Il privilegio dell’utopia… e la necessità di non abusarne
«In fondo Magistratura democratica ha il privilegio dell’utopia». Mi pare ancora di risentire questa frase e l’ironia lieve del fondatore di questa Rivista, Pino Borrè, nel pronunciarla, commentando una qualche presa di posizione del gruppo che a tutta prima poteva apparire troppo astratta o azzardata. Ma nella successiva discussione convenivamo che i privilegi si devono meritare e che si conservano solo se non se ne abusa.
Nei privilegi intellettuali o istituzionali c’è sempre, infatti, un nocciolo prezioso di libertà, un’esenzione dal peso che grava su “tutti” gli altri che può consentire una più ampia libertà di pensiero e di azione e uno sguardo più lungo sul presente e sul futuro. Ma resta un confine, varcato il quale il privilegio perde la sua funzione positiva e diviene incomprensibile, ingiustificato, arbitrario.
È già un privilegio la libertà da ogni condizionamento di cui gode questa Rivista, promossa da Magistratura democratica e finanziata dai suoi soci, ma culturalmente autonoma e pluralistica nei contributi che ospita, gratuita nell’offerta ai lettori e ormai resa tempestiva, soprattutto nella versione on line, dalle potenzialità della rete.
Ed è naturale che la Rivista condivida, con il gruppo che la promuove, l’assoluta libertà di esplorare, di aprire nuove strade, di essere critica, all’occorrenza fino alla provocazione, rispetto ai detentori del potere ed alla stessa magistratura di cui è divenuta negli anni una voce significativa.
Come meritare questi privilegi?
Stando fermi ai principi e mantenendo vivi il gusto per la verità ed il senso della realtà, doverosi per chi fa un mestiere di “parole” che incidono sulle persone e sulle cose e che per questo è chiamato a misurare su tali parametri ognuna delle parole che pronuncia e che scrive.
Ricercando costantemente la sintonia con i problemi di vita, le ansie e le preoccupazioni dei nostri concittadini, senza alcuna pretesa di superiorità o di distacco.
Vigilando, innanzitutto su noi stessi e sul potere che giudici e pubblici ministeri esercitano quotidianamente, perché risulti, nella massima misura possibile, giusto, compreso, legittimato.
Un bagaglio essenziale di regole di condotta e di metodi di lavoro sufficiente a continuare il viaggio intrapreso molti anni addietro quando questa Rivista ha raccolto – con un taglio più problematico espresso già nel suo nome Questione Giustizia – l’eredità della sua battagliera sorella maggiore Quale Giustizia. Un cammino da proseguire nel solco dello straordinario insegnamento dei suoi direttori Pino Borrè, Livio Pepino, Beniamino Deidda e Renato Rordorf.
A Renato in particolare, che lascia la direzione della Rivista dopo averla guidata con eccezionale intelligenza e sensibilità giuridica e con mite autorevolezza, va oggi il nostro affettuoso e riconoscente ringraziamento.
Diffusione e radicamento del populismo: l’esigenza di una riflessione
Con questo spirito la Rivista, nel presente numero monografico curato da Enrico Scoditti, ha sentito il bisogno di promuovere una riflessione sul complesso fenomeno sociale e politico che si sta diffondendo e radicando in tutto il mondo occidentale e che, con una espressione riassuntiva, chiamiamo «populismo».
Compito arduo perché, come è stato detto, «la storia entra in scena con la maschera sul volto». Così che non è agevole individuare nel fluire degli avvenimenti i tratti tipici di una nuova realtà, distinguendo tra aspetti caduchi e permanenti, tra folklore e sostanza, tra potenzialità positive e rischi.
Il tentativo di capire è stato intrapreso con una ricerca corale così ricca e varia che è impossibile sintetizzarla.
Basterà dire che in essa si intrecciano, nella pluralità dei contributi, l’individuazione delle cause economiche e sociali del populismo, lo sforzo di analizzare i suoi tratti più caratteristici e ricorrenti e l‘impegno a misurare le sue ripercussioni nel mondo delle istituzioni e del diritto.
All’origine del populismo stanno – ormai lo sappiamo – la lunga crisi economico finanziaria, le crescenti disuguaglianze, i timori derivanti dalle migrazioni che si sono diffusi soprattutto negli strati più deboli della popolazione.
Da questo magma è scaturito un insieme di sentimenti, di risentimenti, di rappresentazioni, di idee che – pur assumendo forme differenti nei diversi contesti nazionali – ha generato una sorta di visione del mondo e dato vita a peculiari modalità di azione politica.
A comporre la miscela del populismo hanno concorso un’idea di popolo, una concezione della democrazia e dello Stato ed un conseguente atteggiamento verso i poteri e le istituzioni di garanzia e di controllo.
Il popolo, innanzitutto, concepito come entità organica modellata dalla storia e dalla tradizione o come soggetto in grado di esprimere, senza mediazioni, la volontà generale ed in grado di individuare soluzioni semplici, lineari, a portata di mano ai problemi della modernità.
L’elenco di corollari scaturenti da questo assioma è lungo.
Da un lato, la scelta dichiarata, o comunque la pulsione pratica a rientrare nei confini dello Stato nazione, l’unico nel quale è ravvisabile un corpo popolare omogeneo cui dar voce e l’insofferenza verso gli organismi sovranazionali e la loro attività di mediazione, ritenuta a torto o ragione penalizzante degli interessi popolari e nazionali.
Dall’altro lato, lo scontento e la disaffezione verso le procedure della democrazia rappresentativa spesso considerate troppo lente, macchinose ed inidonee a cogliere il genuino volere del popolo e perciò da superare (più che da integrare saggiamente) con il ricorso a forme di democrazia diretta o con l’enfatizzazione del ruolo di capi politici, diretti interpreti della volontà dei cittadini.
Infine, la propensione per uno Stato più interventista in economia che trae linfa dai non pochi insuccessi delle politiche di mera regolazione delle dinamiche economiche che non hanno saputo impedire la crescita delle disuguaglianze né tra i diversi Paesi né tra i cittadini. Una linea di pensiero, questa, cui si accompagna, anche nelle forme di populismo di destra, l’apertura ad istanze economiche dei “piccoli” siano essi lavoratori, imprenditori, professionisti, artigiani, operatori della nuova economia.
In un tale contesto è evidente che non avranno vita facile tutti coloro che svolgono funzioni non direttamente derivanti e perciò legittimate dalla volontà del popolo.
È una constatazione che vale per i magistrati, ma anche per gli appartenenti alle burocrazie neutrali e tecniche, per i componenti degli organismi di controllo, per quanti lavorano nel mondo della informazione.
Occorrerà un lungo e sapiente lavoro per rivendicare costantemente e dimostrare agli occhi dei cittadini l’utilità e l’indispensabilità di queste funzioni nel quadro di una moderna democrazia.
Una vera e propria sfida da condurre, più che con astratte proclamazioni di principio, con gli utensili della ragionevolezza, dell’efficienza operativa e dell’accresciuta responsabilità sociale e culturale di ciascun operatore. E proprio per questo una sfida dall’esito non scontato dalla quale i poteri di controllo e di garanzia potranno uscire sviliti e mortificati o fortificati e migliorati nella loro efficacia e trasparenza.
Il populismo penale ed il nodo della violenza
C’è un capitolo del populismo italiano cui viene comprensibilmente riservata sulle pagine di questa Rivista una specifica attenzione: il populismo penale.
Per molti aspetti il populismo penale non dà vita, nel nostro Paese, ad una realtà totalmente nuova. Piuttosto esso raccoglie ed esalta molte eredità negative del nostro ordinamento penale: l’idea che l’aumento delle pene edittali sia la soluzione necessaria e sufficiente di ogni problema di deterrenza e di prevenzione; la propensione del legislatore a scrivere norme incriminatrici vaghe ed indeterminate con funzione di messaggio o manifesto; l’avversione ed il sospetto verso forme di fisiologica discrezionalità del giudice. E l’elenco potrebbe continuare.
Eppure c’è, in quest’ambito, un inquietante salto di qualità. Potremmo definirlo lo sdoganamento della violenza istituzionale, l’ammissione, cioè, nella sfera del diritto di forme di violenza di volta in volta legittimate giuridicamente o giustificate e blandite politicamente o, infine, prospettate come scelte praticabili per risolvere questioni spinose.
Solo pochi esempi, tratti dalla realtà di questi mesi, varranno a chiarire questa affermazione più di un lungo ragionamento.
Per quante critiche possa meritare la nuova normativa sulla legittima difesa (e questa Rivista ne ha pubblicate molte, sempre argomentate e puntuali) il danno maggiore è sin qui derivato dalla campagna propagandista che ha accompagnato l’iter legislativo, tutta condotta all’insegna del fuorviante e disastroso slogan «la difesa è sempre legittima».
Ne è risultato svisato un diritto antico quanto la storia dell’umanità e del diritto stesso. Ed all’elementare ed umanissima regola di misura che lo ha sempre ispirato si sono sostituite formule estensive, perentorie o allusive, che non offriranno a nessun cittadino più protezione o più sicurezza. Ma intanto un di più di violenza legittima è penetrato nell’ordinamento, tanto più pericoloso quanto più incerti ne restano gli effettivi confini.
Alla legittimazione si accompagna poi l’accondiscendenza. Le sprezzanti affermazioni del Ministro dell’interno a commento della morte di una persona nel corso del suo arresto da parte della polizia non possono essere lette solo come una difesa dell’operato degli agenti o come l’ennesima concessione al gusto del politicamente scorretto. Per la fonte istituzionale da cui provengono suonano inevitabilmente come una aprioristica espressione di tolleranza che precorre e prescinde da ogni accertamento. E questo non è un buon servigio reso ai cittadini ed agli stessi appartenenti delle Forze dell’ordine che, detenendo il monopolio legale della forza, sono tenuti a farne un uso calibrato e responsabile e a non farlo degenerare in odioso arbitrio.
Infine è inopinatamente emersa la proposta di reinserire – nello strumentario del diritto penale del XXI secolo! – una forma di manomissione del corpo dei condannati.
Dall’epoca dell’inquisizione la violenza del potere sui corpi dei cittadini-sudditi era stata bandita ed era rimasta relegata tra le ombre e gli orrori del passato.
Ma ora – grazie all’iniziativa di una donna, di un avvocato, di un ministro, l’on.le Giulia Bongiorno – si è ritornati a discutere di interventi sul corpo dei cittadini, nel quadro della possibile scelta tra la cd. castrazione chimica e la prigione.
Altri approfondiranno questo tema, per il momento fortunatamente abbandonato ma purtroppo divenuto oggetto di nuove proposte ad opera di un’altra forza politica.
Ma è stato infranto un tabù e l’argomento «castrazione chimica» è stato per giorni al centro di “tranquille” e “civili” discussioni politiche, essendo presentato all’opinione pubblica come una scelta pragmatica, compatibile con i principi del nostro ordinamento costituzionale.
Nell’ambito della discussione sul populismo penale, lo sdoganamento della violenza nella sfera istituzionale si profila dunque come un inedito spartiacque e come una linea di demarcazione tra oscurantismo e civiltà giuridica.
Un confine estremo che in tutta sincerità ci auguriamo di non vedere mai più superato ed un tema che speriamo di non dovere mai più discutere.