Populismo, diritto e società.
Uno sguardo costituzionale
1. Un inquadramento
Partirò da una definizione volutamente modesta. Designerò col termine “populismo” quell’ideologia che si ripromette di dar voce alla “reale volontà del popolo” contrapponendosi a una classe politica che col popolo avrebbe perso ogni contatto, e alle istituzioni di garanzia costituzionale, che non potrebbero esercitare funzioni decisionali senza sostituirsi alla volontà popolare, unica fonte legittima del potere in democrazia.
Dal punto di vista del costituzionalismo, la prima questione suscitata dalla diffusione su vasta scala del populismo è se si possa scindere la democrazia dalla garanzia dei diritti fondamentali. Non mi riferisco a un costituzionalismo qualsiasi, ma specificamente a quello realizzato con lo sviluppo dello Stato costituzionale, che nell’Europa continentale risale alla seconda metà del secolo scorso. Perché in esso si è prefigurato, e poi si è sperimentato con successo, il tentativo più ambizioso di combinare la legittimazione democratica del potere politico con la sua limitazione giuridica in vista della tutela dei diritti fondamentali. È perciò da questo punto di vista che ha senso chiedersi se la prima sia concepibile senza la seconda.
Altra questione è se il populismo equivalga a un corpo estraneo agli andamenti dei rapporti fra le istituzioni e alle trasformazioni sociali intervenute nello sviluppo dello Stato costituzionale, con particolare anche se non esclusivo riguardo al nostro ordinamento. Una risposta, questa è almeno la speranza, servirà ad affinare lo sguardo sulle prospettive che ci attendono.
2. La legittimazione del potere politico nello Stato costituzionale
In ogni costituzione moderna, la legittimazione democratica del potere politico riflette una certa concezione della totalità dell’unità politica. Basta una veloce analisi del linguaggio adoperato dalla Costituzione repubblicana per accorgersi che esso è ricco di concetti giuridici riferiti alla unità politica, e selezionati in base all’uso di volta in volta ritenuto più opportuno.
Allo scopo la Costituzione adopera essenzialmente due coppie di concetti. La prima è “popolo”/“Nazione”. La scelta del termine “popolo” per indicare il soggetto titolare della sovranità (articolo 1) in luogo del termine “Nazione” deriva dalla necessità di evitare le ambiguità cui il ricorso alla sovranità nazionale diede luogo nello sviluppo del costituzionalismo ottocentesco. Al contrario, i membri del Parlamento sono qualificati rappresentanti della “Nazione” (articolo 68), il Presidente della Repubblica «rappresenta l’unità nazionale» (articolo 87) e i pubblici impiegati «sono al servizio esclusivo della Nazione» (articolo 98), per evitare ogni ipotesi di immedesimazione organica che il ricorso al termine “popolo” avrebbe in tali casi potuto autorizzare.
Per designare invece la totalità dell’ordinamento giuridico, la Costituzione utilizza la coppia concettuale “Repubblica”/”Stato”. Il termine “Repubblica” è adoperato con una frequenza molto maggiore, e talune sue accezioni sono del tutto infungibili con “Stato”. Così, quando l’articolo 139 sottrae a revisione costituzionale «la forma repubblicana», si riferisce in primo luogo al modo di designazione alla carica di Capo dello Stato, che è elettiva e non ereditaria a seguito del referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
La Costituzione adopera poi il termine “Repubblica” ogni volta che si tratta di individuare nella Prima Parte (Diritti e doveri dei cittadini) il soggetto pubblico nel rapporto con i cittadini e con le formazioni sociali. Il fatto che la Costituzione indichi espressamente tale soggetto, anziché ricorrere alla forma passiva (ad es. «La Repubblica tutela la salute....» (articolo 32), anziché «E’ tutelata la salute...»), trasmette il senso dell’impegno voluto imprimere alle affermazioni costituzionali. Nella Seconda Parte (Ordinamento della Repubblica), la Repubblica è poi il soggetto cui viene riferita l’organizzazione costituzionale dei pubblici poteri. Anche qui la scelta è per la parola Repubblica piuttosto che per la parola Stato.
Nella Costituzione la parola Stato è impiegata per designare il soggetto di imputazione dei rapporti internazionali o con altri ordinamenti (articoli 7, 8 e 11), o la persona giuridica (articolo 28), o lo Stato centrale, distinto dalle autonomie territoriali e insieme ad esse componente la Repubblica (articoli 5 e 114).
La letteratura scientifica, a cominciare da Costantino Mortati, suole distinguere fra “Stato-apparato” o “Stato-governo” quale «complesso dell’organizzazione e dell’attività che fa capo al potere supremo di comando, con la funzione di assicurare le esigenze unitarie dell’ordinamento», e “Stato-comunità” quale «insieme dei soggetti, distinti dal primo, forniti di propria organizzazione per l’esercizio dei poteri di autonomia dei quali sono titolari», e distinti in «due sottocategorie, costituita l’una dalle autonomie di carattere privato, l’altra da quelle d’indole pubblicistica»[1]. La distinzione non coincide con quella tra Stato e Repubblica, poiché a differenza di Repubblica lo Stato-comunità è nozione comprensiva delle autonomie di carattere privato, anche se la differenza si è per certi versi e in parte attenuata col riconoscimento che «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati» può servire a «lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà» (articolo 118 Cost. nel testo approvato con legge costituzionale n. 3 del 2001).
In definitiva, la totalità dell’unità politica è descritta tanto nella Costituzione quanto nella letteratura scientifica con una pluralità di concetti giuridici, da considerarsi essa stessa coessenziale alla struttura di uno Stato costituzionale democratico. Anche il ricorso al concetto di popolo, che designa il soggetto titolare della sovranità, non rimanda per ciò stesso a un sostrato ontologico preesistente al diritto costituzionale e definibile per certe caratteristiche naturali. Anche il popolo sovrano diventa un concetto giuridico, dunque artificiale, al pari degli altri che descrivono la totalità dell’unità politica. La quale non può essere data una volta per tutte, ma equivale a un costrutto dinamico che ammette una pluralità di prospettive. Lo stesso intento dei Costituenti di sottolineare la permanenza in capo al popolo del potere sovrano spiega perché il concetto costituzionale (più che la sola concezione dei Costituenti) di democrazia non può esaurirsi nell’investitura elettorale dei governanti e dunque nel governo della maggioranza. Ma se in base all’articolo 1 il popolo non è il «sovrano per un giorno» di cui aveva parlato polemicamente Rousseau a proposito del popolo inglese, esso non è nemmeno un entità amorfa, o indefinibile proprio in quanto sovrana: al contrario, il popolo si definisce attraverso le “forme” ed entro i “limiti” in cui esercita il potere sovrano di cui è titolare.
D’altra parte, la natura artificiale di tali concetti, “popolo compreso”, non comporta che essi si risolvano in vuote astrazioni. La loro fortuna è infatti legata non solo alle lotte per radicare la convivenza costituzionale ma, in misura non minore, a processi di continuo apprendimento dei valori inclusivi che li connotano. Il costituzionalismo del secondo dopoguerra supera infatti il timore, periodicamente ricorrente nella storia costituzionale degli Stati europei, che la diversificazione delle prospettive e l’articolazione della pluralità dei soggetti minaccino l’unità politica. Lo dimostrano, nella Costituzione italiana, il concorso dei partiti alla determinazione della politica nazionale, il pluralismo delle formazioni sociali, il riconoscimento delle autonomie territoriali da parte di una Repubblica «una e indivisibile». In questo senso lo sguardo della Costituzione è uno sguardo fiducioso sul futuro della convivenza, a partire dalla possibilità di un idem sentire de re publica fra parti politiche profondamente eterogenee, quali quelle che diedero vita alla Costituzione.
3. La limitazione del potere politico nello Stato costituzionale
Nello Stato costituzionale, il significato e il tipo di protezione accordata ai diritti fondamentali hanno comportato forti implicazioni sulla configurazione del concetto di Stato di diritto. All’epoca del liberalismo ottocentesco, per Stato di diritto si intendeva uno Stato nel quale vige il principio di legalità, cioè il principio di conformità alla legge – o, in una versione più debole, di compatibilità con la legge – del contenuto degli atti dell’esecutivo. In estrema sintesi, la fortuna di questa accezione di Stato di diritto si può assumere coincidente con la nascita e con la successiva affermazione della giustizia amministrativa. Il controllo giurisdizionale sulla legalità degli atti dell’esecutivo, ad eccezione di una serie di atti del governo sottratti a controllo giurisdizionale in virtù della loro natura di “atti politici”, costituiva la migliore conferma del primato della legge su qualunque altro atto dei pubblici poteri, che costituiva un dogma insuperabile dell’ordinamento giuridico allora vigente. E poiché la legge, quale atto dotato dei caratteri della generalità e dell’astrattezza, veniva considerata l’atto che garantiva al massimo grado le situazioni giuridiche soggettive, il controllo del giudice amministrativo sul rispetto della legalità da parte dell’esecutivo costituiva anche la migliore conferma della garanzia di tali situazioni. Proprio in quanto atto generale e astratto, la legge poteva distinguersi infatti dal provvedimento amministrativo, atto particolare e concreto, e fungere da termine di raffronto della legalità del provvedimento.
In uno Stato costituzionale, i presupposti su cui era stato costruito lo Stato di diritto vengono a mutare. La subordinazione della legge alla costituzione e la connessa attribuzione del controllo di costituzionalità sulle leggi all’organo di giurisdizione costituzionale costituiscono sicuramente i due elementi di più forte discontinuità. È vero che, per quanto riguarda il nostro ordinamento, la legalità venne articolata in due sfere idealmente separate, legalità costituzionale e legalità ordinaria[2], distinguendo le relative garanzie giurisdizionali: in tanto l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale si arresta alle leggi e agli atti aventi forza di legge, in quanto gli atti normativi e amministrativi subordinati alla legge formano oggetto del sindacato di un giudice amministrativo preposto alla tutela della legalità ordinaria.
Non è necessario soffermarsi qui sulle implicazioni che tale separazione ha comportato sulla nostra esperienza costituzionale. La questione che occorre porre è piuttosto se il concetto costituzionale di Stato di diritto si esaurisca in questi elementi. Se così fosse, la discontinuità con l’ordinamento anteriore si ridurrebbe al passaggio dal primato della legge-atto al primato della Costituzione-atto, e tanto la legge quanto la Costituzione dovrebbero concepirsi «manifestazioni della volontà dello Stato», secondo la costruzione giuspubblicistica delle fonti del diritto dell’epoca statutaria. La Costituzione preclude una tale possibilità, per ragioni che corrispondentemente consentono di percepire in positivo il significato da attribuire al suo primato sugli altri atti dei pubblici poteri.
In primo luogo, se è vero, come ha detto anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 1146 del 1988, che la Costituzione garantisce e riconosce i diritti inviolabili dell’uomo anche nei confronti delle leggi costituzionali, ciò equivale a introdurre un elemento materiale al vertice del sistema delle fonti del diritto, che impedisce di costruire tale sistema alla stregua di un criterio esclusivamente formale. In secondo luogo, con la Costituzione, lo Stato diventa un complesso di pubblici poteri unificati da un centro di imputazione, e fra loro distinti in ragione di attribuzioni volte all’attuazione di finalità o di valori costituzionalmente prefissati. In terzo luogo, tali finalità o valori sono orientati dai princìpi fondamentali del riconoscimento e della garanzia dei diritti inviolabili e dell’eguaglianza sostanziale (rispettivamente, articoli 2 e 3), che in ambedue i casi spetta alla “Repubblica” rispettare e promuovere: e la nozione di Repubblica è più ampia di quella di Stato, in quanto comprensiva delle autonomie territoriali (articolo 5) e di molte tra le formazioni sociali che connotano il principio pluralistico (articolo 2).
Gli elementi ora riportati, in parte desunti dal diritto costituzionale positivo e in parte da un’interpretazione aggiornata allo stato della giurisprudenza, qualificano il primato della Costituzione sulla legge in un senso molto più pregnante del profilo della gerarchia formale, e prospettano nello stesso tempo una nozione di Stato di diritto adeguata ai princìpi del vigente ordinamento costituzionale.
Quanto detto trova preciso riscontro sul versante dell’organizzazione dei pubblici poteri.
Le Costituzioni europee del secondo dopoguerra hanno bensì accolto la separazione dei poteri quale principio volto ad impedire un’accumulazione di potere in capo a un solo organo, ritenuta da Montesquieu in poi pericolosa per la libertà dei cittadini, ma nello stesso tempo hanno fornito di tale principio una versione molto più complessa di quella ricavabile dalle Costituzioni settecentesche, come la Costituzione degli Stati Uniti e quella francese del 1791, che al pensiero di Montesquieu più o meno fedelmente si ispirarono.
Tale maggiore complessità deriva in primo luogo dalla circostanza che la separazione dei poteri non corrisponde necessariamente alla separazione delle funzioni. Nel caso del potere giudiziario, la separazione dagli altri poteri si esprime sotto forma di «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (articolo 104 Cost.), dunque non solo in forma esplicita, ma anche al massimo grado: e l’attribuzione a un organo, composto per due terzi da magistrati e presieduto dal Presidente della Repubblica, di tutte le funzioni concernenti lo status dei magistrati (Consiglio superiore della magistratura: articoli 104 e 105) concretizza la proclamazione di autonomia e indipendenza del potere giudiziario. Per quanto riguarda le funzioni, l’affermazione che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» (articolo 101) significa che i giudici non sono soggetti ad altri poteri od organi, compreso il Parlamento, ma soltanto alla legge in quanto atto normativo, atto di volontà parlamentare obiettivato in norme. Qui vi è corrispondenza tra separazione dei poteri e separazione delle funzioni.
Diverso è il caso dei rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo. La funzione legislativa, dice l’articolo 70, è «esercitata collettivamente dalle due Camere», e si estrinseca in un atto, la legge, non solo distinta ma gerarchicamente sovraordinata agli atti dell’esecutivo, tranne quelli che la Costituzione equipara alla legge: decreto-legge e decreto legislativo (articoli 76 e 77). Inoltre, l’attribuzione al Parlamento della disciplina di numerose materie, che dà luogo all’istituto della riserva di legge, presuppone la consapevolezza di una netta e profonda differenza tra procedimento legislativo, al quale prendono parte le minoranze parlamentari e che soggiace al principio di pubblicità, e procedimento di formazione di un atto dell’esecutivo, che è dominus dell’atto stesso in condizioni di riservatezza. Nell’esercizio della funzione di produzione normativa, tra potere legislativo e potere esecutivo vige dunque il principio di separazione. Nell’esercizio dell’indirizzo politico, tutto al contrario, vale la regola che connota la forma di governo parlamentare, secondo la quale il Governo non può entrare nell’esercizio delle proprie funzioni né può restare in carica se non gode della fiducia della maggioranza parlamentare. Pertanto, nei rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, il principio di separazione dei poteri vale limitatamente allo svolgimento della funzione di produzione normativa.
Che il principio di separazione dei poteri non coincida necessariamente con la distribuzione costituzionale delle funzioni, è ulteriormente dimostrato dalla istituzione di organi di garanzia costituzionale, come il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, che non rientrano nella classica tripartizione dei poteri in legislativo, esecutivo e giudiziario. Non vi rientra il Presidente della Repubblica, quale «rappresentante dell’unità nazionale» istituzionalmente estraneo, anche se non superiore, alle contese politiche. Né la Corte costituzionale rientra nell’ambito del potere giudiziario, pur essendole ormai riconosciuta la natura di organo giurisdizionale. Questi organi costituzionali sono tali in ragione delle attribuzioni costituzionali di cui risultano investiti, e accomunabili per la funzione di garanzia dell’ordinamento repubblicano che su piani e a fini diversi sono chiamati a svolgere, senza per ciò rientrare tra i poteri dello Stato in senso tradizionale.
4. La combinazione fra legittimazione e limitazione del potere
Possiamo a questo punto esaminare le modalità con cui il costituzionalismo combina la legittimazione e la limitazione del potere, vale a dire i due assi su cui si regge.
Nel disciplinare le funzioni, e le reciproche interazioni fra i pubblici poteri chiamati a perseguire i loro princìpi, le Costituzioni del secondo dopoguerra fanno dipendere la legittimità dell’esercizio del potere a princìpi che garantiscono i diritti dei cittadini al di fuori del dominio della politica, e nello stesso tempo conferiscono ai cittadini il potere di legittimare tale dominio attraverso l’esercizio dei loro diritti politici. Dal punto di vista istituzionale, le sfere della democrazia e delle garanzie dei diritti risultano strutturate in modo da ottimizzare il godimento dei diritti fondamentali dei cittadini.
La stessa strutturazione che appare finalizzata a tale risultato ex parte populi comporta una differenziazione del potere ex parte principis che va ben oltre il principio di separazione nell’accezione tradizionale, non solo per quanto si è detto, ma anche perché presuppone la possibilità di tensioni e conflitti fra istituzioni, ora suscettibili di composizione in sede giurisdizionale, con lo strumento del conflitto di attribuzioni, ora assorbibili nel corso del tempo. Il tempo è una risorsa fondamentale per il costituzionalismo, proprio perché esso non scommette sempre su soluzioni definitive ma consente processi di apprendimento delle altrui ragioni in un arco temporale non previamente determinabile.
Quanto ora detto vale anzitutto per il rapporto fra Parlamento e Corte costituzionale. La stessa instaurazione della Corte poneva invero il problema della sua legittimazione ad annullare le leggi in quanto prodotto di un’organo eletto in virtù di procedure democratiche. Eppure si comprese gradualmente che, in uno Stato costituzionale, la “tirannide della maggioranza” di Alexis de Tocqueville poneva problemi di legittimazione non meno forti della “difficoltà contro-maggioritaria” cui si riferì per primo Alexander Bickel. Il fatto è che ambedue le questioni rimandano a concezioni confliggenti del potere, ma pur sempre compresenti nelle stesse Costituzioni. Sul piano funzionale, i conflitti fra garanzia dei diritti e legittimazione democratica del potere diventano così fisiologici: l’interpretazione costituzionale è lasciata alle Corti, fino a quando non intervengano sul punto revisioni costituzionali, il cui significato può però a sua volta diventare oggetto di interpretazione nel corso del tempo. Conflitti simili, si presuppone, sono destinati a restare aperti nella misura in cui manca un depositario dell’ultima parola.
Nell’esperienza dello Stato costituzionale, la variabile combinazione nel corso del tempo del principio democratico col principio di legalità costituzionale ha a lungo assicurato una flessibilità necessaria e sufficiente ad assorbire tensioni anche distruttive fra l’uno e l’altro. Non stiamo parlando, però, di un modello astratto. Per cui uno squilibrio strutturale fra l’elemento democratico e l’elemento garantistico non si può mai escludere.
5. La semplificazione dei populisti
Le proposte e i comportamenti dei partiti populisti differiscono radicalmente dalle premesse su cui si è fondato e si è sviluppato lo Stato costituzionale. All’inizio, mi sono limitato a designare col termine populismo l’ideologia che si ripromette di ridare voce a un popolo dimenticato dalle élite politiche e di contestare il ruolo degli organi di garanzia ogni volta che non sia subordinato a quello degli eletti dal popolo. In effetti, l’attitudine dei partiti populisti verso i due assi del sistema costituzionale è molto differenziata.
L’accusa rivolta alle istituzioni di garanzia è di usurpare poteri che in democrazia spetterebbero ai soli rappresentanti. È un’accusa antica, ma che si presenta in una veste nuova. Le garanzie costituzionali sono infatti totalmente estranee ai populisti, in quanto sono preordinate a limitare il potere politico, per cui la minaccia investe la loro ragion d’essere, che viene meno non solo quando le Corti costituzionali vengono soppresse, caso piuttosto raro, ma nella stessa misura quando esse, o i giudici comuni, vengono menomate nella loro indipendenza.
Più complessa è la questione delle conseguenze dell’ascesa del populismo sulla rappresentanza politica. I populisti si presentano regolarmente alle elezioni senza contestare le procedure rappresentative, né risultano sempre affezionati agli istituti di democrazia diretta, che in apparenza dovrebbero essere più vicini alle loro predicazioni sulla sovranità popolare conculcata dall’establishment, e ancor più raramente propongono di abolire il divieto di mandato imperativo, che assicura quella distanza dagli elettori che insieme alla libertà dell’opinione pubblica si pone alla base del suo funzionamento. Eppure l’idea di una distanza dagli elettori ripugna alla immagine di “uomini del popolo” che i populisti tendono a trasmettere di sé. La spiegazione più semplice è che vogliono andare al potere utilizzando gli strumenti che il sistema democratico mette loro a disposizione, e tentare poi di monopolizzarlo in nome della maggioranza che hanno conquistato. Nulla a che vedere con i tormenti di Rousseau, insomma.
Sebbene il loro bagaglio teorico sia spesso leggerissimo, ciò non toglie che i populisti riescano ad affermarsi anche in virtù di proposte e prassi che configurano una drastica semplificazione degli assetti istituzionali e del quadro dei princìpi fondamentali propri dello Stato costituzionale.
Prima di interrogarci sulle ragioni del loro successo sotto questo profilo, occorre approfondire il senso di tale semplificazione. Se nello Stato costituzionale la legittimazione democratica del potere politico si combina con la sua limitazione giuridica in vista dell’ottimizzazione del godimento dei diritti fondamentali dei cittadini, ogni scissione fra i due assi ne fa cadere l’intera struttura.
È quanto dimentica la formula “democrazie illiberali”, con cui oggi si designano di frequente regimi illiberali dove i membri del Parlamento vengono eletti a suffragio universale. Da quando Fareed Zakaria coniò la formula[3], la diffusione di quei regimi, che recano tutti lo stigma del populismo, è cresciuta in misura esponenziale fuori e dentro l’Europa. Ciò non toglie che la formula sia sbagliata. La semplificazione populista equivale infatti a comprimere quei diritti di libertà, a partire dalla libera espressione del pensiero, e quelle libertà collettive, di associazione e di riunione, senza cui l’esercizio del diritto di voto viene fatalmente manipolato dall’alto, con la conseguenza di ridurre le elezioni a rituali utili solo alla legittimazione plebiscitaria dei Governi e dei leader in carica. Ecco perché, una volta insediati, i regimi illiberali di cui stiamo parlando tendono spesso a stabilizzarsi. Non a caso, la pretesa che la democrazia possa fare a meno dei diritti di libertà è stata più volte avanzata dal Primo ministro ungherese Viktor Orbán, il più lucido dei leader populisti.
D’altra parte la stessa nozione di “popolo” incorporata nell’ideologia populista ci appare come la controfigura di quella che abbiamo visto connotare lo Stato costituzionale: dove la totalità dell’unità politica non si lascia imprigionare in una comunità omogenea, necessariamente preesistente al diritto costituzionale, fissata una volta per tutte, e perciò destinata a riprodurre all’infinito la propria identità. Non è questa forse la finzione fondamentale del populismo, che pure si vorrebbe portatore della voce del popolo concreto, alieno dalle nozioni artificiali che costellano l’orizzonte del costituzionalismo? Lo è. Eppure proprio una simile versione contraffatta e primitiva di identità popolare riflette un ambiente comunicativo nel quale il dibattito pubblico si struttura in termini di singole situazioni piuttosto che di princìpi, e la consapevolezza di un futuro comune viene sostituita da percezioni[4]. Più prevale “l’eterno presente”, più la rappresentanza politica si riduce a rispecchiamento degli umori popolari, maggiori diventano le chances di successo della semplificazione populista.
Siamo così entrati in un diverso ambito problematico. Dire che un voto popolare autenticamente libero non è pensabile senza robuste istituzioni di garanzia dei diritti fondamentali equivale oggi a ribadire la promessa del costituzionalismo contemporaneo. Ma il populismo può per ciò stesso ritenersi un corpo estraneo agli andamenti dei rapporti fra le istituzioni e alle trasformazioni sociali intervenute nello sviluppo dello Stato costituzionale? L’ambiente comunicativo nel quale siamo immersi, la risalente crisi dei partiti eredi della tradizione democratica, la disintermediazione che affligge altre formazioni sociali suggerirebbero già una risposta negativa. Ma vi sono buone ragioni per approfondire la questione.
6. L’ascesa del populismo quale reazione ai mutati rapporti fra pubblici poteri
Abbiamo visto che l’attitudine dei populisti verso le istituzioni si differenzia a seconda dei loro titoli di legittimazione. Pur interpretandolo in modo distorto, costoro non rimettono in discussione il sistema rappresentativo come tale, limitandosi ad attaccare la “classe politica” per aver perso il contatto col popolo e appartenere ormai all’establishment. Invece il loro attacco alle istituzioni non-maggioritarie è concentrato proprio sulla loro legittimazione. Se l’accusa ai politici è soltanto di aver tradito la loro missione, quella rivolta prima o poi alle istituzioni non legittimate dal voto popolare è di usurpare poteri che non dovrebbero spettare a loro in una democrazia.
Nel tentativo di comprendere la presa di questo discorso nell’opinione pubblica, si è osservato come negli ultimi decenni, mentre l’elemento democratico delle democrazie costituzionali ha continuato a basarsi sull’elezione popolare dei rappresentanti, si sia avuta una crescita impetuosa di istituzioni non-maggioritarie, con una corrispondente riduzione dello spazio riservato alla politica e al popolo. Saremmo insomma andati “troppo oltre” nel creare istituzioni non-maggioritarie[5].
La crescita di tali istituzioni mi pare indiscutibile, mentre la deduzione che se ne trae mi appare troppo meccanica. Occorrerebbe prima provare il fallimento dello Stato costituzionale nella sua comprovata capacità di assorbire tensioni attraverso continui aggiustamenti fra l’elemento democratico e l’elemento liberale-garantistico del sistema, compresa la creazione di nuove istituzioni. Secondo Shmuel Eisenstadt, si tratterebbe di un gioco non a somma zero, possibile in società caratterizzate da processi politici aperti, nelle quali i giocatori cooperano nella consapevolezza che le loro perdite sono solo temporanee e possono essere recuperate successivamente anche attraverso l’accesso a nuove istituzioni[6]. In questa prospettiva, la frammentazione del potere pubblico diventa un’opportunità per la stabilità del sistema, purché persista la fiducia reciproca fra i partecipanti al gioco[7]. La stessa ben nota ipotesi degli effetti spillover delle istituzioni sovranazionali sull’integrazione europea sembra affine a questo approccio. La questione se siamo andati “troppo oltre” dovrebbe allora dipendere dal perdurare degli incentivi a proseguire un gioco cooperativo e, in stretta correlazione, della fiducia reciproca fra i giocatori.
Ora, non solo tale fiducia è quantomeno dubbia, ma non è nemmeno facile dire se le decisioni che portarono alla proliferazione di istituzioni non-maggioritarie siano dipese dalla convinzione che quelle istituzioni sarebbero state meglio attrezzate degli organi di indirizzo politico ad adottare misure di lungo periodo, o invece, almeno in parte, dal timore di perdere consenso elettorale nel breve termine. Certo è che quelle decisioni accrebbero il divario fra potere e responsabilità. Non per l’irresponsabilità politica delle istituzioni non-maggioritarie, che hanno altre forme e sedi per assumere responsabilità per il loro operato, ma perché il trasferimento di poteri assai ampi a loro favore rendeva sempre meno intellegibile il processo di governo agli occhi dei cittadini, insinuando il sospetto di una degenerazione oligarchica.
In tale prospettiva l’ascesa del populismo potrebbe assumere le sembianze di una rivolta verso la complessità del governo contemporaneo derivante dalla crescita dei processi di differenziazione, che avrebbe fatto premio sui benefici che Eisenstadt associa al mantenimento di un Governo diviso o frammentato. Non lo si può escludere. In ogni caso, anche impiegando questa chiave di lettura, l’ascesa del populismo non potrebbe ricollegarsi a uno squilibrio strutturale intervenuto fra istituzioni legittimate in via democratica e istituzioni non maggioritarie, o se si vuole fra il lato popolare e il lato aristocratico dell’assetto istituzionale.
7. Populismo politico e populismo giudiziario
Quanto ora detto vale a più forte ragione se consideriamo un ulteriore elemento. Parlando di creazione di istituzioni non-maggioritarie, ho finora implicitamente escluso dalla ricognizione il potere giudiziario, del quale si è casomai notata da tempo l’espansione su scala globale[8]. Ma si può forse dire che il conseguente squilibrio ai danni del potere politico abbia alimentato l’ascesa del populismo?
Lo smentisce la stessa attenzione dei giuristi al “populismo giudiziario”, ricorrente ogni volta che «il magistrato pretende di assumere un ruolo di autentico rappresentante o interprete dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (o della cosiddetta gente), al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza se non addirittura di aperto conflitto con il potere politico ufficiale»[9]. Siamo perciò in presenza di un fenomeno più pervasivo, che scavalca le distinzioni di ruoli istituzionali fino a vanificare le rispettive funzioni. È il caso del “magistrato-tribuno” che tende «a privilegiare un sostanzialismo repressivo poco attento alle questioni giuridiche e insufficientemente sensibile alle esigenze del garantismo individuale. Quel che soprattutto conta è che il processo, e prima ancora l’indagine con la sua risonanza mediatica stigmatizzatrice conseguano l’effetto di criminalizzare e mettere alla gogna soggetti indagati trasformati, sin da subito, in colpevoli anticipati»[10]. Come è il caso dei rappresentanti della nazione che rispecchiano o addirittura alimentano le paure dei rappresentati per l’incombere di poteri sovrastanti, rinunciando così a curare l’interesse generale a contenere quegli stessi poteri.
8. Populismo, diritto e società
La pervasività del populismo suggerisce di guardare al fenomeno da una prospettiva diversa da quella corrente tra i giuristi, abituati a ricercare le ragioni dei problemi all’interno del sistema giuridico. Anche se, in questo, sono aiutato da uno di loro, quando parla, specificamente per l’Italia, di un vuoto di etica pubblica condivisa succeduto alla fine delle ideologie novecentesche, di una «anomia diffusa dove è il diritto, e nei limiti invalicabili del lecito il diritto penale, a rappresentare l’etica pubblica della società civile, nella quale quasi tutti non possono o non dovrebbero potere non riconoscersi»[11]. Altri ragionano invece di un prepotente riemergere del “lato oscuro della socializzazione”, termine convenzionalmente associato a processi sociali capaci di espellere la barbarie, e invece riferibile pure a un «accrescimento delle proprie prerogative sociali poste come dura necessità contro la quale altre esistenze sociali si scontrano fino ad essere destinate alla espulsione, alla subornazione, alla dissoluzione, allo scarto, alla eliminazione»[12].
Per quanto divergenti, ambedue le prospettive ci consentono di comprendere quanto facilmente la semplificazione populista abbia potuto e possa allignare in un deserto di convinzioni sufficientemente condivise circa le buone ragioni dello stare insieme. E come gli studiosi intenti a salvaguardare i princìpi fondativi dello Stato costituzionale debbano accompagnare profondi ripensamenti sulle sue vicende più recenti con la ricerca delle vie per ricostruire quel tessuto plurale della società che oggi appare lacerato o distrutto.
[1] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, I, Cedam, Padova, 1969, p. 43.
[2] C. Mezzanotte, La Corte costituzionale: esperienze e prospettive, in Attualità e attuazione della Costituzione, Roma Bari, Laterza, 1979, p. 151.
[3] F. Zakaria, The Rise of Illiberal Democracy, in Foreign Affairs, 1997, pp. 18 ss.
[4] V. ad es. J.M.Guéhenno, La fin de la démocratie, Flammarion, Paris, 1993.
[5] Y. Mény - Y. Surel, Populismo e democrazia, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 51 ss.
[6] S. N. Eisenstadt, Paradossi della democrazia. Verso democrazie illiberali?, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 102 ss.
[7] S. N. Eisenstadt, Paradossi della democrazia, cit., p. 106.
[8] V. già C. N.Tate and T. Vallinder (eds.), The Global Expansion of Judicial Power, New York, New York University Press, 1995.
[9] G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, p. 105, www.edizioniets.com/criminalia/2013/pdf/02-1-Fiandaca2.pdf.
[10] G. Fiandaca, Populismo politico, cit., p. 111.
[11] M. Donini, Il diritto penale come etica pubblica, Modena, Mucchi, 2014, p. 38.
[12] A. Bixio, Riflessioni sul diritto naturale e sulla naturalità del diritto, in E. Bilotti, D. Farace, M. C. Malaguti (a cura di), Cultura giuridica per un nuovo umanesimo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2015, p. 21.