Populismo e diritto. Dialogando con Enrico Scoditti...
1. Affrontare una riflessione sul rapporto tra populismo e diritto – per quanto limitata e senza pretese – obbliga a fermare lo sguardo per qualche istante sul suo orizzonte (non solo concettuale)[1].
Essa tocca al fondo il rapporto tra politica e diritto, incrocia una molteplicità di questioni costituzionali, a loro volta oggetto di ampio dibattito[2]: la crisi della democrazia rappresentativa, della partecipazione democratica, dei partiti politici, del welfare state, soltanto per ricordarne alcune.
La riflessione neppure può sfuggire alla constatazione del precario stato di salute della politica che, per dirla con Agamben, da tempo sembra aver smarrito la consapevolezza del suo proprium lasciandosi “contaminare” dal diritto[3]. E pure quest’ultimo non versa in migliori condizioni di salute: la globalizzazione ne ha investito la cultura, il linguaggio e le categorie, rendendoli progressivamente più simili a gusci vuoti, simulacri di un nobile e antico passato.
Lo iato tra diritto e vita generato dalle trasformazioni epocali discendenti dagli straordinari sviluppi tecnologici tocca la dimensione spazio-temporale e la natura di tutte le azioni e le relazioni umane, giungendo financo al cuore della questione antropologica (si pensi all’impatto della biogenetica, all’applicazione degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale).
Élites intellettuali e classi politiche paiono in prevalenza distratte o in disarmo, “schiacciate” dalla gravità delle sfide o forse dalla sottovalutazione dei fenomeni ad esse correlati.
Anche i cultori del diritto faticano ad orientarsi in questo inedito contesto, in cui la “positività” del diritto statuale è messa sotto scacco da una più “efficiente” liquidità del diritto globale[4]. Dal canto loro internazionalisti, cultori del diritto europeo, costituzionalisti e comparatisti hanno dedicato spazi di riflessione condivisa alla ricerca di un “diritto comune” in grado di restituire i lineamenti di un ordine globale.
Smarrito il paradigma di validità formale del diritto, ci si rivolge alla sostanza, l’efficacia (saldata all’effettività)[5], con tutte le conseguenze che ne discendono in termini di garanzie (legalità, certezza, giustiziabilità).
Le trasformazioni in atto investono la forma di Governo ed esigono la ridefinizione dei confini tra i poteri, inducono altresì a riconsiderare la nozione stessa di potere. Grandi multinazionali, mercati finanziari, agenzie di rating, autorità indipendenti, potenti law firms sottraggono decisioni alle istituzioni politiche, sfilandole dal circuito democratico[6]. Difficile in tal guisa approntare adeguati limiti, checks and balances, a poteri “sfuggenti”, che minacciano in radice i principi fondanti del costituzionalismo, in primis la separazione dei poteri e la rule of law.
I più attrezzati culturalmente potrebbero essere tentati di osservare che non v’è nulla di nuovo in tutto ciò[7], invocando i corsi e i ricorsi storici di vichiana memoria. Può darsi che abbiano ragione, eppure vi è chi vi intravvede un che di potenzialmente dirompente[8].
2. Questo l’orizzonte nel quale si iscrive il diritto oggi e che costituisce il terreno fertile di coltura in cui negli ultimi anni sono fioriti movimenti politici, tra loro assai eterogenei – anche in ragione dell’area geo-culturale di riferimento (europea, nordamericana, sudamericana) – che si suole ricondurre alla polisemantica nozione di populismo.
Sebbene in tali movimenti siano riconoscibili tratti delle elaborazioni del pensiero giuridico del secolo scorso[9] – come l’idea di “capo”, di leader carismatico che interpreta lo “spirito del popolo”, di popolo assunto in chiave identitaria, come Nazione, contrapposto agli stranieri e all’establishment corrotto, opportunista ed autoreferenziale – purtuttavia, com’è stato opportunamente sottolineato, gli attuali populismi esprimono in realtà un nuovo cleavage insorto con la globalizzazione e l’integrazione europea che registra l’emersione di populismi di destra (nazionalisti, contrari all’immigrazione) e di sinistra (contrari al mercato globale, alle liberalizzazioni che pregiudicano welfare e servizi pubblici)[10].
E a livello nazionale troviamo, infatti, ben rappresentati entrambi i versanti, accomunati dalla critica alle istituzioni democratiche, ai cd. “poteri forti”, ai poteri di garanzia; dalla valorizzazione degli istituti di democrazia diretta; da una comunicazione politica volta a suggestionare più che ad informare e persuadere razionalmente; da leaders carismatici interpreti autentici della vox populi[11].
Si comprenderanno allora le ragioni per le quali non pare condivisibile, se ben la si è compresa, la prospettiva ideologico-culturale che sembra sottesa alle considerazioni conclusive di Enrico Scoditti nella sua bella introduzione (Populismo e diritto. Un’introduzione, in questo fascicolo).
Dall’incapacità di mediazione della politica, dalla sua perdita di «capacità di formare il proprio popolo», dal suo venir meno alla funzione di civilizzazione, divenendo «espressione di disagio e rancore sociale»[12] si fa discendere una sorta di “chiamata” rivolta ai giuristi:
«Gli uomini del diritto potrebbero entrare in una terra irta di ostacoli e dalla luce opaca, nella quale assolvere con convinzione ma anche con nuove responsabilità i propri compiti. Almeno finché non sia tornato il tempo della politica e di una nuova civilizzazione».
Ma gli uomini del diritto da tempo abitano «una terra irta di ostacoli e dalla luce opaca»! Confesso perciò il brivido che mi ha attraversato al pensiero dell’ennesima supplenza degli “uomini del diritto” alla politica: ho rivisto i costituzionalisti scrivere documenti di centinaia di pagine sulle possibili riforme costituzionali; li ho visti dividersi in due schieramenti contrapposti nella stagione del referendum costituzionale da poco archiviata. Ho ripercorso in un istante la stagione di Tangentopoli, la “Seconda Repubblica”, e la “Terza”[13], domandandomi se gli “uomini del diritto” cui si rivolge la “chiamata” fossero in realtà solo i magistrati e se si auspicasse l’apertura di una nuova stagione di reazioni contro il populismo di Salvini e di Di Maio-Grillo, analoghe a quelle messe in atto contro altri populismi, quelli di Bossi, di Berlusconi, di Renzi.
3. Il vulnus alla Costituzione di cui oggi si discute, sia sul fronte dei diritti degli immigrati[14] che sul fronte del diritto penale[15], può e deve essere combattuto con le armi che la stessa Costituzione fornisce in sua difesa.
L’indebolimento delle istituzioni nazionali ad opera della globalizzazione e dell’integrazione europea non ha toccato il potere giudiziario, il quale trae forza da una collaudata rete internazionale[16]. Non è dunque ingenuo ritenere che esso sia già tecnicamente ben attrezzato per difendere la Costituzione, senza che si invochino compiti e responsabilità straordinarie.
La garanzia della soggezione del giudice (soltanto) alla legge, infatti, non può che essere intesa nel quadro delle garanzie poste a presidio della Costituzione, della sua rigidità, in primis il judicial review of legislation[17].
Il giudice pertanto non è affatto obbligato ad applicare in ogni caso la legge incostituzionale, al contrario, egli è tenuto semmai a sollevare il relativo dubbio di costituzionalità dinanzi al Giudice delle leggi allorché non sia in grado di risolvere in via interpretativa il contrasto con la Costituzione, secondo la celebre sentenza n. 356 del 1996, in modo che la Corte costituzionale possa espungere definitivamente dall’ordinamento la norma incostituzionale con effetti ex tunc ed erga omnes[18].
Se è la passione civile a suscitare la preoccupazione del magistrato, allora andrebbe ricordato ch’essa trova nella garanzia dell’indipendenza il proprio limite[19]. Le giurisprudenze costituzionali ed europee fanno discendere proprio dal principio di imparzialità e di indipendenza l’obbligo per il giudice di essere e di apparire tale.
Nessuna forma di supplenza della politica può dirsi perciò compatibile con questa imprescindibile garanzia, salvo ritenere che sia possibile svincolare la interpretazione dei due commi dell’articolo 101 della Costituzione: reinterpretando il rapporto tra il giudice e la sovranità popolare a prescindere dalla mediazione formale della legge, vale a dire ancorandolo direttamente al consenso popolare impropriamente forzando il senso dell’inciso «in nome del popolo» contenuto nel primo comma.
Ci troveremmo però al cospetto di un altro tipo di populismo, quello giudiziario: fenomeno che ricorre, infatti, «tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere un ruolo di autentico rappresentante o interprete dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (…) al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza se non addirittura di aperto conflitto con il potere politico ufficiale»[20]. Un magistrato-tribuno, un magistrato-sacerdote, paladino della giustizia, interprete degli interessi dell’altra parte del popolo, quella (ritenuta) buona, sana.
E in tale ottica, il magistrato può contare proprio sulla crisi della legge, del diritto politico-legislativo, può sfruttare abilmente i varchi aperti dai principi della Costituzione repubblicana[21], dalla globalizzazione e di quelli aperti dall’integrazione europea che gli consentono financo di “non applicare” la legge incompatibile col diritto europeo.
È allora la stessa inclusione della giurisprudenza (il cd. diritto giurisprudenziale) tra le fonti del diritto a rendere urgente il ripensamento delle garanzie costituzionali, perché i rischi del populismo giudiziario, di qualsiasi natura esso sia, paiono più devastanti di quelli connessi al populismo politico[22].
4. In conclusione, pur senza arretrare di un passo rispetto all’esigenza di protezione dei diritti fondamentali, patrimonio comune “indisponibile” del costituzionalismo, e pur vigilando con la massima attenzione sulle derive sempre possibili dei populismi politici, non può obliterarsi che essi paiono uno dei sintomi della crisi dei sistemi democratici travolti dalla globalizzazione, non soltanto mere forme di regressione della civiltà occidentale.
Il cambio di prospettiva, non è banale. Può essere pericoloso, infatti, indulgere alla tentazione di colpire l’ultimo bersaglio politico a tiro, la cui sconfitta non può che essere scontata, con l’illusione di contribuire a ripristinare in tal guisa il tessuto sfilacciato della democrazia. Le cellule cancerogene che affliggono i sistemi democratici, intanto, continuano a riprodursi indisturbate, lontane dal “circo mediatico-giudiziario”.
Si potrebbero invece rinvigorire alleanze tra le diverse componenti della comunità degli “uomini del diritto”: magistratura, avvocatura e accademia, affinché nessuna componente possa sentirsi isolata o costretta ad una sovraesposizione; e, al contempo, ciascuna faccia responsabilmente la sua parte.
La riflessione scientifica su populismo e diritto andrebbe dunque condotta con la prospettiva di comprendere (non di giudicare) le ragioni e i sentimenti che finiscono con il nutrire i movimenti populisti, assumendo tali fenomeni come stimoli in vista della correzione dei difetti dei sistemi democratici.
Senza paura, senza allarmismi, con la serenità di chi cerca di fare bene il suo mestiere.
[1] Sul quale si rinvia al limpido testo introduttivo di Enrico Scoditti, Populismo e diritto. Un’introduzione inquesto fascicolo.
[2] Si v. gli Atti del convegno AIC, Democrazia, oggi, svoltosi a Modena, 10-11 novembre 2017, ed in particolare le relazioni conclusive di A. D’Atena, Tensioni e sfide della democrazia, in Rivista AIC, n.1/2018 e di L. Ferrajoli, Democrazia e populismo, in Rivista AIC, n. 3/2018.
[3] Scrive G. Agamben (in Lo Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003): «La politica ha subìto una durevole eclisse perché si è contaminata col diritto, concependo se stessa nel migliore dei casi come potere costituente (cioè violenza che pone il diritto) quando non si riduce semplicemente a potere di negoziare col diritto. Veramente politica è, invece, soltanto quell’azione che recide il nesso fra violenza e diritto.» p. 112.
[4] In argomento cfr. G. Scaccia, Il territorio fra sovranità statale e globalizzazione dello spazio economico, in Di alcune grandi categorie del diritto costituzionale. Sovranità, Rappresentanza, Territori. Atti del XXXI Convegno annuale AIC, Trento 11-12 novembre 2016, Jovene, Napoli, 2017.
[5] A. Algostino, Diritto proteiforme e conflitto sul diritto. Studio sulla trasformazione delle fonti del diritto, Giappichelli, Torino, 2018, p. 106.
[6] Cfr. ancora A. Algostino, Op. cit., pp. 98 ss e M. Luciani, L’antisovrano e la crisi delle Costituzioni, in Rivista di Diritto costituzionale, 1996, pp. 164 ss.
[7] E in effetti le pagine di F. Calasso (in Medio evo del diritto. I. Le fonti, Giuffrè, Milano, 1954) sembrano di grande attualità.
[8] Si v. Y.N. Harari, From Animals into Gods: A Brief History of Humankind (2011), trad. it Sapiens. Da Animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Bompiani, 2014 e Id., Homo Deus. A Brief History of Tomorrow (2015), trad. it. Homo Deus. Breve storia del futuro, Bompiani, Milano, 2017.
[9] Invero già G. Le Bon (in Psychologie des foules - 1895, trad. it. Psicologia delle folle. Un’analisi del comportamento delle masse, TEA, Milano, 1970) individuò gli elementi che divennero rappresentativi dei populismi attraverso l’osservazione del comportamento delle folle.
[10] M. Manetti, Costituzione, Partecipazione democratica, populismo, in Rivista AIC, 3/2018, p. 2.
[11] Si v. ancora, tra i molti contributi in argomento, più di recente V. Baldini, Populismo versus democrazia costituzionale. In “dialogo” con Andreas Voßkuhle…, in Dirittifondamentali.it, n.2/2018; P. Ciarlo, Democrazia, partecipazione popolare e populismo al tempo della rete, in Rivista AIC, n. 2/2018; L. Ferrajoli, Democrazia e populismo, cit., M. Manetti, op cit.
[12] Ancora E. Scoditti, Populismo e diritto. Un’introduzione, cit.
[13] Per una compiuta ricostruzione si v. E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblica, Laterza, Bari-Roma, 2018, pp. 241 ss.
[14] Con la emblematica vicenda della Nave Diciotti, sulla quale si rinvia agli scritti di L. Masera pubblicati in questa Rivista on line, www.questionegiustizia.it/articolo/la-richiesta-di-autorizzazione-a-procedere-nel-caso-diciotti_29-01-2019.php.
[15] Nel limpido affresco di V. Manes, Diritto penale no-limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, in questo fascicolo.
[16] S. Cassese, Chi governa il mondo?, Il Mulino, Bologna, 2013.
[17] Nella storica sentenza Marbury v. Madison, U.S. 137 (1803), si legge, infatti: «[…] if a law be in opposition to the Constitution, if both the law and the Constitution apply to a particular case, so that the Court must either decide that case conformably to the law, disregarding the Constitution, or conformably to the Constitution, disregarding the law, the Court must determine which of these conflicting rules governs the case. This is of the very essence of judicial duty. If, then, the Courts are to regard the Constitution, and the Constitution is superior to any ordinary act of the Legislature, the Constitution, and not such ordinary act, must govern the case to which they both apply. Those, then, who controvert the principle that the Constitution is to be considered in court as a paramount law are reduced to the necessity of maintaining that courts must close their eyes on the Constitution, and see only the law. This doctrine would subvert the very foundation of all written Constitutions.».
[18] In argomento si v. V. Onida, L’attuazione della Costituzione tra magistratura e Corte costituzionale, in Scritti in onore di Costantino Mortati. Aspetti e tendenze del diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1977, pp. 503 ss.
[19] L. Saraceni, Un secolo e poco più, Sellerio, Palermo, 2019.
[20] Così G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, p. 105.
[21] N. Irti, L’età della decodificazione, Milano 1979, pp. 29 ss.
[22] E. Bruti Liberati, Magistratura e società…, cit., p. 333.