Popolo, Nazione e libero mandato: la sovranità popolare come limite, non già come potere
1. Populismo “in pillole” ed effetti sul libero mandato parlamentare
L’articolo 1 della Costituzione aiuta a leggere i più recenti sviluppi della società (non solo) italiana, nelle diverse declinazioni civile, politica e – inevitabilmente – giuridica.
Della disposizione è ormai diffusa una ermeneutica monca e sintetica, nella quale è intenzionalmente elisa una conquista della modernità: si afferma che la sovranità appartenga al popolo, ma si trascura che l’esercizio debba avvenire nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Per questa via si perde il significato più intimo del diritto quale limite al potere[1] e si guarda alla sovranità solo come situazione soggettiva, non anche quale precipitato ed al contempo elemento costitutivo dello Stato di diritto.
La lettura della sovranità come potere e non come limite è una tessera di un più ampio mosaico, la cui traccia essenziale sembra essere la mortificazione dell’efficacia prescrittiva della Costituzione, non a caso oggetto di costanti attacchi, dissimulati anche in più o meno radicali tentativi di riforma.
In questo affresco plebiscitario[2], il popolo è fonte di legittimazione del potere politico; declinato quale somma dei cittadini, esso partecipa con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale attraverso i partiti ed i rappresentanti politici, che ne costituiscono quasi articolazioni funzionali.
Per una esigenza antropomorfica, il popolo si entifica e personalizza, riconoscendosi nel vertice rappresentativo del partito. Il “capo” politico ha il ruolo di interpretare, diffondere e tutelare la volontà del popolo, trovando in ciò la propria legittimazione.
Si tratta di una relazione fortemente identitaria, perché soltanto la specularità assiologica consente al popolo di riconoscersi nell’organo rappresentativo ed, al contempo, di versare in quest’ultimo quella sovranità come potere che deve riconoscersi ai cittadini[3].
Ciò che accadrebbe senza pregiudizio per la democrazia pluralista, vivificata dal confronto fra diverse forze politiche, intese come strumenti di espressione di quel prisma identitario che è la volontà popolare, destinata ad una reductio ad unum in ragione del principio maggioritario: il popolo sovrano è quello che si afferma nella competizione elettorale e, semmai, la democraticità è risolta nella possibilità dell’alternanza[4].
Una simile lettura del reale riposa – tra gli altri – su alcuni cardini imprescindibili.
Il primo cardine è la crisi del partito politico in quanto strumento per il concorso del cittadino alla determinazione della politica nazionale[5]. L’idealtipo del partito di massa del secondo dopoguerra svolge una funzione quasi pedagogica del popolo[6], essendo chiamato ad organizzarne le forme cognitive ed espressive, da improntarsi all’attuazione dei valori della Costituzione democratica. Un partito che educa, istruisce e forma, acquisendo il consenso nel dialogo e nel confronto[7].
Il partito della post-modernità[8] si legittima nella relazione identitaria con il popolo e ne intercetta acriticamente le esigenze e le pulsioni, senza stimolo per la riflessione. Tanto che la tecnica comunicativa per la formazione del consenso è quella pubblicitaria, fondata sullo spot o sul motto di spirito quale tecnica di captazione dell’adesione emozionale alla raffigurazione di una specifica necessità, in luogo della condivisione intima di una visione del mondo[9].
Il secondo cardine è la sempre maggiore liquidità dei governati e, conseguentemente, dei governanti, che ha concorso ad esacerbare la crisi della rappresentanza politica[10].
Il terzo cardine è la frammentazione sociale, che si è sostituita al pluralismo. Il popolo non è la sintesi di una articolata molteplicità, che esprime una volontà collettiva. È piuttosto interpretato come prisma di gruppi contrapposti, la composizione dei quali si trova soltanto nello scontro e nell’affermazione elettorale. In questa democrazia “per parti separate”, si afferma l’idea che «la legalità possa, anzi, debba essere il mero prodotto dell’attività della maggioranza parlamentare»[11], distorcendosi l’essenza della politica, che da affermazione di libertà[12] diviene dominio di una elite. Con il che la sineddoche è compiuta e si confonde il popolo (portatore della verità) con una fazione elettorale (espressione, al più, di una verità)[13].
Il corollario di tali presupposti si coglie sul piano della funzione parlamentare.
Se la volontà del popolo è potere sovrano che, attraverso il partito guidato da un leader, plasma la politica nazionale, il parlamentare è chiamato ad eseguirne le determinazioni: partito politico e gruppo parlamentare si giustappongono, senza che sia possibile più distinguere l’immagine del reale dalla sua proiezione[14]. In altri termini, la democrazia rappresentativa si trasforma in democrazia identitaria[15].
L’eletto trae la propria legittimazione, all’atto di investitura, direttamente dal popolo e ad esso non può che ricondurre ogni propria funzione, essendo tenuto a realizzarne quel coacervo di esigenze, bisogni ed aspettative che si traducono in sintesi nella volontà popolare (in realtà, di un certo popolo e non del popolo nel suo insieme) e si risolvono nell’azione attraverso la quale si plasma la politica nazionale.
Il che svuota di contenuto, va da sé, il principio della libertà del mandato parlamentare, già minato alle fondamenta dal quel transfughismo che, talvolta legittimo[16] e talaltra dettato ora da ragioni ideali, ora da mera convenienza politica se non addirittura economica, costituisce una pratica applicazione della crisi della rappresentanza politica.
Il precipitato della svalutazione dell’articolo 67 della Costituzione si coglie i) dalle frequenti proposte di riforma della disposizione; ii) dal fiorire, negli statuti dei partiti politici (dei movimenti o nei regolamenti dei gruppi parlamentari), di norme che espressamente sanzionano il parlamentare dissidente, anche comminando pene private in uno all’espulsione od all’obbligo di dimissioni; iii) in parte, pur se insieme a ben diverse ragioni di garanzia del corretto funzionamento dei lavori assembleari, dalle modifiche dei regolamenti parlamentari, che collegano al cambio di gruppo parlamentare la decadenza dalla carica di vicepresidente o segretario (articolo 13, comma 1, bis Regilamento Senato; articolo 5, comma 3, Regolamento Camera) o in genere dei componenti dell’ufficio di Presidenza (articolo 27, comma 3 bis, Regolamento Senato).
Ebbene, non sembra ancora giunto il tempo di un epitaffio del libero mandato parlamentare, perché i presupposti sui quali lo si pretende di fondare, per come descritti in estrema sintesi, appaiono assai fragili se guardati alla luce del diritto costituzionale positivo, contraddetto proprio nel considerare il popolo, siccome titolare della sovranità, il soggetto della relazione di rappresentanza politica con l’eletto.
2. La rappresentanza politica e la funzione del libero mandato parlamentare
La rappresentanza è una finzione[17] nella quale v’è al contempo la situazione soggettiva – che collega il rappresentante ai terzi con cui interagisce – ed il rapporto con il rappresentato[18].
Non v’è una effettiva differenza strutturale fra rappresentanza giuridica e politica, nel senso che in entrambe esistono situazione e rapporto, pur se connotati da caratteristiche del tutto peculiari[19]. Radicale è, di contro, la diversità quanto al bene tutelato, poiché solo nella rappresentanza politica, in cui si trasmettono «identità culturali, valori, idee, convincimenti morali», si ha «capacità di orientamento di comportamenti umani e di intere visioni del mondo»[20].
Nella rappresentanza giuridica si ha specifica determinazione dei limiti e dei poteri del rappresentante, al fine di assicurare la migliore cura del particolare interesse del rappresentato. Lo stesso accadeva in alcune[21] Assemblee medievali, laddove l’incarico conferito al rappresentante, revocabile ed oneroso, recava le prescrizioni vincolanti (cahiers de doléance) che impedivano il regolare funzionamento delle assemblee, quando venissero in discussione argomenti per i quali non era stata conferito alcun potere rappresentativo[22].
In ciò riposa la genesi del principio del libero mandato parlamentare: esso, da prerogativa regia diviene strumento per assicurare il regolare funzionamento delle assemblee, così come il vincolo di mandato assicurava a contee, baliaggi e corporazioni uno strumento di protezione verso l’esercizio del potere del sovrano[23].
Al contempo, però, in questo processo evolutivo il rapporto rappresentativo si affranca dalla cura degli interessi particolari dei rappresentati, per divenire funzionale alla protezione di un superiore e più ampio bene giuridico.
La palingenesi avviene in occasione della convocazione degli Stati Generali disposta da Luigi XVI: nel decreto che fissa la riunione del 23 giugno 1789 il sovrano si affanna a porre un divieto di mandato imperativo per i rappresentanti, affinché sia assicurato il regolare svolgimento dei lavori assembleari; ma nel contempo, Sieyes sollecita la convocazione di «tutti i rappresentanti della Nazione» e promuove la costituzione dell’Assemblea nazionale. Proprio nella sala della Pallacorda il 20 giugno 1789 viene data lettura del celebre giuramento, illuminante per la compiuta comprensione delle esigenze sottese alla successiva negazione della validità dei mandati imperativi.
Vi si legge che «L’Assemblea nazionale» è «chiamata a stabilire la Costituzione del regno, ad operare la rigenerazione dell’ordine pubblico». I rappresentanti del Terzo stato che in essa siedono, pur se per incarico di singoli mandanti e con prescrizioni espresse nei cahiers, divengono il motore di una rivoluzione politica e sociale che – pur rispettando ancora l’istituzione Monarchica – trascende l’atto di preposizione che ne fonda i poteri ed il mandato conferito dagli “elettori”, ponendosi quale strumento d’attuazione di un diverso e superiore interesse collettivo.
In questo modo la situazione rappresentativa diviene preminente rispetto al rapporto, tanto che si nega alla radice l’ammissibilità della revoca degli eletti[24], pur non ignorandosi le problematiche del controllo e della responsabilità dei deputati, analizzate dallo stesso Robespierre[25].
La libertà del mandato parlamentare continua a garantire al contempo il funzionamento dell’assemblea elettiva e la cura di un interesse superiore rispetto a quello imputabile ai rappresentati anche nel vigore dello Statuto Albertino, che all’articolo 41 recepisce la formula della rappresentanza della Nazione e del divieto di mandato imperativo. Attraverso l’esperienza fascista, durante la quale il bene protetto nell’esercizio della funzione parlamentare si è risolto nell’interesse superiore dello Stato, il principio è giunto sino alla Costituzione del 1947, pur nella palingenesi dell’interesse protetto desumibile dalla corretta esegesi del riferimento alla “Nazione” come entità rappresentata.
3. La fragilità della critica populista alla libertà del mandato parlamentare: la nozione di popolo, guardata sotto la lente della rappresentanza politica dell’incapace
Per meglio intendere quali difficoltà dissimuli la superficialità dell’ipostatizzazione della sovranità popolare, quale fonte di legittimazione e vincolo alla libertà del mandato parlamentare, conviene riflettere sulla nozione di popolo, soffermandosi in particolare sulla rappresentanza politica dell’incapace.
Nel modello di democrazia identitaria fondata sul plebiscito, si assiste ad una superfetazione del rapporto rappresentativo, a discapito della situazione giuridica del rappresentante: questi, siccome trae responsività dal popolo attraverso i partiti, si pretende che ad esso soggiaccia, con la conseguenza che a) sia possibile eterodeterminarne la condotta e l’esercizio delle funzioni attraverso prescrizioni vincolanti, articolate per il tramite di mezzi informatici[26] o nella forma di vere e proprie direttive di partito; b) il rappresentante cessi l’esercizio dell’officio, laddove non si uniformi alle direttive imposte, per effetto di istituti quali la decadenza o la revoca del mandato.
Nella rappresentanza giuridica, all’incapacità è connesso un sistema di protezione ex lege, come nel caso della responsabilità genitoriale o della tutela: la condotta del rappresentante è funzionalizzata alla migliore cura dell’incapace, tanto che la struttura della situazione soggettiva è descritta in termini di potestà e non di diritto soggettivo. La fonte del potere rappresentativo è la legge, che ne conforma l’esercizio assicurando all’incapace, che non potrebbe spendersi in attività negoziale, il sorgere di una relazione giuridica caratterizzata – ancora una volta – sia in termini di rapporto che di situazione rappresentativa.
Per comprendere cosa accada, invece, nella rappresentanza politica, occorre intendersi sul significato di popolo quale titolare del potere sovrano. Se esso fosse solo corpo elettorale o Stato-apparato, si dovrebbe pervenire alla inaccettabile, elitaria ed errata conclusione che l’incapace sia estraneo alla collettività dei “cittadini”[27] e non abbia parte nella relazione rappresentativa.
Addirittura, se si interpretasse il principio maggioritario nel senso che popolo fosse solo la parte che si afferma nelle elezioni (postulando l’assimilazione di governanti e governati), dovrebbe concludersi che non potrebbero mai essere tali gli incapaci, cui è precluso l’elettorato attivo e passivo.
Il paradosso lascia intendere che c’è un popolo oltre i diritti politici, che si pone in un rapporto dialettico, sia con il corpo elettorale che con l’organizzazione statale, assicurato da una pluralità di fattori: l’opinione pubblica, i partiti politici e le altre formazioni sociali, la massima circolazione delle idee e via discorrendo[28].
La comunità è un coacervo di pulsioni, desideri, esigenze e variegate letture del reale.
Un caos che, trovato il proprio ordine nella Costituzione, si fa società e diviene popolo.
L’incapace è parte del rapporto rappresentativo, proprio perché la «sovranità del popolo esiste solo nei limiti e nelle forme in cui la Costituzione la organizza, la riconosce, la rende possibile, e fin quando sia esercitata nelle forme e nei limiti del diritto. Fuori dalla Costituzione e dal diritto non c’è la sovranità, ma l’arbitrio popolare, non c’è il popolo sovrano, ma la massa con le sue passioni e le sue debolezze»[29].
Si abbia della capacità giuridica una concezione atomistica[30], organica[31] o gradualistica[32], l’esercizio dei diritti costituzionali (che non implichino il compimento di atti giuridici) postula la sola capacità di intendere e di volere[33]: la soggettività giuridica è la chiave per comprendere come l’incapacità non sia mai ostacolo all’appartenenza ad una comunità, atteso che essa è riconosciuta, nelle forme prescritte dalla Costituzione, come sineddoche della titolarità e dell’esercizio dei diritti costituzionali e, amplius, come strumento per lo sviluppo della personalità umana[34].
Proprio la riscoperta della portata precettiva dell’articolo 1 della Costituzione nella sua interezza, svela l’inganno della apodittica assimilazione di governanti, governati, organizzazione statale e formazioni intermedie, sulla quale si vorrebbe fondare una idea di democrazia identitaria, con il corollario della svalutazione dell’articolo 67 della Costituzione.
La sovranità appartiene al popolo solo nei limiti e nelle forme della Costituzione, proprio perché in questo modo si riafferma l’idea del diritto come argine al potere e si plasma l’arbitrio della massa, rendendolo ordine, ossia sovranità[35].
Solo in questo ordine sovrano v’è spazio anche per quella parte di popolo che sarebbe altrimenti incapace di esercitare la sovranità come potere e si riscopre l’essenza della relazione rappresentativa[36], nella dimensione di situazione giuridica e dunque oltre l’angusto ambito del rapporto eletto-elettore.
4. Il combinato disposto degli articolo 49 e 67 della Costituzine: la rappresentanza politica crea un nesso fra Nazione ed eletto, oltre il corpo elettorale ed il popolo stesso
Alla determinazione della politica nazionale concorre l’elettore, così come l’incapace di agire e, per di più, l’incapace naturale: la dimensione della soggettività giuridica si valorizza nel disposto dell’articolo 49 della Costituzione, che qualifica parte di una relazione politica il cittadino senza distinzioni, anche di capacità, attribuendo[37] al partito politico il delicato compito di mediazione fra società e Stato.
Al contempo, nell’articolo 67 della Costituzione il parlamentare rappresenta la Nazione, non già il popolo, che pure concorre alla determinazione della politica nazionale, proprio per il tramite dei partiti.
In tal modo la Costituzione ordina l’esercizio della sovranità: invera l’idea di politica come libertà di partecipare alla costruzione di un modello di società, riconosce e protegge l’interesse di tutti ad offrire un contributo nell’edificazione della casa comune, ma separa nettamente l’officio di parlamentare dalla molteplicità del reale e dalla naturale tendenza all’affermazione di una certa idea di realtà, da una certa verità che è già etimologicamente intrinseca nella struttura del partito politico, inteso come associazione tesa alla realizzazione di un certo modello di vita in comune.
Nell’esperienza liberale la Nazione[38] si identifica soggettivamente con la borghesia, il motore della rivoluzione e della crisi dell’Ancien regime, ossia con una classe assai articolata ma portatrice di interessi sufficientemente omogenei e, soprattutto, accomunata dal fine di osteggiare l’assolutismo regio. Se nell’esperienza fascista la Nazione viene a coincidere con lo Stato, nella Costituzione del 1947 il concetto è riempito di significato attraverso il quasi pacifico riferimento ad un vincolo di carattere etnico e culturale[39].
È stato autorevolmente sostenuto che nell’articolo 67 della Costituzione Nazione significhi popolo[40]. La tesi desta perplessità.
In primo luogo per un argomento di diritto positivo: vi sono norme costituzionali che fondano una dicotomia concettuale fra cittadini e Nazione. È il caso dell’articolo 51, comma 3, della Costituzione: se per l’ammissione ai pubblici uffici ed alle cariche elettive, la legge può «parificare ai cittadini anche gli italiani non appartenenti alla Repubblica», ciò significa che la Nazione ed il popolo italiano sono insiemi non del tutto sovrapponibili.
In secondo luogo, per la necessaria diversità strutturale dei concetti, fra i quali è ben vero che vi sia un elemento di simpatia, giacché entrambi sono mosaici non riducibili ad unità, ma non è men vero che la distanza fra essi torni a marcarsi considerando che la Nazione è un fenomeno articolato nello spazio (sommatoria di individui, enti intermedi, formazioni sociali) e nel tempo (muove dalle generazioni passate, al fine di consentire a quelle attuali di preoccuparsi di quelle future), laddove al contrario il popolo è «vivente collettività degli appartenenti allo Stato»[41].
In ragione di ciò, si è efficacemente proposto di distinguere la rappresentanza del popolo dalla rappresentazione della Nazione[42], chiamando il parlamentare al difficile compito di porre al fondamento dell’esercizio del mandato non già la cognizione delle pulsioni o dei sentimenti del popolo, bensì le esigenze ed i bisogni della Nazione.
Il che vivifica il libero mandato parlamentare e lascia intendere lo stretto nesso che lega le due proposizioni normative dell’articolo 67 della Costituzine: il parlamentare rappresenta la Nazione e, proprio per questo, non sussistono vincoli di mandato né verso il popolo nel suo insieme, né verso il corpo elettorale in specie, né verso il partito politico di appartenenza.
Affermazione, quest’ultima, che richiede però un chiarimento sul ruolo dei partiti nella democrazia rappresentativa, oggi.
5. La determinazione della politica nazionale e la rappresentanza della Nazione. Affinità e divergenze
L’affermazione del Parteinstaat qualifica il partito politico come ingranaggio della determinazione della politica nazionale, ma – alla luce dell’articolo 49 della Costituzione – solo in quanto strumento di esercizio di un diritto che è attribuito direttamente ai cittadini.
Non è possibile in questa sede trattare con la dovuta cura il ruolo e la funzione del partito politico nell’ordinamento italiano, ma v’è spazio per una riflessione nella prospettiva del libero mandato parlamentare.
È stato sostenuto che «il formarsi in seno alla popolazione di partiti politici implica […] l’esistenza di un interesse generale, distinto dall’interesse dei singoli, la cui particolare visione ed il perseguimento vengono fatti propri dal partito che, con il consenso degli elettori, tende ad assumere la posizione di rappresentante»[43].
In tale processo, il partito diviene progressivamente “parte totale”[44]: la lezione di Mortati ha trovato riscontro nelle più recenti affermazioni di alcune forze politiche italiane che, anche in ragione del successo elettorale, hanno preteso di porsi come interpreti qualificati (per non dire unici) dei bisogni della Nazione[45], secondo una deriva marcatamente plebiscitaria[46].
Lo stesso Kelsen non esitava ad auspicare «un controllo permanente dei deputati da parte dei gruppi di elettori costituiti in partiti politici», cui attribuiva la facoltà di revoca dall’officio e, addirittura, la possibilità di designare i parlamentari alla stregua di funzionari, scegliendoli di volta in volta in ragione della materia da trattare[47].
In realtà, «il divieto di mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito»[48].
L’idea del “partito della Nazione” non è coerente con una lettura sistematica della Costituzione, sia nel presupposto logico (il partito come parte totale, per dirla con Mortati), sia nella conseguenza, che pretenderebbe di affermare l’esistenza di un “mandato imperativo di partito”[49].
In realtà il partito politico è ancora oggi lo strumento per lo sviluppo e l’affermazione di una certa visione della società e, per ciò stesso, marca una significativa distanza sia dalla nozione di popolo sia da quella di Nazione, in ciò accomunate dal carattere pluralistico delle tensioni che in esse si rappresentano, senza necessariamente individuare una sintesi.
Così riqualificato il ruolo del partito politico nell’ordinamento, esso appare coerente rispetto al libero mandato parlamentare, anche alla luce di una realistica considerazione del rapporto che fra eletto ed elettori si instaura all’interno del partito stesso.
Il mandato parlamentare, infatti, può concretamente operare «solo nel quadro di precondizioni che consentano al parlamentare di essere parte di una “società aperta” di interpreti della Costituzione»[50].
Esso è elemento di una dialettica che implica il confronto ma che continua ad assicurare al rappresentante della Nazione un’autonomia di riflessione e decisione, in tutti i casi in cui l’indirizzo promosso dal partito politico di appartenenza, pur rispondendo alla tutela dell’interesse generale nell’ambito della specifica e parziale visione del mondo che il partito stesso caratterizza[51], non si apprezzi allo stesso modo nei confronti di una più ampia analisi nel tempo e nello spazio, cui il parlamentare è tenuto in ragione del proprio officio.
La “società liquida”[52] permea la struttura dei partiti politici «sempre meno portatori di identità collettive e sempre più “pragmatici” disposti a rendere relativi i propri valori costitutivi, negoziando ogni cosa, ma rendendo in tal modo indeterminato il legame di rappresentanza che ne legittima l’azione politica e parlamentare in particolare»[53].
Il che enfatizza la libertà del mandato parlamentare (non solo verso gli elettori, ma soprattutto) verso il partito di appartenenza, siccome votato a consentire la rappresentanza (o rappresentazione, per dirla con De Fiores) della Nazione ed, al contempo, il corretto funzionamento dell’assemblea[54].
Se ne può inferire che, a Costituzione invariata, non possano ritenersi ammissibili né istituti quali la decadenza prevista dall’articolo 160 della Costituzione del Portogallo del 1976[55] né sanzioni pecuniarie o di diverso tipo previste negli statuti dei partiti o dei gruppi parlamentari[56], per il parlamentare che aderisca ad un partito diverso da quello in cui sia stato eletto[57]. Destano perplessità, al contempo, pur richiedendo un maggiore approfondimento, vincoli di vario genere all’attività di organi dello Stato, riscontrabili in accordi siglati dalle forze politiche al Governo[58].
Resta il concreto problema della giustiziabilità[59], cui qui è possibile solo un accenno.
Occorre individuare gli strumenti ed il giudice competente a conoscere le ipotesi di lesione del libero mandato parlamentare, cagionata da tentativi di regolazione (negoziale, nei gruppi parlamentari o nei partiti) che pretendono di coartare la rappresentanza della Nazione, offrendo una nuova lettura plebiscitaria della democrazia rappresentativa.
Ai rimedi dinanzi al giudice comune (civilistici – l’impugnazione della sanzione eventualmente comminata ed il connesso accertamento della nullità o inefficacia della clausola limitativa del potere di rappresentanza – ed in ipotesi anche penalistici), si affianca l’ipotesi del conflitto fra poteri dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale, che non si è mostrata del tutto chiusa ad una interpretazione estensiva del profilo della legittimazione attiva e passiva, atta a riconoscerla al singolo parlamentare ed al gruppo parlamentare[60].
Ma oltre le forme di tutela, giurisdizionale o non, del libero mandato – in uno alla incostituzionalità delle ipotesi di riforma dell’articolo 67 della Costituzione, siccome nucleo essenziale della forma di Stato – resta una questione che il diritto può solo lambire, perché attiene alle fondamenta del vivere comune: il significato della politica nella post-modernità, sul quale il tema della rappresentanza politica aiuta a riflettere.
[1] A. Pace, I limiti del potere, Jovene, Napoli 2008, pp. 5 ss.; L. Carlassare, Sovranità popolare e Stato di diritto, in S. Labriola (a cura di), Valori e principi del regime repubblicano, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 201.
[2] Intendendosi il plebiscito nel senso di una professione di fede in un capo, secondo la lettura di M. Weber, Parlamento e Governo, trad. it. F. Fusillo, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 107. Si ha plebiscito – da distinguersi dalla consultazione referendaria – laddove vi sia «trasformazione della consultazione popolare in un’attestazione di fiducia in un uomo, in una forza politica, in un (titolare di) organo costituzionale» secondo M. Luciani, Il referendum abrogativo, in Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Zanichelli – Il Foto It., Bologna, 2005.
[3] C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, pp. 313 ss. guarda al popolo sia “entro” la Costituzione, come insieme di elettori che esercitano attribuzioni costituzionali, sia “al di sopra” di essa, interpretandolo come pubblica opinione: considerato che «solo il popolo effettivamente riunito e presente è popolo», capace di acclamare «un capo o un progetto», nelle democrazie rappresentative «l’opinione pubblica è la forma moderna dell’acclamazione», pur non negandosi che la formazione di essa passa per il ruolo essenziale di partiti e gruppi.
[4] Per una critica alla tesi che vede nel popolo l’interprete della verità, v. V. Baldini, Populismo versus democrazia costituzionale. In “dialogo” con Andreas Voβkuhle, in dirittifondamentali.it, 2/2018.
[5] La letteratura giuridica sui partiti politici è sterminata e non può essere ridotta ad essenziali riferimenti bibliografici, fra i quali comunque v. P. Ridola, Partiti politici, in Enc. dir. XXXII, Giuffrè, Milano, 1982, pp. 66 ss. e, di recente, M. Gorlani, Ruolo e funzione costituzionale del partito politico, Cacucci, Bari, 2017. Per una lettura di grande rigore giuridico ed elevata sensibilità politica, v. L. Elia, Realtà e funzioni del partito politico: orientamenti ideali, interessi di categoria e rappresentanza politica, ora in Costituzione, partiti, istituzioni, Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 77 ss.
[6] E. Scoditti, Populismo e diritto. Un’introduzione, in questo fascicolo.
[7] Al punto di essere elevato ad elemento costitutivo della forma di Governo nella lezione di L. Elia, Governo (forme di), in Enc. dir., XIX, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 634 ss., il quale, pur consapevole del fatto che «le forme di Governo dello Stato democratico non possono più essere né classificate né studiate, anche dal punto di vista giuridico, prescindendo dal “sistema dei partiti”», non nasconde il “disagio” di includere tale sistema «tra le varianti istituzionali delle forme di Governo». Nel senso che i partiti siano presupposti della forma di Governo, ma non elementi costitutivi di essa, M. Luciani, Governo (forme di), in Enc. dir., Annali, 2010 il quale precisa (Id., ult. op. cit., p. 568) che per forma di Governo deve intendersi «l’insieme delle regole giuridiche dei rapporti fra i poteri e gli organi costituzionali titolari di attribuzioni decisionali di natura politica».
[8] Se si preferisce, nella post-democrazia (C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003).
[9] C. De Fiores, Dai partiti democratici di massa ai partiti post-democratici del leader. Profili costituzionali di una metamorfosi, in costituzionalismo.it, 1/2018 «Unità ed indivisibilità della Repubblica», il quale evidenzia che la metamorfosi postdemocratica dei partiti li rende strumenti del leader, descritto come un imprenditore politico alla conquista degli elettori-consumatori (nota 48), in un sistema che confonde concorrenza e concorso democratico alla determinazione della politica nazionale.
[10] Se si vuole, L. Principato, Il divieto di mandato imperativo da prerogativa regia a garanzia della sovranità assembleare, in Rivista AIC, 4/2012, pp. 19 ss.
[11] F. Bilancia, Dal governo democratico-rappresentativo al governo a mera legittimazione popolare (brevi riflessioni sui mutamenti di regime), in G. Brunelli, A. Pugiotto e P. Veronesi (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, Jovene, Napoli, 2009, p. 1816.
[12] H. Arendt, Che cos’è la politica?, Einaudi, Torino, 2006.
[13] Dimenticando, in tal modo, che «il popolo non esiste se non in forme e manifestazioni parziali» (P. Rosanvallon, Pensare il populismo, trad. M. De Pascale, Castelvecchi, 2017, p. 26. Per la nozione costituzionale di popolo, v. D. Nocilla, Popolo (dir. cost.), in Enc. dir., XXXIV, Giuffrè, Milano, 1985, pp. 341 ss., il quale rammenta che già nell’Assemblea costituente alla nozione di popolo come soggetto unitario, insieme di governanti e governati, capace di volere e titolare di soggettività giuridica, si opponeva quella di popolo come insieme dei soli governati (contrapposti ai governanti), guardati come una realtà multiforme di soggetti, enti, associazioni cui si imputano variegati ed anche contrapposti interessi.
[14] Osserva A. Mannino, L’abuso della mobilità parlamentare: ripensare il divieto di mandato imperativo, in Quad. cost., 2001, pp. 135 ss. che il parlamentare sarebbe subordinato agli orientamenti politici espressi dal partito cui appartenga, legittimati dagli elettori al momento del voto. Donde l’evidente svalutazione dell’articolo 67 della Costituzione.
[15] M. Luciani, Il referendum abrogativo, cit., pp. 24 ss., il quale descrive il processo osservando che il «popolo si identifica nei partiti (che anzi, “sono” il popolo); i partiti si identificano con lo Stato (perché la volontà dello Stato, manifestata in Parlamento, è quella della maggioranza partitica); attraverso i partiti, per conseguenza, il popolo si fa Stato».
[16] Sulle difficoltà della valutazione della mobilità parlamentare, v. N. Zanon, Il transfughismo parlamentare: attenti a non toccare ciò che resta del libero mandato, in Quad. cost., 2001, pp. 139 ss.; A. Spadaro, Riflessioni sul mandato imperativo di partito, in Studi parl. pol. cost., 1985, p. 34.
[17] Osserva C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, trad. it. a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano, 1984, che «La dialettica del concetto [di rappresentanza] consiste nel fatto che l’invisibile è presupposto come assente ed è al tempo stesso reso presente».
[18] D. Nocilla e L. Ciaurro, Rappresentanza politica, in Enc. dir., vol. XXXVIII, 1987, p. 544. Si legge in C. Esposito, La rappresentanza istituzionale, (già in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, I, Cedam, Padova, 1939, pp. 303 ss.), in Scritti giuridici scelti, II, Teoria generale dello Stato e diritto costituzionale prerepubblicano, Napoli, Jovene, 1999, p. 369 che il proprium della rappresentanza consiste «in una situazione giuridica per cui il rappresentante come tale, entro determinati limiti, sta giuridicamente in luogo del rappresentato».
[19] In senso contrario, G.U. Rescigno, Alcune note sulla rappresentanza politica, in Dir. e soc., 1995, pp. 543 ss. ritiene che rappresentanza politica e rappresentanza giuridica non siano in rapporto di genere a specie, ma siano “congeneri”, atteso che l’una ha caratteristiche strutturali completamente distinte dall’altra.
[20] M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, Atti del Convegno Milano, 16-17 marzo 2000, a cura di N. Zanon e F. Biondi, Milano, Giuffrè, 2001, p. 112.
[21] G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, in Costituzionalistmo.it, «sottolinea la eterogeneità delle assemblee parlamentari medioevali; del tutto eccentrica era l’esperienza inglese, nella quale la regola era piuttosto quella della plena potestas e dell’autonomia dei rappresentanti, dunque dell’assenza di mandato imperativo». Nel contesto anglosassone costituisce un segno di continuità e non di rottura, dunque, il noto discorso agli elettori di Bristol di Edmund Burke del 1774 (E. Burke, Discorso agli elettori di Bristol del 3 novembre 1774, in Works, I London, 1834, pp. 180 ss.), nel quale gli interessi di parte si accompagnano a quello superiore della Nazione.
[22] Si legge in A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel Medio Evo e nell’Età moderna. Contributo alla storia delle istituzioni parlamentari dell’Europa occidentale, Milano, Giuffrè, 1962, p. 499, nota 64, che Filippo il Bello, nella convocazione degli Stati Generali del 1302, invito i rappresentanti a presentarsi «muniti di pieno espresso e sufficiente mandato, per ascoltare, ricevere e fare ciò che il re avrebbe ordinato e per consentire a ciò, senza addurre il pretesto di doversi recare a riferire».
[23] N. Zanon, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Giuffrè, Milano, 1991, p. 69 ritiene che «la nullità dei mandati imperativi non derivò affatto dalla costruzione di una coerente teoria rappresentativa, ma ebbe lo scopo preciso di impedire la secessione della nobiltà e la conseguente minaccia all’esistenza stessa dell’Assemblea. […] considerare nulle le clausole imperative dei cahiers, fu in definitiva un atto di autotutela». L’Autore, pertanto, distingue l’efficacia esterna dei vincoli di mandato, negandola in particolare verso l’Assemblea, dall’efficacia inter partes, pur nella consapevolezza che una simile distinzione non tiene conto del fatto che i vincoli medesimi intanto hanno un senso in quanto possano tradursi in attività compiuta proprio ed esclusivamente nell’Assemblea stessa. In senso analogo, v. G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari, cit., p. 4.
[24] G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari, cit., p. 5, nota 25, riporta un episodio occorso il 6 novembre 1790: una delegazione della Corsica si presentò innanzi all’Assemblea per comunicare che quel dipartimento aveva deliberato la revoca del proprio deputato, sostituendolo con un nuovo eletto. L’istanza non venne accolta, proprio a tutela dell’organo assembleare da pressioni esterne e particolaristiche, con ciò concretizzando la preminenza della sovranità della Nazione rispetto alla volontà di singoli baliaggi o siniscalcati.
[25] Cfr. M. de Robespierre, Sul governo rappresentativo, trad. it. a cura di A. Burgio, Manifestolibri, Roma, 1995, il quale guardava infatti alla pubblicità dei lavori ed alla revoca quali garanzie del sistema; resta il fatto che la tesi della revocabilità dei deputati, in situazioni estreme quale sanzione e strumento per farne valere la responsabilità, non sarà recepita neanche nella Costituzione montagnarda del 1793.
[26] Si pensi al sistema Rousseau del Movimento 5 stelle.
[27] Il termine si utilizza in senso lato, inclusivo anche degli stranieri stanziati sul territorio, in forma stabile od occasionale, legittima od illegittima.
[28] In questo senso, D. Nocilla, Popolo, cit. pp. 364 ss., il quale analizza le diverse forme di manifestazione della sovranità popolare.
[29] C. Esposito, Commento all’art. 1 della Costituzione, in La Costituzione italiana (Saggi), Cedam, Padova, 1954, p. 6.
[30] H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, tad. it., Einaudi, Torino 1967, pp. 77 ss., per il quale l’attività giuridica è la sommatoria delle situazioni attive o passive in cui il soggetto concretamente si trovi, le quali devono essere analizzate disgiuntamente giacché è la loro sommatoria a dare la complessiva sfera giuridica dell’uomo.
[31] A. Falzea, Capacità (teoria generale), voce in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 1970, pp. 12 ss., guarda alla capacità come idoneità ad essere soggetto di rapporti giuridici, sovrapponendola alla soggettività giuridica intesa come unità.
[32] La definizione è in M. Cuniberti, Art. 22, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto ed M. Olivetti, Utet, Torino, 2006, p. 476: la capacità come “misura della personalità” è in F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Società Ed. Foro It., Roma, 1951, p. 119 – Ristampa a cura del Centro Aud. St. Univ. Camerino, Camerino, 1998 – il quale riconosce che «non vi è alcun uomo, il quale non sia soggetto di rapporti giuridici», ma precisa come «la soggettività o personalità [non] sia attribuita a tutti gli uomini nella stessa misura», di tal ché «la capacità giuridica è la misura della personalità giuridica riconosciuta a ciascun uomo o, in altre parole, la misura della sua partecipazione all’ordinamento giuridico» (Id., ult. op. cit., p. 120).
[33] A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, Cedam, Padova, 2005, p. 311. Si è sostenuto (P. Barile, Le libertà nella Costituzione. Lezioni, Cedam, Padova, 1966, p. 31) che «il principio della capacità delle persone senza limiti di età è la regola generale del diritto pubblico; restando per altro salva l’effettiva capacità naturale: per grandi linee può dirsi infatti che sui diritti di libertà l’età non spiega, di regola, alcuna influenza».
Qualificando la libertà come pretesa a che i terzi si astengano da illegittime interazioni con la sfera giuridica del titolare, P.F. Grossi, I diritti di libertà ad uso di lezioni, I,1, II ed. ampliata, Giappichelli, Torino, 1991, pp. 254 ss. nota 38 afferma che «i diritti di libertà – tutti i diritti di libertà, nessuno escluso – hanno carattere personale e non possono essere esercitati per il tramite di rappresentanti. E vengono, perciò, come tali direttamente goduti dai titolari delle rispettive pretese, ancorché civilisticamente incapaci e bisognevoli, quindi, di essere sostituiti od integrati nell’esercizio degli eventuali poteri corrispondenti». V. altresì P. Caretti, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, III. Ed., Giappichelli, Torino, 2011, p. 105; F. Santoro Passarelli, Dottrine generali di diritto civile, Jovene, Napoli, 1997, p. 110.
[34] Se si vuole, L. Principato, Obbligo di vaccinazione, “potestà” genitoriale e tutela del minore, in Giur. cost., 2017, pp. 3139 ss.
[35] V. Crisafulli, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (1954), ora in Stato, popolo, governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Giuffrè, Milano, 1985, pp. 114 ss.
[36] La rappresentanza, infatti, non è una «mera funzione organizzativa dello Stato, in vista ed in ragione del dogma dell’unità politico-ideale del popolo» (G. Ferrara, Sulla rappresentanza politica. Note di fine secolo, ini Riv. dir. cost., 1998, p. 25).
[37] Pur se non in via esclusiva (A. Ciancio, Disciplina di gruppo e tutela del parlamentare dissenziente, in Federalismi.it, n. 13, 13 giugno 2018, p. 6). Sulla crisi della funzione di intermediazione dei partiti politici e le conseguenze di essa sulla rappresentanza della Nazione, v. A. Sterpa, Come tenere insieme la “disintermediazione” istituzionale e la rappresentanza della Nazione?, in Federalismi.it, 19 dicembre 2018.
[38] La concezione moderna della Nazione sembra nascere proprio con le rivoluzioni borghesi: nelle città-stato greche o nell’esperienza romana (anche imperiale, cfr. G.F. Ferrari, Nazione, in Enc. Giur. Treccani, Roma, pp. 1 ss.) la nozione può essere ricostruita piuttosto sotto il profilo etnico o culturale, ma l’accezione post rivoluzionaria e, segnatamente, romantica, la quale è improntata ad una tendenziale coincidenza tra Nazione culturale e Nazione territoriale, dotata di una struttura politica autonoma, è di più difficile applicazione a tali esperienze (C. De Fiores, Nazione e Costituzione, Napoli, Giappichelli, 2005, pp. 15 ss. in specie nota 57, richiamando Aristotele, Politica, VII, H, 7, 1327 b aderisce alla tesi secondo la quale proprio il perseguimento della unità costituzionale contribuisce “a fare del popolo greco una Nazione, in senso politico e non soltanto etnico”). Certo è che dopo il 1789 i fattori oggettivi (etnico, religioso, linguistico ed istituzionale) si sommano a quello volontaristico soggettivo (G.F. Ferrari, Nazione, cit. p. 4) e nelle rivoluzioni borghesi si ricostruisce intorno all’idea di Nazione proprio la forma della sovranità (non già popolare, né ancora statale, bensì) appunto nazionale. Non è questa la sede per una compiuta ed esaustiva esegesi del concetto di Nazione, ma rileva che il concetto sia da sempre sotteso da una connotazione fortemente individualistica (v. F. Chabod, L’idea di Nazione, Roma-Bari, Laterza, 1961, il quale principia il saggio proprio con la lapidaria affermazione «Dire senso di nazionalità significa dire senso di individualità storica». Osserva P. Carrozza, Nazione, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, Utet, 2004, pp. 132 ss. che per i «grandi teorici liberali Nazione è uno dei principali elementi costitutivi dello Stato, è la giustificazione […] dell’unità politica, ciò che differenzia e giustifica la formazione di un gruppo organizzato come comunità indipendente», richiamando conseguentemente l’idea di Sieyès, secondo il quale «La Nazione è preesistente a tutto, è l’origine di tutto») ed è teleologicamente orientato a costituire solida base sulla quale ricostruire un sistema di sovranità contrario a quello assolutistico, aristocratico e clericale. In questa ottica, si comprende come V. Crisafulli – D. Nocilla, Nazione, in Enc. dir., XXII, Milano, Giuffrè, p. 806 ritengano che costituisca prova della continuità dello Stato italiano – secondo la nota visione Crisafulliana – il fatto che nella Costituzione i concetti di Nazione e Stato-comunità siano talora sovrapponibili ed in altri casi non coincidenti, ciò che «troverebbe a sua volta spiegazione nella circostanza che, per quanto trasformato ne sia sotto molti aspetti l’ordinamento (e per quante modificazioni abbia in precedenza subite), Lo Stato italiano è la prosecuzione dello Stato italiano risorgimentale, venuto formandosi sul tronco dell’antico Regno di Sardegna, in nome – appunto – del principio di nazionalità: tardiva conquista dell’unità politica da parte di una preesistente Nazione culturale».
[39] Per un’acuta analisi, ricca di riferimenti bibliografici, v. C. De Fiores, Sulla rappresentanza della nazione. Brevi note sul divieto di mandato imperativo, in Dir. soc., 2017, pp. 20 ss. (specie note 3 e 4).
[40] L. Paladin, Diritto costituzionale, Cedam, Padova, 1995, p. 104.
[41] V. Crisafulli e D. Nocilla, Nazione, in Enc. dir., XXVII, Giuffrè, Milano, 1977, p. 813; V. Crisafulli, La sovranità, cit., pp. 426 ss., ove si afferma che nell’art. 67 Cost. il popolo vivente è la Nazione stessa, ma al contempo si chiarisce che ne rappresenta una sezione temporale specifica, caratterizzata dalla attualità, lasciando intendere che la Nazione ha, per conseguenza, un ambito semantico assai più ampio, proprio perché diacronico.
[42] C. De Fiores, Sulla rappresentazione della Nazione, cit.,pp. 24 ss.
[43] D. Nocilla e L. Ciaurro, Rappresentanza politica, op. cit., 572, i quali osservano che, per effetto dell’affermazione dei partiti politici, i parlamentari vengono eletti non perché riscuotono direttamente la fiducia degli elettori, bensì perché sostenuti da un partito cui gli elettori si affidano, per la realizzazione di un programma condiviso.
[44] Secondo la nota espressione di C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, II, Cedam, Padova, 1969, pp. 795 ss. e Id., Note introduttive a uno studio sui partiti politici nell’ordinamento italiano, in Scritti giuridici in memoria di V.E. Orlando, II, Cedam, Padova, 1956, pp. 111 ss., con la quale si pone l’accento sulla consustanzialità tra l’idea di partito e l’esigenza di tradurre un’ideologia generale in azione concreta dello Stato.
[45] Alla tentazione di divenire parte totale o “partito della Nazione” hanno ceduto in molti: da Forza Italia al Partito democratico, fino al Movimento 5 stelle, ma già a suo tempo la Democrazia cristiana di De Gasperi, come si legge in C. De Fiores, Sulla rappresentazione della Nazione, cit., pp. 39 ss.
[46] La tesi è espressa da G. Leibholz, Crisi della rappresentanza e sistemi elettorali, in Quaderni costituzionali, 1981, n. 3, specie p. 480, secondo il quale l’elettore designa la lista, prima ancora che il candidato; da D. Nocilla e L. Ciaurro, Rappresentanza politica, cit., p. 572, nota 164, rilevano – pur criticamente – che «I partiti politici […] introducono nel sistema un elemento plebiscitario».
[47] H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in La Democrazia, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 89.
[48] Corte cost., 7 marzo 1964, n. 14, in Giur. cost., 1964.
[49] N. Zanon, Il libero mandato parlamentare, cit., pp. 89 ss. A. Spadaro, Riflessioni sul mandato imperativo di partito, cit., pp. 21 ss. ha rilevato il contrasto fra il combinato disposto degli artt. 1 e 49 Cost, dai quali si potrebbe desumere l’esistenza di un mandato di partito, e l’art. 67 Cost., che ne sancirebbe un esplicito divieto. Cfr. D. Nocilla, Il libero mandato parlamentare, in AA.VV., Il Parlamento, Atti del XV convegno annuale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Firenze 12-14 ottobre 2000, Cedam, Padova, 2001, pp. 47 ss. P. Ridola, Divieto di mandato imperativo e pluralismo politico, in AA.VV., Studi su le fonti normative e altri temi di vario diritto pubblico in onore di V. Crisafulli, II, Cedam, Padova, 1985, pp. 679 ss.
[50] P. Ridola, La rappresentanza parlamentare fra unità politica e pluralismo, in Diritto e società, 1994, p. 724.
[51] Il che lascia intendere quale rilievo possa avere l’organizzazione interna del partito politico, necessaria a realizzare il metodo democratico affermato dall’art. 49 Cost. In tema v. F. Scuto, La democrazia interna dei partiti: profili costituzionali di una transizione, Giappichelli, Torino, 2017 e, di recente, gli interessanti interventi alla tavola rotonda «Gli statuti dei gruppi parlamentari alla prova dell’art. 67 della Costituzione», in federalismi.it, n. 13, 20 giugno 2018.
[52] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2003.
[53] G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari, cit., p. 18.
[54] In senso contrario, N. Zanon, Il divieto di mandato imperativo e la rappresentanza nazionale: autopsia di due concetti, in Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, atti del convegno di Milano, 16-17 marzo 2000, a cura di N. Zanon e F. Biondi, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 131 ss., il quale ritiene che la rappresentanza generale e l’assenza di mandato imperativo siano stati progressivamente fagocitati dalla crisi dei partiti, non più portatori di ideologie generalmente condivise; dal localismo e, più in generale, dall’emergere di interessi settoriali e parziali, che premono per un riconoscimento sul piano politico nazionale; dalla crisi del concetto stesso di Nazione, che è crisi della sovranità sia verso l’alto (si pensi all’Unione europea ed ai principi dell’integrazione) che verso il basso (si pensi alla rappresentanza del territorio).
[55] L’art. VIII, sez. 6 della Costituzione del Minnesota prevede il recall in caso di «grave atto od omissione commessi nel corso del mandato, o condanna per grave crimine nel corso del mandato»; l’art. I, sez. 33 della Costituzione di Washington condiziona l’istituto al ricorrere di un «atto illecito o abuso d’ufficio commesso nel corso del mandato, od alla violazione del giuramento prestato al momento di accettare l’incarico».
[56] Si può discutere se tali clausole sia affetta da nullità (in questo senso, A. Cerri, Osservazioni sulla libertà del mandato parlamentare; R. De Maria, Una “clausola vessatoria” in bilico fra la democrazia rappresentativa e la tutela giurisdizionale dei diritti; G. L. Conti, Sfera pubblica e sfera privata nella rappresentanza. La giustiziabilità dell’art. 67 Cost. nella sua attuazione da parte dello statuto di un gruppo parlamentare, tutti in Federalismi.it, n. 13, 13 giugno 2018, con interessanti e doverose precisazioni – delle quali non è possibile dare conto in questa sede – in ordine alla distinzione fra limiti di legge, limiti previsti negli statuti dei partiti politici e limiti contenuti nei regolamenti dei gruppi parlamentari).
[57] Ritiene legittima la sanzione della decadenza in caso di transfughismo del parlamentare A. Mannino, La mobilità parlamentare tra principio democratico, rappresentanza nazionale e divieto di mandato, in Democrazia, rappresentanza, responsabilità, a cura di L. Carlassarre, Cedam, Padova, 2001, p. 79, muovendo dal presupposto che «Il divieto di mandato imperativo […] diventa inoperante nei confronti degli istituti (partiti, gruppi parlamentari) che caratterizzano l’articolazione democratica dello Stato (A. Mannino, Diritto parlamentare, Giuffrè, Milano, 2010, p. 69) e realizzano in concreto la funzione rappresentativa».
[58] In merito, v. M. Carducci, Le dimensioni di interferenza del “contratto” di governo e l’art. 67 Cost., in Federalismi.it, n. 13, 13 giugno 2018, il quale analizza il fenomeno in rapporto ai cd. accordi di coalizione, anche in chiave comparativa.
[59] Nel caso di clausole limitative del libero mandato contenute negli statuti dei gruppi parlamentari, v ’è comunque la possibilità di rimedi – pur se poco efficaci siccome sprovvisti di sanzione – di carattere procedurale, ancor prima che giurisdizionale: il Presidente della Camera può infatti esercitare una funzione di controllo, dovendo garantire il buon andamento dei lavori assembleari (in questo senso, R. Bin, La strana risposta del presidente Fico: è così che si rilancia il ruolo del Parlamento?, in lacostituzione.info).
[60] Fra i molti interventi sul tema, per tutti, v. R. Borrello, Il conflitto di attribuzioni del singolo parlamentare: riflessioni sparse sulla cornice teorica di un istituto dai contorni ancora sfumati, in attesa del deposito dell’ordinanza della Corte, in Nomos.Le attualità del diritto, n. 1 del 2019. V. Corte cost. 10 gennaio 2019, n. 17, in www.giurcost.org ed in numerosi commenti alla decisione, editi su www.federalismi.it.