Il diritto nordamericano all’epoca del populismo.
Quali tutele per i lavoratori?
Introduzione
I sistemi giuridici caratterizzati, secondo una distinzione divenuta ormai classica, dalla prevalenza – quale strumento di controllo sociale – del diritto professionale sulla politica (o sulla religione), lascerebbero al diritto politico, ossia al legislatore o in via d’eccezione e urgenza al Governo, il compito di effettuare le macro-scelte e al diritto aggiudicativo a carattere puramente tecnico, ossia al giudice, il compito di effettuare le micro-scelte, ossia quelle che nella quotidianità dei casi concreti danno attuazione alle prime[1].
Nei sistemi della rule of (professional) law, fra i quali notoriamente spiccano i sistemi della tradizione giuridica occidentale, le preferenze politico/morali del giudice non troverebbero quindi spazio nelle sue pronunce, teoricamente guidate invece da principi, logiche e criteri squisitamente tecnici. Quanto tuttavia quell’ideale non corrisponda alla realtà è stato da tempo messo in luce da più parti e la forte contaminazione fra politica e diritto, anche nel momento delle micro-scelte, è spesso sotto gli occhi di tutti[2]. Ciò è vero in particolare, anche se non esclusivamente, nel mondo statunitense, dove quella commistione è resa più evidente dalla natura politica del sistema di reclutamento dei giudici.
Difficilmente perciò, in tempi di politiche populiste, che sfruttano le paure irrazionali della gente e le alimentano, dando luogo a pesanti regressioni dal punto di vista della civiltà giuridica, si potrà davvero fare affidamento sul diritto aggiudicativo per arginare l’onda della becera irrazionalità e per mantenere ferma la barra sui principi di civiltà, abbandonati a livello di macro-scelte. Come la vicenda del travel ban dell’anno scorso ha ben reso chiaro, negli Stati Uniti solo un sano gioco dei checks and balances, che mantenga i tre poteri dello Stato in mani politiche diverse, consente al diritto aggiudicativo di opporsi alle tracimazioni del populismo. Quando ciò non accade e il Presidente nomina alla Corte Suprema anche solo un Gorsuch in più che faccia maggioranza, le interpretazioni dei giudici della Corte Suprema federale si allineano con l’Esecutivo e la barriera, che pur il diritto dovrebbe opporre alle più pesanti discriminazioni che quelle politiche portano con sé, scompare.
È a fronte di un tal quadro che in questa sede si vorrebbe analizzare un diritto nordamericano in controtendenza, non tanto rispetto al potere politico, quanto rispetto agli interessi del potere economico, la cui influenza sulle decisioni politiche, e quindi sul diritto, sta alla base dell’impoverimento della gente. È il progressivo scivolamento verso il basso della classe media, infatti, che ha creato e continua a creare il senso di insicurezza, su cui si innesta con facilità il discorso populista, volto a mettere i meno deboli contro i più deboli, in un gioco al massacro utile solamente ai soggetti economicamente forti. Ogni presa di posizione delle Corti o dei legislativi – anche di prossimità – che freni lo strapotere degli attori più ricchi ai danni dei più deboli rappresenta, perciò, una piccola pietra d’inciampo nel disegno complessivo che mette il diritto al servizio del capitale, alimentando povertà, insicurezza, guerre fra poveri e, in ultima analisi, facili scalate populiste. In attesa che, dopo la timida ripresa delle elezioni di mid-term, il gioco dei checks and balances recuperi tutto il suo vigore a livello federale, la partita si sposta così sul piano delle tutele multilivello che un federalismo pieno, quale quello statunitense, consente. Sono, infatti, alcune scelte del giudiziario e del legislativo statale (e comunale) a tentare di scardinare l’ormai risalente e sempre più stretto connubio fra diritto e mercato e a offrire una speranza di arresto di quella riduzione delle sicurezze sociali da cui traggono origine gli istinti di barbarie su cui il populismo si sviluppa e che a sua volta rialimenta con forza.
Nella pletora di leggi e decisioni giudiziarie che da molto tempo a questa parte non fanno che avallare una politica neoliberista che crea precarietà, toglie sostegno sociale ai più deboli, cancella strumenti volti a ridurre le storiche discriminazioni (quali si presentavano le affirmative action o le quote che garantivano l’accesso ai bimbi delle minoranze nelle scuole pubbliche migliori[3]), criminalizza i più poveri per la loro indigenza[4], privatizza le carceri che diventano fonte di enormi profitti per chi sulla mass incarceration dei più deboli fa affari[5], attribuisce diritti umani alle corporation che però di umano non hanno nulla[6], e così via, alcune recenti pronunce delle Corti nordamericane, soprattutto statali, sostenute dai rispettivi legislatori anche locali, sembrano andare in direzione opposta. Ciò avviene in un settore particolarmente cruciale: quello dei diritti dei lavoratori. Non si tratterà forse di un vento nuovo, ma anche qualora fosse una leggera brezza, capace di limitare temporaneamente, e in via circoscritta, le regressioni di civiltà cui da ultimo abbiamo assistito, vale la pena di darne adeguato conto.
1. L’arbitrato obbligatorio e la sostanziale cancellazione dei diritti dei lavoratori
Uno degli attacchi più pesanti ai diritti dei singoli che negli ultimi trent’anni la Corte Suprema federale statunitense ha perpetrato, in sintonia con una visione neoliberista che tutela il mercato e le grandi corporation a scapito della dignità e della vita delle persone (fisiche), soprattutto se deboli, riguarda l’ambito fondamentalissimo del lavoro. I lavoratori americani meno qualificati, colpiti da una globalizzazione estrattiva che – a partire dagli anni ’80 del secolo scorso – li ha messi in competizione con tutti i lavoratori poveri del mondo, minacciati dalle delocalizzazioni e trasferiti dal settore industriale all’assai meno remunerativo terzo settore, non hanno infatti solo visto corrispondentemente decrescere le loro tutele e i loro salari (al punto che ancora oggi il salario mediano del lavoratore maschio statunitense, a parità di potere di acquisto, è più basso rispetto al 1973, così come più bassi rispetto ad allora sono i salari del 10 per cento più povero di tutti lavoratori, uomini e donne, nord-americani)[7]. A partire dal 1991 quegli stessi lavoratori si sono addirittura visti progressivamente negare la possibilità di far valere di fronte alle Corti di giustizia i loro (pur ridotti) diritti, giacché una Corte Suprema conservatrice e al servizio dei poteri forti ha fatto gradualmente spazio a un meccanismo di risoluzione delle controversie sul lavoro, l’arbitrato obbligatorio, largamente sbilanciato a favore del datore di lavoro, in particolare se incarnato da una potente multinazionale. Ciò ha significato il sostanziale silenziamento dei lavoratori e delle loro richieste di protezione nei confronti dei comportamenti illeciti dei datori di lavoro, tanto in ambito salariale, assicurativo, pensionistico o di permessi – anche di maternità e di malattia – e ferie, quanto in casi di discriminazione, molestie sessuali o mancato rispetto delle norme a tutela dei disabili. Senza accesso a un foro neutrale in cui far valere i loro diritti e vieppiù privati della possibilità di agire in forma collettiva, i lavoratori statunitensi contrattualmente obbligati a rivolgersi individualmente a un arbitro privato scelto dalla controparte, finiscono infatti per reprimere le loro richieste di giustizia. A fronte di mancate corresponsioni del minimo salariale da parte dei datori di lavoro di una cifra stimata intorno ai 15 miliardi di dollari all’anno[8], recenti studi dimostrano come negli Stati Uniti centinaia di migliaia di violazioni dei diritti dei lavoratori rimangano ogni anno intrappolate “nel buco nero dell’arbitrato obbligatorio”, ossia restino del tutto insoddisfatte perché mai denunciate[9]. Non c’è allora da stupirsi se, nonostante una disoccupazione ai minimi storici, i salari dei lavoratori americani non aumentino (Oxfam riporta come nel 2015 addirittura la metà dei lavoratori nordamericani ricevessero una paga oraria al limite della sopravvivenza e la situazione non è ad oggi migliorata di troppo[10]) con buona pace della legge della domanda e dell’offerta. Una competizione salariale al rialzo fra datori di lavoro risulta, infatti, preclusa dalle fusioni e dagli intrecci azionari fra corporation o dagli obblighi contrattuali che al termine del rapporto di lavoro impongono al lavoratore di non offrire ad altri, per un certo periodo di tempo, la sua prestazione nello stesso settore lavorativo. A deprimere fortemente i salari e a innescare una corsa al ribasso contribuisce però certamente anche l’impunità per le violazioni salariali perpetrate, ottenuta dai datori di lavoro grazie alla clausola contrattuale dell’arbitrato obbligatorio. Le grandi corporation che tengono bassi, illecitamente ma impunemente, i salari dei lavoratori o che li sfruttano negando loro le pause cui hanno diritto per legge, si possono infatti permettere prezzi particolarmente competitivi per i prodotti che vendono, buttando così fuori mercato coloro che pagano di più la propria forza lavoro.
2. L’arbitrato obbligatorio nelle controversie sul lavoro e le decisioni della Corte Suprema federale
È con il Federal Arbitration Act del 1925 che, per la prima volta negli Stati Uniti, la clausola arbitrale nei contratti riceve riconoscimento giuridico e il suo rispetto viene imposto alle Corti di giustizia nordamericane. Fino a quel momento esse non si erano sentite obbligate a darvi attuazione e, in un’ottica di prevalenza della giustizia pubblica su quella privata, avocavano regolarmente a sé le relative controversie. La clausola arbitrale che in base al FAA, e in forza di una giurisprudenza costante, le Corti americane sono da allora obbligate a rispettare riguarda però solo i contratti commerciali fra contraenti di pari livello, business to business, ossia fra aziende, ma non ha alcuna efficacia vincolante nei contratti di lavoro o fra aziende e consumatori. La logica ovviamente è quella per cui in un rapporto fra contraenti con potere contrattuale asimmetrico la clausola sarebbe facilmente imposta al più debole dal più forte. A partire dal 1991, tuttavia, con il caso Gilmer v. Intersate/Johson Lane Corp.[11], una Corte Suprema federale formata in maggioranza da giudici nominati da Nixon e Reagan muta indirizzo interpretativo e ritiene vincolanti le clausole arbitrali anche qualora inserite in contratti lavorativi o fra aziende e consumatori. In quel caso infatti, di fronte alle lamentele del lavoratore di inadeguatezza del foro arbitrale, di fronte a cui sarebbe risultato obbligato ad agire a tutela dei suoi diritti in forza della clausola arbitrale inserita nel suo contratto di lavoro, la Corte Suprema risponde che si tratta di preoccupazioni inconsistenti (“mere speculation”)[12]. Ritenendo inoltre quella clausola volontariamente accettata dalle parti, la Corte – in nome del favore verso l’arbitrato dimostrato dal FAA - ne impone il rispetto a tutte le giurisdizioni federali e statali, giacché quello statute, che riguarda il commercio, in forza della commerce clause della costituzione federale appartiene all’esclusiva competenza federale e non può essere derogato da alcuna normativa statale. Da quel momento in poi la strada delle clausole arbitrali nei contratti di lavoro (e fra aziende e consumatori) è in discesa e si moltiplicano i contratti che la contemplano. Resta però il dubbio se nel silenzio sul punto o anche in presenza di un espressa rinuncia del lavoratore (o del consumatore), cd. class action waiver, sia legittimo escludere la possibilità di azioni collettive. Anche in questo caso la Corte Suprema federale muta avviso nel tempo, prendendo gradualmente posizione a favore dell’arbitrato individuale obbligatorio a tutto vantaggio del datore di lavoro corporate. Se, infatti, nel caso Green Tree Financial Corp. v. Bazzle del 2003[13], essa decide che il silenzio contrattuale in relazione alla possibilità di una azione collettiva, sia pur di fronte a un foro arbitrale, sia interpretabile dall’arbitro in senso affermativo, in un caso successivo, Stolt-Nielsen S.A. v. AnimalFeeds International Corp.[14] del 2010, la stessa ritiene viceversa che la clausola arbitrale vada necessariamente interpretata nel senso di escludere una class arbitration. Le parti di un contratto che prevede una clausola arbitrale non possono essere obbligate ad accettare un’azione collettiva, sostiene infatti la Corte Roberts, a meno che sul punto non risulti un chiaro accordo in proposito. La decisione anticipa la risposta al quesito che le viene posto nel 2011, nel caso AT&T Mobility LLC v. Conception[15], in relazione al tema della legittimità delle rinunce espresse alle azioni collettive inserite in un contratto con clausola arbitrale. La questione qui riguarda l’interpretazione del FAA, laddove una clausola di salvezza (la sezione 2 che stabilisce l’obbligo delle Corti di rispettare la clausola arbitrale, salvo che «upon such grounds as exists at law or in equity for the revocation of any contract») pare lasciare spazio alle normative statali che ritengono unconscionable, ossia palesemente scorretto, negare all’attore un’azione collettiva. Il caso riguarda un contratto fra l’azienda telefonica AT&T e un consumatore, ma è ovviamente estensibile a ogni ipotesi di class action waiver all’interno di un contratto che preveda una clausola arbitrale.
Le class action entrano com’è noto nel panorama giuridico statunitense nel 1966 con la Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure e da allora rappresentano uno strumento essenziale per il consumatore o il lavoratore che vogliano far valere in giudizio la violazione dei loro diritti, soprattutto se la controparte è una grande corporation. Non solo l’ammontare del possibile risarcimento ai tanti danneggiati da uno stesso comportamento dell’azienda dà loro una forza nei suoi confronti che come singoli non avrebbero, spingendo spesso l’azienda a transare la lite. In un sistema che non conosce il principio della soccombenza e in cui le spese legali sono alte, è inoltre solamente grazie alla class action che la parte economicamente debole può permettersi di intentare causa anche per danni di piccola entità. In tali casi, quand’anche risultasse vittorioso, l’attore singolo finirebbe, infatti, per avere un risarcimento di ammontare inferiore alle spese sostenute per far causa, mentre l’eventuale risarcimento complessivo ai tanti danneggiati di un’azione collettiva convince facilmente un legale ad accettare un patto di quota lite che altrimenti non avrebbe mai accettato. Ecco perché le class action sono state salutate come importanti strumenti al servizio di una funzione pubblica: esse permettono «ai più deboli di far gruppo – usando i legali come loro paladini –[16] per denunciare le violazioni subite, contro le quali non vi sarebbe invece rimedio se ciascun attore dovesse agire da solo».
Riconoscere come valida la rinuncia ad agire collettivamente, sia pure di fronte all’arbitro privato e non al giudice, da parte del lavoratore o del consumatore che abbia stipulato un contratto con clausola arbitrale, significa dunque negargli in molti casi la possibilità di avvalersi dell’unico strumento che ha a disposizione per far valere le sue ragioni. E ciò è particolarmente vero per i lavoratori più poveri e fra di loro soprattutto per chi, con un minimo salariale federale pari a 240 dollari per 40 ore a settimana, non può certamente permettersi di sostenere da solo i costi elevati di un arbitrato. È per questo che fino al caso Conception le Corti, sia statali che federali, si presentavano divise sul tema della validità delle rinunce ad agire come classe e spesso, come in California, ritenevano che in ragione della clausola di salvezza del FAA dovesse trovare applicazione il diritto statale che tutelava la parte debole reputando “unconscionable” una simile rinuncia. Questo non fu però il parere della Corte Suprema federale nel 2011, che per la penna dell’estensore dell’opinione della maggioranza, Antonin Scalia, ritenne invece che la clausola di salvezza del FAA non fosse interpretabile nel senso che il diritto statale potesse prevalere su quello federale, ma che quest’ultimo precludesse viceversa ogni applicazione del primo. Il favore dimostrato dal FAA nei confronti dell’arbitrato, disse Scalia, che per sua natura è bilaterale e che proprio dalla bilateralità deriva la sua efficienza come strumento di risoluzione delle liti, comporta la piena legittimità della rinuncia ad agire collettivamente. In fondo, egli aggiunse in un caso successivo, non esiste un diritto ad avere accesso a un foro economicamente abbordabile per far valere le proprie ragioni[17]!
Conception segna quindi una vittoria netta per i datori di lavoro, i quali tramite le clausole arbitrali nei contratti di lavoro e le rinunce esplicite alle azioni collettive da parte del lavoratore, sanno oggi di poter andare esenti da responsabilità qualora ne violino i diritti. Senza la possibilità di agire collettivamente i lavoratori sottopagati, discriminati o sessualmente abusati non hanno infatti sufficienti mezzi economici per chiedere giustizia al pur poco neutrale arbitro privato e chi li sfrutta può così continuare a farlo impunemente. Non è un caso dunque che da Conception in poi le clausole arbitrali nei contratti di lavoro abbiano visto un’impennata e che oggi più del 55% della forza lavoro statunitense sia soggetta ad arbitrato obbligatorio, contro il 2% del 1992, quando il riconoscimento da parte della Corte Suprema federale della validità dell’arbitrato obbligatorio era agli albori. Il dato più significativo è, inoltre, che attualmente le clausole arbitrali obbligatorie riguardano soprattutto la forza lavoro economicamente più debole e sono applicate in particolare ai neri e alle donne[18].
Non sono, d’altronde, solamente le difficoltà economiche dei lavoratori meno abbienti, che impediscono loro di adire l’arbitro privato (il quale spesso prima ancora di dare avvio all’esame delle domande chiede a entrambe le parti di depositare una somma di danaro), a rendere l’arbitrato obbligatorio particolarmente vantaggioso per il datore di lavoro, specie se corporate. La clausola arbitrale inserita nel contratto di lavoro e sottoposta alla firma del lavoratore – la cui scelta consiste di norma solamente nel prendere o lasciare il lavoro, ma non nell’accettare o meno la clausola stessa ed essere ugualmente assunto (ed è per questo che tali clausole vanno sotto il nome di forced arbitration) – contiene sovente regole relative allo svolgimento dell’arbitrato stabilite dallo stesso datore di lavoro. Così non sono pochi i casi in cui le previsioni arbitrali stabiliscono che il foro da adire sia molto lontano dal luogo in cui si trova il lavoratore, ciò che implica costi inaccettabili per quest’ultimo, che non solo deve perdere giorni di lavoro e di paga, ma deve aggiungervi i costi del trasporto. A volte è previsto addirittura che l’arbitro sia in uno Stato diverso rispetto a quello in cui si trovano il lavoratore e l’azienda. Il datore di lavoro poi può stabilire che il diritto che l’arbitro dovrà applicare nel dirimere la controversia sia quello di uno Stato le cui regole tutelano meno il lavoratore rispetto a quelle vigenti nello Stato in cui egli lavora, o può addirittura escludere la possibilità che in caso di sconfitta gli vengano inflitti i punitive damages. L’arbitro, inoltre, è già individuato nella clausola arbitrale fra una lista a rotazione di persone, non necessariamente giuristi, che fanno parte di associazioni specificate dal datore di lavoro. E mentre le statistiche, senza che per la verità ciò sia sorprendente, riportano che le decisioni arbitrali accordano ai datori di lavori la vittoria in un numero sproporzionato di casi (e ciò in particolare se le interazioni fra datore di lavoro e arbitro sono frequenti)[19], l’appello del lodo arbitrale di fronte a una Corte di giustizia, tanto in punto di fatto che di diritto, è sostanzialmente precluso[20]. Senza alcun obbligo di seguire i propri precedenti, gli arbitri possono poi decidere in modo diverso casi simili e, poiché l’intera procedura è assolutamente confidenziale, qualora il datore di lavoro dovesse vedersi condannato a risarcire i danni per un comportamento particolarmente scorretto, l’avvenimento non lascerà traccia nell’opinione pubblica, che ne resterà all’oscuro a tutto vantaggio della sfrontata corporation.
3. Gli ultimi tasselli di un percorso sul piano federale di negazione dei diritti dei lavoratori statunitensi e la resistenza posta in essere a livello di diritto statale e locale. Una riscossa dei diritti dei lavoratori dal basso?
Gli ultimi tasselli di un quadro che tende a cancellare tutti i diritti dei lavoratori statunitensi sono stati messi dalla Suprema Corte federale americana nell’arco di pochi recenti mesi. Sorprendentemente però l’ultimo di essi è in netta controtendenza rispetto alla direzione finora intrapresa e permette di dar fiato, intrecciandosi con essa, a una resistenza in atto a livello di diritto statale e locale all’attacco sferrato ai danni dei lavoratori sul piano federale. La prima pronuncia cui si fa riferimento è Epic System, Inc. v. Lewis, et al., del maggio 2018. Posta nuovamente di fronte alla domanda se la clausola di salvezza del FAA non consentisse di escludere del tutto la vincolatività delle clausole arbitrali nei contratti di lavoro in quanto contrarie al National Labor Relations Act (una legge federale questa volta quindi!), o se per lo meno la rinuncia ad agire in forma collettiva prevista in quei contratti non violasse il diritto dei lavoratori “to engage in concerted activities” contenuto nella sezione 7 dello stesso NLRA, la risposta di una Corte Suprema divisa 5 a 4 è ancora una volta negativa. Mentre la strada verso il definitivo annullamento di ogni possibilità per i lavoratori di chiedere in giudizio il rispetto dei loro diritti sembra così segnata, insieme alla regressione del diritto del lavoro statunitense ad un periodo precedente l’era della legislazione sociale Rooseveltiana, una recentissima pronuncia del gennaio di quest’anno della Suprema Corte, New Prime Inc. v. Oliveira[21], rimette però a sorpresa in gioco l’opportunità di alcuni fra loro di rivendicare di fronte alle Corti, anche in forma collettiva, le proprie tutele.
Il caso riguarda la richiesta di un’importante società di consegne, la New Prime, di dichiarare contraria all’accordo arbitrale contenuto nel contratto di lavoro, e quindi invalida, l’azione collettiva intrapresa contro di lei di fronte alle Corti da uno dei suoi camionisti, Dominic Oliveira, a nome di tanti altri. L’attore lamenta di essere stato assunto dalla New Prime come imprenditore indipendente e non come lavoratore subordinato, così da essere privato delle corrispondenti tutele in termini di minimo salariale, straordinario e molto altro ancora. Di fronte alla constatazione che il FAA esclude esplicitamente dal suo ambito di applicazione «i lavoratori impegnati nel commercio estero o interstatale», perché nel 1925 per i lavoratori del settore trasporti il Congresso americano aveva previsto un diverso tipo di meccanismo di risoluzione delle controversie, una Corte Suprema unanime dà ragione a Oliveira ritenendolo libero di adire le Corti, anche con un’azione collettiva, nonostante l’accordo arbitrale con la controparte.
La decisione riveste un’importanza notevolissima, non solo perché libera una parte importante della forza lavoro statunitense dal giogo dell’arbitrato obbligatorio, ma anche perché dà forza alla resistenza messa in atto sul piano del diritto di prossimità per contrastare la negazione dei diritti dei lavoratori perpetrata a livello federale.
Il diritto statale (e locale) da tempo cerca infatti di controbilanciare l’attacco ai diritti dei lavoratori proveniente dal piano federale. Se già per esempio come si è visto la Corte Suprema della California, a partire dal 2005, aveva sempre dichiarato unconscionable, e quindi invalide, le rinunce contrattuali alle azioni collettive, quando la Corte Suprema federale, nel 2011, rovescia irreversibilmente quella linea interpretativa, la Corte californiana non si perde d’animo e offre ai lavoratori, economicamente troppo deboli per ottenere ristoro presso il foro arbitrale cui sono ormai obbligati a rivolgersi individualmente, una diversa via per denunciare le violazione dei diritti che subiscono. Si tratta della possibilità di adire una Corte di giustizia in nome e per conto dell’Agenzia statale del diritto del lavoro, che irroga le sanzioni pecuniarie in caso di accertate infrazioni delle norme sul lavoro in forza del Labor Code Private Attoneys General Act (Paga). Siccome il lavoratore, dice la Corte Suprema della California nel 2015, agisce in questa ipotesi per conto dello Stato che non è parte dell’accordo arbitrale, non è nella sua veste di delegato statale vincolato dalla clausola contrattuale[22]. Si tratta certamente di un ripiego rispetto alla possibilità di adire in via autonoma e collettivamente una Corte di giustizia. Anche in questo caso, però, il lavoratore ottiene un – pur ridotto – ristoro economico, in quanto è previsto che riceva il 25% della sanzione irrogata. L’azione da lui portata avanti permette, inoltre, che i datori di lavoro che ne violano i diritti di non vadano impuniti.
La Corte Suprema della California, così come le Corti di altri Stati che a loro volta tentano di resistere all’ondata federale di attacco ai diritti dei lavoratori, non è d’altronde lasciata da sola nella sua battaglia per invertire la rotta impartita a livello federale. I legislatori statali, infatti, ne appoggiano in tanti modi la linea di resistenza, emanando per esempio normative che dichiarano invalide le clausole arbitrali nella parte in cui impongono al lavoratore un foro fuori dai confini dello Stato o l’applicazione di un diritto del lavoro diverso da quello della giurisdizione cui appartengono. Ha per esempio fatto così nel 2016 il legislatore californiano e siccome quei limiti alle clausole arbitrali non aggirano il vincolo di arbitrato individuale imposto dal FAA, la normativa sembra al momento salva dalla scure della Corte Suprema federale. Lo Stato di Washington, da parte sua, nel marzo del 2018 ha poi emanato una normativa che dichiara illegale condizionare un’offerta di lavoro alla rinuncia al proprio diritto di denunciare presso una sede amministrativa o giudiziale un comportamento discriminatorio sul luogo di lavoro. Altrettanto è in procinto di fare la California[23].
In questa strategia di opposizione del diritto di prossimità all’annullamento dei diritti dei lavoratori si inserisce la decisione di gennaio della Corte Suprema federale, che apre una finestra di recupero di tutele in un settore importantissimo, quale quello dei trasporti, in cui sono oggi caldissime le battaglie per la mancata protezione dei lavoratori derivante dalla loro classificazione contrattuale come autonomi invece che subordinati (cd. misclassification). La sentenza della Corte Suprema federale arriva, infatti, solo pochi giorni dopo che la Commissione del lavoro californiana aveva irrogato una delle sanzioni più pesanti della storia per “furto di salario” a una potente corporation, la NFI Industries/California Cartage, società numero uno per il movimento di merci presso gli importanti porti di Los Angeles e Long Beach. Riconosciuta responsabile di aver ingiustamente considerato autonomi, invece che subordinati, 24 camionisti portuali, nel gennaio di quest’anno la società è condannata a risarcire agli stessi ben 6 milioni di dollari. La novità più dirompente è però che per la prima volta la Commissione estende la responsabilità al general manager della società stessa, condannandolo al pagamento in solido, in applicazione di una recente normativa che colpisce al cuore le misclassification. Seguendo una durissima linea di attacco alle violazioni perpetrate dai datori di lavoro corporate, una diversa e recentissima normativa californiana prevede inoltre che possano essere condannati in solido perfino i clienti che ricevono le merci, quando la compagnia di cui si avvalgono (e il cui nome compare in una lista resa pubblica dalla Commissione del lavoro) non ha pagato le multe e i risarcimenti dovuti.
È dell’aprile scorso, d’altronde, una decisione della Corte Suprema della California che limita pesantemente la possibilità per i datori di lavoro di qualificare i propri lavoratori come autonomi invece che subordinati. Dichiarando che le leggi sui salari minimi e l’orario massimo di lavoro sono emanate per consentire alla gente di condurre un’esistenza dignitosa e per proteggere la salute dei lavoratori, la Corte Suprema dello stato del sole fa così suo il punto di vista di altre Corti supreme, quali quella del Massachusetts o del New Jersey, rafforzando l’azione della Commissione del lavoro nella battaglia per i diritti dei lavoratori. Anche i Consigli comunali partecipano spesso alla lotta, intervenendo a favore di chi protesta per i propri diritti negati, come ha fatto per esempio il Consiglio comunale di Los Angeles, rifiutando alla NFI Industries/California Cartage l’affitto di una parte del porto di sua proprietà.
In questo quadro di una riscossa dal basso, che parte dal diritto di prossimità (statale e locale), delle tutele dei lavoratori negate invece a livello federale, l’ultima decisione della Corte Suprema federale ha dunque forti potenzialità di impatto sui lavoratori della gig economy, da Amazon a Uber, da Lyft alle mille compagnie di servizi di vendita e trasporto a domicilio.
The gig is up in California!, titolano le agenzie di stampa americane nel dare notizia di quanto qui riportato[24]. Una nuova brezza sembra insomma spirare, in controtendenza rispetto alla direzione del vento che da trent’anni a questa parte ha spazzato via i diritti dei lavoratori statunitensi, relegandoli sulla carta, e la resistenza che il diritto statale ha saputo mostrare rispetto alla linea federale mette in chiaro la vitalità e le potenzialità di un sistema giuridico a federalismo compiuto come quello statunitense.
[1] Cfr. U. Mattei, Three Patterns of Law: Taxonomy and Change in the World’s Legal System, 45 The American Journal of Comparative Law, 5 (1997).
[2] La questione, da tempo dibattuta, è stata com’è noto affrontata a fondo, e con punti di vista differenti, per esempio da Ronald Dworking (Law’s Empire, London, 1986), John A.G. Griffith (Politics of the Judiciary, London, 1985) e Jeremy Waldron (The Law, London, 1989).
[3] Cfr. quali ultime espressioni di in una lunga linea giurisprudenziale volta a limitare l’uso del criterio razziale per consentire un accesso facilitato all’Università alle minoranze, Fisher v. University of Texas del 2013, cd. Fisher I e Fisher v. University of Texas, del 2016, cd. Fisher II, ma soprattutto Schuette v. Coalition to Defend Affirmative Action, 572 U.S. 291 (2014), che dichiara costituzionale il divieto di affirmative action nelle Università pubbliche imposto dal Michigan. Oppure, per le scuole primarie e secondarie, cfr. Parents Involved in Community Schools v. Seattle School District No. 1, 551 U.S. 701 (2007) e la linea di forte chiusura inaugurata sul punto dal Presidente Trump.
[4] Sul punto mi permetto di rinviare a Elisabetta Grande, Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Ega, 2017.
[5] Sul tema mi permetto di rinviare a Elisabetta Grande, Il terzo Strike. La prigione in America, Sellerio, Palermo, 2007.
[6] Cfr. Citizens United v. Federal Election Commission, 558 U.S. 310 (2010).
[7] Oltre ai dati riportati in Elisabetta Grande, Guai ai poveri, cit., si vedano le ultime statistiche ufficiali riportate in Income and Poverty in the United States, U.S. Census Bureau, 2018, tavola A-4: «Number and Real Median Earnings of Total Workers and Full-Time, Year-Round Workers by Sex and Female-to-Male Earnings Ratio: 1960 to 2017», disponibile online www.census.gov/content/dam/Census/library/publications/2018/demo/p60-263.pdf.
[8] Cfr. David Cooper & Terisa Kroeger, Employers Steal Billions From Workers’ Paychecks Each Year (Economic Policy Institute, 2017), disponibile al sito www.epi.org/files/pdf/125116.pdf.
[9] Cynthia Estlund, The Black Hole of Mandatory Arbitration, 96 N.C.L. Rev. 102, 120.
[10] Oxfam America and EPI (Economic Policy Institute), Few Rewards, An agenda to Give Poor American A Rise, disponibile online www.oxfamamerica.org/static/media/files/Few_Rewards_Report_2016_web.pdf.
[11] 500 U.S. 20 (1991).
[12] Cfr. ibidem, pp. 30-32.
[13] 539 U.S. 444 (2003).
[14] 130 S. Ct. 1758 (2010).
[15] 131 S. Ct. 1740 (2011)
[16] Sul punto Maureen A. Weston, The Death of Class Arbitration After Conception?, 60 Kansas Law Review pp. 767, 770 ss. (2012).
[17] American Express Co.v. Italian Colors Restaurant, 133 S. Ct. 2304, 2309 (2013).
[18] Cfr. il rapporto dell’Economic Policy Institute redatto da Alexander J.S. Colvin, The Growing use of Mandatory Arbitration. Access to the Courts is now Barred for more than 60 Million American Workers, April 6, 2018, disponibile al sito: epi.org/144131.
[19] Dopo 25 volte che l’arbitro e la corporation hanno avuto rapporti professionali, per esempio, la percentuale di vittoria per il lavoratore scende statisticamente al 4.5%! Cfr. Alexander J.S. Colvin & Mark D. Gough, Individual Employment Rights In Arbitration Outcomes, 68(5) IRL Review, 1019 (2015). D’altronde un diverso studio dimostra come gli attori vincano mediamente presso le Corti federali il 36.4% delle volte contro il 21.4% in caso di arbitrato e come l’ammontare medio del danno risarcito nel primo caso sia di 176,426 dollari, mentre nel secondo di soli 36,500 dollari: cfr. Katherine V.W. Stone & Alexander J.S. Colvin, The Arbitration Epidemic: Mandatory Arbitration Deprives Workers and Consumers of Their Rights, Economic Policy Institute (2015).
[20] Cfr. Oxford Health Plans, LLC v. Sutter, 133 S. Ct. 2064, 2070 (2013).
[21] 586 U.S. (2019), del 15 gennaio 2019.
[22] Iskanian v. CLS Transportation L.A., 135 S. Ct. 1155 (2015).
[23] Sul punto cfr. Elizabeth Colman, Forced Arbitration: A Race To the Bottom. How America’s Wealthiest, Most Powerful Companies Use Fine Print to Subvert Employee Rights, disponibile online http://employeerightsadvocacy.org/wp-content/uploads/2018/08/NELA-Institute-Report_Forced-Arbitration_A-Race-To-The-Bottom.pdf.
[24] Cfr. online https://justiceforportdrivers.com/1973-2/.