico o sintomo di una crisi congiunturale. Nel 1944, George Orwell propose di parlare di fascismo «con una certa dose di circospezione, senza degradarlo, come si fa abitualmente, a livello di parolaccia»[41]. Nel mondo attuale, l’analisi del populismo impone di adottare un approccio simile, che trovi una base ferma non sull’apologia o sulla curiosità che il fenomeno può ispirare in alcune persone, ma sulla forte preoccupazione da esso suscitata in molte altre.

 

 

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* La traduzione dallo spagnolo è a cura del dottor Virgilio Mosè Carrara Sutour. Per le note si è preferito riproporle come nel testo originale. Per chi fosse interessato è disponibile il testo inviato dall’Autrice in spagnolo: www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2019-1_07-originale.pdf.

[1] Si vedano, ad esempio, O’Donnell (1994), Gargarella (1999), Borón (2003) e Herrán (2004). Rappresentano eccezioni: Nino (1997), cap. 3, pp. 300-302; Peruzzotti (1999), pp. 158-168; O’Donnell (2004) e Salinas (2012). Per le teorie politiche elaborate negli Usa e in Europa si vedano, tra gli altri, Young (2001) e Gaus e Kukathas (2004).

[2] Dix (1985); De la Torre (2013), p. 13.

[3] Zanatta (2014), p. 11. 

[4] Zanotti (2014). Il riferimento è a Perón (1948), p. 15.

[5] Laclau (2009), p. 10, pp. 153-156, p. 282.

[6] Sebreli (2011), 21. Ver también el pensamiento de Héctor Agosti en Amaral (2018), pp. 92-93.

[7] Hermet (1999), pp. 50-54.

[8] Rispettivamente: Jansen (2011); De la Torre (2000); Arditi (2009), pp. 103-105, 112, 123, 128, 131-132; Moffitt (2017), pp. 133-134, 150-152; pp. Canovan (1999), pp. 8, 14, 16.

[9] I critici del cosiddetto "populismo macroeconomico" obiettano i rischi di inflazione e di deficit finanziari associati a quell’agenda, così come le restrizioni esterne e la reazione negativa degli agenti economici in simili contesti (Dornbusch e Edwards, 1989). Da parte sua, l’espressione “populismo di rendita” si riferisce allo sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali per finanziare l’agenda populista. In America Latina, il boom delle esportazioni di petrolio, soia e oro, ha permesso, dal 2002, l’utilizzo delle entrate per tali finalità (Mazzuca, 2013).

[10] Hayek (1960), capp. 11-14, pp. 162-219.  

[11] Leoni (1991), pp. 65-66 e 69-70.

[12] Raz (1977), pp. 220 e 228.

[13] Romero (2010).

[14] Oakeshott (1983), pp. 258-262.

[15] Rawls (1999), pp. 460-461.

[16] Buchanan (2001), p. 354.

[17] Buchanan (2009), p. 168.

[18] Vilas (2011), p. 48.

[19] Si veda Salinas (2014), per un’analisi dell’«approccio delle capacità».

[20] Buchanan (2009), pp. 257-258.

[21] Waldron (2016).

[22] World Justice Project (2015).

[23] Laclau (2009). Per una rassegna dei saggi e degli articoli pubblicati sul tema del populismo tra il 1893 e il 1980, si veda Amaral (2018), pp. 284-286 e 297-298. Oltre il 50 per cento dei lavori è stato pubblicato a partire dal 1971.

[24] Per un’analisi più dettagliata della teoria di Laclau, si veda Salinas (2011), in merito ai rapporti esistenti tra populismo, capitalismo, marxismo e democracia; Id. (2012), sulle tensioni tra egemonia populista e diritti individuali; Id. (2014), per una critica dell’idea di emancipazione populista.

[25] Werner-Muller (2017), pp. 592, 596 e 603; Galston (2018), p. 12.

[26] Urbinati (2013), p. 4.

[27] De la Torre (2013), p. 44.

[28] Leis e Viola (2009), p. 3; Schamis (2006), pp. 32-33.

[29] Girona (2014-2015), p. 7.

[30] Retamozo e Morris (2014-2015), p. 24. 

[31] Canovan (2004), pp. 244-245.

[32] Galston (2018), p. 15.

[33] Negretto (2002), pp. 239-240; Gargarella (2004), pp. 149-151. Durante il XIX secolo, i costituenti latinoamericani seguirono il modello statunitense, nel quale la Costituzione è uno strumento di garanzia dei diritti e di limitazione del potere politico. Durante il XX secolo, le riforme costituzionali nella regione includevano la questione sociale, una preoccupazione di tipo europeo. Ne consegue che oggi, in America Latina, le Costituzioni combinano il modello istituzionale americano con quello dell’inclusione sociale, di matrice europea.

[34] O’Donnell (1994), pp. 59, 66 e 67. 

[35] Volosin (2018); Rivas Molina (2018).

[36]  España (2018).

[37] Vélez Rodríguez (2014); Tambosi (2018).

[38] The Economist (2018), pp. 19-21. L’«Indice di democrazia» è basato su cinque categorie: processi elettorali e pluralismo; libertà civili; funzionamento del governo; partecipazione politica; cultura política.

[39] Gallo e Alston (2008), p. 170. Si veda anche Transparency International (2013).

[40] Romero (2010), pp. 107, 203 e 368. Si veda, nella stessa linea argomentativa, Leis e Viola (2009) e Salinas (2012).

[41] Orwell (1944).